domenica 26 luglio 2020

La natura nella poesia italiana decadente e simbolista


Nel descrivere paesaggi, fenomeni e trasformazioni naturali, i poeti decadenti e simbolisti rimangono spesso estasiati; così, gli spettacoli offerti dalla natura divengono qualcosa di arcano e nello stesso tempo incomparabilmente bello. Sia in chi ha una fede religiosa, sia in chi non ce l'ha, nascono emozioni e sentimenti che vanno oltre la sfera del razionale, e la natura diviene così ella stessa divinità (o manifestazione del divino). Però ci sono anche i poeti che, rifacendosi al Leopardi, vedono nella natura una sorta di entità lontana e del tutto indifferente sia alle sorti dell'umanità, sia a quelle di qualunque altro essere vivente; tra questi c'è sicuramente Carlo Vallini, che, come spiega bene il titolo di una sua poesia, in modo assai amaro fa dell'ironia sull'esistenza dell'uomo e sul mondo in cui vive; più subdolo e sarcastico si dimostra Antonio Rubino, che giunge a dire: «...e il mondo è come un cuore, / come un immenso cuore che deliri». Ma più vicino al Leopardi è sicuramente Arturo Graf, che chiaramente accusa la natura di essere ambigua e incomprensibile, e di porre insidie e trappole nei luoghi che appaiono tra i più rassicuranti. Provocatoria è la lirica di Enrico Cavacchioli che, in perfetta sintonia con i proclami del futurismo, incita la natura affinché distrugga il vecchio armamentario del mondo, in modo da poterlo sostituire con una "nuova civiltà". Non mancano coloro che provano a personificare la natura: Giovanni Alfredo Cesareo, per esempio, la vede come un "Avola cieca" che vive in completa solitudine, sedendo "fuori del tempo e fuori dello spazio".



Poesie sull'argomento

Enrico Cavacchioli: "Sermone alla natura" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "Le forme" in "Homo" (1907).
Giovanni Alfredo Cesareo: "L'Avola" in "Le consolatrici" (1905).
Girolamo Comi: "Cantico dell'Argilla" in "Cantico dell'Argilla e del Sangue" (1933).
Ugo Codogni: "Alla Terra" in "Poesia", gennaio 1906.
Italo Dalmatico: "Io, solo, in vetta, a la montagna..." in "Juvenilia" (1903).
Luigi Donati. "Sinfonia" in "Poesia di passione" (1928).
Giulio Gianelli: "Le guide" in "Mentre l'esilio dura" (1904).
Corrado Govoni: "Amo" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "O natura!" in "Medusa" (1990).
Giuseppe Lipparini: "Circe" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Marino Marin: "Provvida è la natura..." in "Sonetti secolari" (1896).
Nino Oxilia: "Sotto i ciuffi dell'erba umida..." in "Canti brevi" (1909).
Guido Ruberti: "All'amica lontana" in "Le Evocazioni" (1909).
Antonio Rubino: "La bellezza del mondo" in «Poesia», ottobre 1908.
Emanuele Sella: "Il Nascimento d'una Pianta Nuova" in "Rudimentum" (1911).
Emanuele Sella: "Infantia mundi" in "L'Ospite della Sera" (1922).
Giovanni Tecchio: "In alto" in "Canti" (1931).
Federigo Tozzi: "In Maremma" in "La zampogna verde" (1911).
Carlo Vallini: "L'ironia" in "Un giorno" (1907).



Testi

IO, SOLO, IN VETTA ALLA MONTAGNA...
di Italo Dalmatico

Io, solo, in vetta a la montagna. Passa
il corpo di una nuvola fra il monte
e il sole: e l'ombra passa su la fronte
de le rocce. Laggiù, fuma la grassa

terra che l'uomo avidamente squassa,
preme, frange, apre, semina con pronte
mani, levando gli occhi a l'orizzonte
torbido. (Morte generosa ingrassa

le terre onde verrà pane per noi).
Liberi, in alto, i falchi. E laggiù, cupi
servi, pia madre terra, i figli tuoi,

ne l'ombra fredda, dentro il solco breve,
bestie al pascolo, cani a l'acqua, lupi
ringhiosi su gran campi di neve.

