Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d'erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d'ulivo la figurina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all'albero dolce della pianura.
(Corrado Alvaro: "Gente in Aspromonte", Garzanti, Milano 1996, p. 3)
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