(da "Juvenilia", p. 42)




INFANTIA MUNDI
di Emanuele Sella

Madre Natura tiene l'occhio fisso
sopra un bimbo piangente: e questo bimbo
è il Mondo: sulle teste alita un nimbo
di stelle e sotto i piedi ella ha l'abisso.

E come ella si libri sullo spazio
è un cieco enigma, e come ella lo guidi
e lo governi e pe' cammini infidi
ne blandisca col cantico lo strazio.

Ma d'un tratto si sente venir meno
per la fatica; ...odesi in lontananza
un armento che lento lento avanza
nell'aspra notte sotto il ciel sereno.

(da "L'ospite della sera", p. 32)





Alfons Maria Mucha, "Nature"
(da questa pagina web)



domenica 19 luglio 2020

La "dolce morte" in 5 poesie italiane


Sono in tanti a pensare che il passaggio dalla vita alla morte non sia così drammatico come invece accade troppo spesso di immaginare. Per esempio, alcuni tra coloro che si sono trovati in punto di morte per vari motivi e sono riusciti a scamparla, durante l'agonia affermano di aver visto un tunnel con in fondo una luce; ci sono altri che, sempre in quei difficili momenti, hanno provato una estrema leggerezza o cose del genere.
Le cinque poesie che riporto di seguito trattano l'argomento della "dolce morte" ovvero del trapasso senza sofferenza alcuna.
La prima lirica è di un poeta assolutamente sconosciuto; infatti, oltre alla lettera iniziale del nome ed al cognome, ricavati entrambi dalla pagina della rivista dove furono pubblicati questi suoi versi, non sono riuscito a trovare nulla. A proposito del cognome, forse potrebbe essere legato in qualche modo a quell'Antonello Caprino che fu amico di Sergio Corazzini, e che scrisse anch'egli poche poesie pubblicate su alcune riviste del primissimo Novecento. Il tema di Sera, è decisamente pre-crepuscolare, essendo presenti alcuni elementi cari alla corrente poetica di Corazzini e sodali. In un'atmosfera serale, assai sfumata e colma di malinconia, il poeta immagina la sua dolce morte, assistito e confortato nelle sue ultime ore di vita da una fanciulla pia, la quale, una volta sepolto, si recherà presso la sua tomba e col suo inconsolabile pianto dimostrerà un sincero e inalterato amore verso di lui.
La seconda poesia è di Umberto Castelli: anch'egli un poeta del tutto sconosciuto (per lo meno a me). Il tema della lirica ricalca quello della precedente, poiché il poeta, con toni estremamente languidi, invoca una morte dolce, che si sostanzia in una visione dove predomina una luce velata, e dove si respirano a pieni polmoni atmosfere rarefatte e paradisiache; tutto ciò avviene tramite un sogno ad occhi aperti, ovvero una pura illusione in cui l'uomo immagina che il passaggio all'altro mondo avvenga con incredibile facilità e con il massimo piacere.
La terza poesia, di Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 1888 - Savona 1967), più che di "dolce morte", tratta del desiderio personale di conoscere in anticipo il momento del proprio decesso: ciò permetterebbe al poeta di compiere una serie di atti già premeditati per rendere il tragico evento meno doloroso, anzi, quasi dolce; eloquenti a tal proposito gli ultimi versi in cui Sbarbaro parla del suo congedarsi dalla "dolce" terra carezzando semplicemente un ciuffo d'erba: ultimo gesto prima di porre il "sigillo finale" alla vita.
La quarta poesia è di Attilio Bertolucci (Parma 1911 - Roma 2000) e centra in pieno l'argomento, visto che il protagonista è un moribondo che, prima di lasciare la vita ha una serie di visioni paradisiache unite al riaffiorare dei ricordi più belli dell'infanzia; l'Hora mortis è vissuta come qualcosa di normale, che avviene nella "serena luce", come ad evidenziare il fatto che non comporti alcun tipo di strazi o di paure.
La quinta, di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957), fu scritta poco tempo prima della sua dipartita a causa di una grave malattia. Qui, più che di "dolce morte", si tratta di una sensazione spiacevole provocata dal "ritorno alla vita" dopo una crisi che presagiva la morte: il poeta afferma che la terribilità non sta nel decesso, ma nel sopravvivere quando ormai il corpo si era assuefatto al passaggio nell'al di là. Da tenere presente, in questo caso, la fervida religiosità di Rebora che spera di superare l'abisso di dolore grazie all'abisso di misericordia concesso dal Signore.
Il pensiero della dolce morte, a mio parere, è sempre appartenuto alle anime che hanno più sofferto per svariati motivi; ricordo, a tal proposito, che tanti anni fa, nella frazione dove io risiedo viveva un giovane che ben presto perse le sue facoltà mentali, e, per tale motivo, fu più volte ricoverato e quindi curato con dei sedativi e altre medicine similari. Un giorno, io e i miei genitori lo incontrammo in una piazza: era divenuto un'altra persona rispetto a quella che conoscevamo e pareva vivesse in una sorta di sonnambulismo perpetuo; scambiammo qualche parola con lui, ma i suoi discorsi spesso risultavano sconnessi, senza un filo logico; non so come né perché, ma ad un certo punto disse: «Io non ho fatto una bella vita, questo è sicuro, ma è altrettanto vero che la mia morte sarà bellissima!». Alcuni anni fa morì, e non so se il suo trapasso sia stato piacevole o meno; ma per lui, così come per tutti coloro che troppo hanno sofferto in questa vita, spero che l'ultimo viaggio si sia rivelato meraviglioso.



LA "DOLCE MORTE" IN CINQUE POESIE ITALIANE



SERA
di G. Caprino

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

Mentre il giorno sen muore, e lento lento
un velo cupo fascia la natura,
                  nascer nel cuore sento
come un vago desio di sepoltura.

In tanta morte, solo ad occidente
roseo sorride ancor di cielo un lembo,
                  e par che arcanamente
l'ultime spemi culli nel suo grembo.

E, mentre l'ombra incalza d'ogni lato,
da quel nido d'amor che va mancando,
                  da quel nido incantato
Venere guarda in estasi, sognando...

... Ed io sogno un crepuscolo lontano,
una fanciulla china su i ginocchi,
                  che con la bianca mano
amorosa e gentil mi chiuda gli occhi.

... Ed io sogno una bruna e mite sera,
sogno una croce e una fanciulla pia,
                  che, in una pace austera,
sieda piangendo su la tomba mia...

Pesan su i campi sonnolenze blande,
su i campi silenziosi intorno, intorno;
                  serenamente spande
dolce mestizia il moriente giorno.

(da «Gazzetta Letteraria», febbraio 1890)




IL TOMBOLO
di Umberto Castelli

Guardavo, con gli occhi velati
di sonno, le dita sottili
fiorir (vaghi steli adorati!)
un candido intrico di fili...

Sul tavolo, ingombro di mille
leggiadre minuscole cose,
tra un pallido serto di rose
pioveva un fulgore di stille...

- Poeta?... che cosa sognate?...
- chiedeste, con scherno gentile...;
e vidi le labbra perlate
da un tenue sorriso infantile...

- Sognavo?... Non so...: mi sembrava
di andare lontano lontano,
tenuto a una piccola mano
che tutta di gigli odorava...

O languide aurore!... silenti
tramonti d'ignote contrade...
carezze di tiepidi venti...
dolcezze di molli rugiade...

Sognavo?... O manine di fata,
sol questa è la gioja che agogno:
velare la vita di un sogno,
d'un sogno di mente malata...

Un sogno di fiori, di luce,
che avvolge di languide spire,
che lento ne l'anima induce
un vano desio di morire...

"Morire!"... La strana parola
suonò come un triste presagio...
Provai di ripeterla adagio:
... un nodo mi strinse la gola...

Guardavo, tra i cigli socchiusi,
le piccole mani di neve...
"Morire!"... Dei piccoli fusi
si tacque la musica lieve...

Non più rivedere le stelle...
non più rivedere la luna...
Nessuna nessuna nessuna
di tutte le favole belle...

(da «Il Secolo XX», febbraio 1912)




A VOLTE QUANDO GUARDO LA MIA VITA
di Camillo Sbarbaro

A volte quando guardo la mia vita
e, tizzo che di cenere si copre,
ciò che feci ai miei occhi si scolora,
con un brivido freddo mi percorre
l’improvvisa paura di morire.

Se domani morissi, se sapessi
di morire, la casa lascerei
ed uscirei a zonzo per le vie
per rimanere solo con me stesso
con sopra il capo il cielo vasto e vuoto
sotto i piedi la terra fredda e dura,
come solo sarei in faccia al nulla.

Tra gli umidi guanciali non mi spenga
senza rumore qualche malattia,
come debole fiamma poco vento!

Pellegrinando andare per quei luoghi
dove passai da piccolo col padre;
dare
il primo bacio e l’ultimo agli amici;
toccare l’erba
come si tocca un capo di bambino
e saper che quell’è l’ultima volta;
prender congedo dalla dolce terra:
dolce così non mi sarà mai parsa...

Poi mettere alla vita il mio sigillo.

(da "Pianissimo", Marsilio, Venezia 2001, p. 75)




POI NELLA SERENA LUCE
di Attilio Bertolucci

Come venne l'estate, grosse farfalle bianche
entravano nella stanza senza rumore;
le sue mani, sul lenzuolo, erano due grandi farfalle
morte, bianche, colorite leggermente di sangue.
Quando scendeva la sera
piena di stanchi gridi e di voli,
gli entrava nel cuore come una frescura,
gli si chiudevano gli occhi, lo coprivano sogni e nostalgie.
Oh, le gaggìe dalle foglie strette e lunghe
di cui si riempirono le mani,
l'acqua gelida e scura, il canto delle trebbiatrici
nella polvere di luglio, e la sera come una melanconica fanciulla
coronata di vivide stelle,
la rugiada e le favole e il canto dei grilli:
tutta la sua infanzia.
Gli occhi avevano perduta ogni ombra,
il cuore era rifiorito.
Si ricordava di tante cose variopinte,
dei natali di un tempo.
Era come un sasso su cui passa un'azzurra riviera.
Poi nella serena luce
venne la morte.

(da "Poesie", Garzanti, Milano 1990, p. 69)




TERRIBILE RITORNARE A QUESTO MONDO
di Clemente Rebora

Terribile ritornare a questo mondo
quando già tutte le fibre
erano tese
a transitare!
E il corpo mi rifiuta ogni servizio,
e l’anima non trova più suo inizio.
Ogni voler divino è sforzo nero.
Tutto va senza pensiero:
l’abisso invoca l’abisso.

19 aprile 1956

(da "Le poesie", Garzanti, Milano 1993, p. 293)




Émile Jean-Horace Vernet, "The Angel of Death"
(da questa pagina web)

domenica 12 luglio 2020

Antologie: "...come una volta mi darai la mano..."

in ricordo della mia mamma


Questa antologia, che fu pubblicata dall'editore Mursia di Milano nel 1990, è una delle migliori - almeno tra quelle che ho consultato personalmente - dedicate alla figura materna. Il curatore, Luigi Santucci (Milano 1918 - ivi 1999), è stato uno scrittore egregio, autore di buoni romanzi e di una raccolta poetica intitolata Se io mi scorderò (Mondadori, Milano 1969), che si distingue per il fatto che tutti i versi ivi presenti hanno come argomento portante la dolorosa perdita della mamma: evento recente che aveva - come si evince dalla lettura delle sue poesie - lasciato un segno profondo nella vita dello scrittore meneghino. Anche questa antologia contiene molti versi che pongono l'accento sull'assenza della madre: dovuta ad una lontananza momentanea o perpetua  (in quest'ultimo caso, il dolore è evidentemente più percepibile e struggente). I poeti qui presenti possono essere considerati tra i migliori del XIX e del XX secolo, siano essi italiani o stranieri; a questo riguardo è estremamente esplicativo il sottotitolo dell'antologia:

le Poesie alla madre che / da Heine a Ginsberg / da D'Annunzio a Pasolini / hanno svolto / un tema intimo e universale / nella poesia degli ultimi due secoli

Altrettanto esplicativa mi pare la motivazione dell'opera antologica, che è presente sull'aletta anteriore della sovraccoperta del libro. Anche in questo caso riporto il contenuto:

Questa raccolta vuol essere un poetico omaggio alle mamme. A esse e insieme, non meno, ai figli: dunque al sentimento più alto, indiscusso e universale, dopo quello religioso, che eleva gli uomini in ogni terra e in ogni tempo, ad ogni livello d'intelligenza, di civiltà, di moralità. Un libro che intende dunque rivolgersi, fuori da umane discriminazioni, ai migliori come ai peggiori di noi, ai letterati e agl'ignoranti, ai santi e ai briganti.
Non è forse artificioso cogliere in ogni espressione della lirica - anche in quella epica e guerresca - una radice segreta che è della madre: di colei che ci ha dato, oltre la vita fisica, il sentimento stesso della vita e della morte, e perciò di tutto; non è allora arbitrario percepire, in ogni brano di vera poesia, un grido di figlio.

Aggiungo che la scelta dei componimenti poetici è senz'altro adeguata, anche se non ho ben compreso il motivo per cui, in alcuni casi, il curatore ha cambiato i titoli delle poesie.
Chiudo, come al solito, riportando i nomi dei poeti presenti in questa bella antologia.






...come una volta mi darai la mano...

Osvaldo Alcantara, Damaso Alonso, Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi, Wilhelm Busch, Marcello Camilucci, Giorgio Caproni, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Cena, Giovanni Cristini, Gabriele D'Annunzio, Edmondo De Amicis, Luciano Erba, Sergej Esenin, Evgenij Evtušenko, Enzo Fabiani, Achille Formis, Allen Ginsberg, Giuseppe Giusti, Albrecht Haushofer, Heinrich Heine, José Luis Hidalgo, Attila Jósef, Erich Kästner, Rudyard Kipling,Maurice Magre, Kaoru Maruyama, Nikolaus Lenau, Mario Luzi, Gabriela Mistral, Eugenio Montale, Marino Moretti, Eduard Mörike, Kazumasa Nakagawa, Gábor Olá, Giovanni Pascoli, Pier Paolo Pasolini, Corrado Pavolini, Antonia Pozzi, Emilio Praga, Giovanni Prati, Salvatore Quasimodo, Nelo Risi, Salvador Rueda, Umberto Saba, Sônosuke Satô, Ina Seidel, Leonardo Sinisgalli, Jaroslav Smeljakov, David Maria Turoldo, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Giorgio Vigolo

domenica 5 luglio 2020

10 città europee in 10 poesie italiane del XX secolo


Ecco dieci poesie dedicate a dieci città europee. L'Europa, che è anche chiamata il "vecchio continente", possiede un patrimonio inestimabile in quanto a bellezze naturali e monumentali; certamente la nazione italiana in questo preciso discorso ha un'importanza fondamentale e imparagonabile, ma ci sono anche tanti altri luoghi bellissimi e unici, al di fuori dei confini italici. Tra le città di cui parlano questi versi, c'è Bruges: affascinante, misteriosa, mistica e resa famosa da un celebre romanzo di Georges Rodenbach, nonché dai versi dei poeti crepuscolari. C'è Varsavia: capitale polacca qui descritta con amore da Fernando Bandini. C'è la stupenda Salisburgo: città austriaca che possiede un fascino unico per la posizione in cui si trova e per la particolare bellezza che la contraddistingue. C'è una breve poesia dedicata a Cadice: città spagnola dell'Andalusia che si affaccia sul mare. C'è Malmö: città svedese tra le più industriali e moderne, situata all'estremo sud della nazione scandinava. C'è Nizza: città francese che si affaccia sull'ineguagliabile Costa Azzurra; e ci sono anche altre città meravigliose come Praga, Londra, Amsterdam, Losanna... (in realtà ve ne sono assai di più, ma questo mio post non poteva rappresentarle tutte).



10 CITTÀ EUROPEE IN 10 POESIE ITALIANE DEL XX SECOLO



VARSAVIA
di Fernando Bandini (1931-2013)

A invisibili nevi che svela
un incauto tremore del giorno
si dirige quest'oggi lo stupore dell'anima,

al segnale di nevi che arriva
da remoti confini, alla piccola
piazza di Zoli Bosc

dove l'autunno ha il colore
d'una fragile patria, di foglie
ingiallite che passi leggeri calpestano.

Poi non un segno ma il vento del Nord,
ma la calda dolcezza di case
dalle porte serrate dove ronzano voci

di bambini e di donne. Là il vento,
viandante  che ha penne di sangue,
non bisbiglia sugli usci che parole d'amore.

La pioggia che schianta i telai
delle serre inondando i giardini
rifluisce alla Vistola oscura

così gonfia che forse stanotte
nascerà un altro fiume bambino.
E subito dopo la neve cadrà

da spazi lontani, la tenera
neve che lievita il mondo,
e cadranno i sorrisi e le amate speranze.

E cadranno gli uomini forti
e le donne soavi che tu
silenziosa raggera dei giorni consoli.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2018, p. 348)




SALZBURGER
Allegro - Andante - Adagio
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Luna candida e amara che riappari
come sull'Inn in piena in cui i fanciulli
pescavano il legname delle rive
per accendere il fuoco quest'inverno,
svelandoti a fatica dall'azzurra
bruma dell'infinito, puntuale
riaccendi le pupille, inebriata
di mondi...

            A Salisburgo dal Mönchsberg
il faro che scopriva i campanili
barocchi, a mezza costa la fortezza
e le cupole verdi di salnitro
quasi fredde meduse trasparenti
col suo bacio lontano, giù nell'alveo
che cercava delle acque della Salzach?
La chiesa della Santa Trinità
- sulla Makart piovra di speranza -
nel planetario era stella fissa...

Ora tu scendi, luna ossia raggera
a cercare che cosa, dilatata,
su boschive penombre nel silenzio
il tuo lume di cera già rappreso,
colmi il passo dei buoi, scoppi nel seme
delle piagge piagate, della rondine
sprechi l'occhio furtiva nero e cupido
sotto l'ala nel nido in cui s'è arreso:
piange il bimbo, la sua voce decade
dalla finestra nel cortile, io aspetto
nell'angolo del tetto cupo in terra
mentre il gatto nel tuo candore abbaglia
tra le botti e le tese ragnatele.

(da "Stato di cose", Mondadori, Milano 1968, pp. 251-252)




CADICE
di Vittorio Bodini (1914-1970)

Una chitarra piena
di sentinelle morte,
una bianca chitarra
fra le braccia del muscoloso Atlantico.

E verso San Fernando
i riflessi rabbiosi che saltellavano
come pulci sulle saline.

(da "Tutte le poesie", Besa, Lecce 1997, p. 181)




MALMÖE
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Terra di Svezia, ti premo!
Ecco i navigli
che portano i nomi dei Gustavi e degli Oscar:
ecco le bandiere
di Wasa e Bernadotte che sbattono sugli alberi!
La landa vasta cerulea corre
segnata di lente ruote di mulini.
Il mare rifugge
delle danesi coste al bacio.
Solo i cannoni dei secoli si puntano
l'un contro l'altro fissi
traverso lo spazio d'aria e d'acqua.
Luccica il suolo delle vie
come argento polito,
le belle donne, pallide
dai piedi ai capegli, si bagnano
pubbliche, in faccia agli uomini.
E per le vie nitide, vestite da Nore, non guardano,
con gli occhi azzurri, che linee d'atmosfere lontane.
La primavera eterna dei gerani
fiorisce alle finestre
tutte retinate di vetri.
Nelle Colonie, poco fuori il dedalo urbano,
un'altra città di giocattoli si colora.
Ogni anima civica reclusa
trova i suoi fiori e i suoi trastulli verdi.
Tutto è bambino, fin il sorriso
dei vecchi sulla soglia al cimitero.
Un grappolo di campane
fa melodia di carnagione sulla torre.
Il vento del mare m'affama.
Mi perdo in una taverna di fiocinieri
a combatter nostalgie di risotti e maccheroni
con scorpacciate di storione e di caviale.

(da "Versi liberi", Treves, Milano 1913, pp. 229-230)




NIZZA
di Giorgio Del Vecchio (1878-1970)

Invano, o Nizza, il figlio tuo più prode
Con fiera voce protestò la pura
Tua fede contro la cession spergiura,
Patteggiata te ignara ed in tua frode.

Invan; si estorse a te la finta abiura,
E 'l vessillo, onde invitta eri custode,
Così fu tolto a le tue dolci prode
E del castello a l'indomata altura.

Ma lo spirito non muor, né si cancella,
Pur se ti pesi il novo fato amaro,
L'impronta di tua schiatta e tua favella.

Non si prescrive, né si fa men chiaro
Il dritto che natura in te suggella,
Poi che ad Italia diè confine il Varo.

(da "Poesie", Editrice Mediterranea, Roma 1953, p. 33)




LOSANNA
di Idilio Dell'Era (pseud. di Martino Ceccuzzi, 1904-1988)

Losanna, del tuo cielo confidente
e del florido lago mi rammento
e dell'Alpi remote
in un fiorir di rose.

recano i cigni sul lunato petto
l'ansia del giorno ed il sospeso addio
nell'ombra obliqua di un aguzzo tetto.

San Francesco ripenso e le campane
di Nostra Donna in cui vibra l'accento
di contrade italiane,
i dì di festa,
le selve dei ciliegi, il gabbianello
ed il suo grigio volo
sul ciglio d'acque addormentate.

(da "Liriche dal Canton Ticino", Cantagalli, Siena 2011, p. 148)




DA PRAGA
di Franco Fortini (1917-1994)

Luna e castello, quando l’estate finì,
i bei giardini sottili di anime
divideteli al cigolo del vento.

Ritornano alle case i buoni cittadini
prima che l’ora di notte tintinni.
Gli elementi lavorano, il disegno
si compie, dei cristalli, o si disgrega.
L’essenziale è questo mutamento
che non fa male o appena
riga i visi che ai vetri
fissano il fiume veloce,
spengono i sigari e sui corpi avanzano.
Resiste qualcuno più a lungo, per anni, di più
durevole creta creato; altri ancora
offre, non sazio ancora, la fresca fronte e il sangue.

Tu, chi vuoi ti conosca più, ti ha roso
il vento di vecchie cause, parabole, ipotesi,
polvere, pause, foglie.
Stacca e affina le scaglie che ti compongono.
Verso altre argille, facies camusa.

(da "Tutte le poesie", Mondadori, milano 2015, p. 274)




BRUGES
di Lorenzo Giusso (1900-1957)

Sospiran dietro linde infermerie
beghine rarefatte da clorosi,
e le campane in tocchi lamentosi
scandiscono sussulti d'agonie.

Nelle chiese sanguigne apparizioni
fanno i Cristi balzanti dai sudari
e passan fra i sepolcri lapidari
teorie di spettri in lente processioni.

Il sole che boccheggia sopra gli orti,
somiglia una reliquia d'oro spento.
Un pioppo le sue rame scheletrite

protende sui canali d'antracite.
Ed un battello afoso e sonnolento
aspetta immoto un carico di morti.

(da "Musica in piazza", Editrice Tirrena, Napoli 1930, p. 55)




LONDRA
di Camillo Pennati (1931-2016)

Gira lenta la ventola sui tetti.
Il tempo è coperto dal solito grigio
che pare quasi sereno. Dai vetri
alle finestre più d'una crocifissione
accompagna al giardino, in basso
ad una strada, al retro d'una casa
come a un pozzo che ripeterà per sempre
e solo il sentimento del segreto
che non sale nella luce del pensiero.
Il paese è straniero, il cuore
una prigione di battiti che scontrano
coi suoni sconosciuti d'altre parole
e appena un meridiano non il male
rende sordomuti dentro l'anima,
muore la parola che nasceva dalla strada.
Palombaro di me stesso.
Forse in questo istante
seguire radici più fonde. Trovare
l'amore più antico che non rechi
prigioniero ciò che reca delle cose
e del prossimo e noi
alle cose, al prossimo ugualmente.
Avere l'anima d'un fiume.
Forse questo impedisce d'affondare.

(da "L'ordine delle parole", Mondadori, Milano 1964, pp. 15-16)




AMSTERDAM
di Vittorio Sereni (1913-1983)

A portarmi fu il caso tra le nove
e le dieci d'una domenica mattina
svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra
lungo il semigelo d'un canale. E non
"questa è la casa", ma soltanto
- mille volte già vista -
sul cartello dimesso: «Casa di Anna Frank».

Disse più tardi il mio compagno: quella
di Anna Frank non dev'essere, non è
privilegiata memoria. Ce ne furono tanti
che crollarono per sola fame
senza il tempo di scriverlo.
Lei, è vero, lo scrisse.
Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale
continuavo a cercarla senza trovarla più
ritrovandola sempre.
Per questo è una e insondabile Amsterdam
nei suoi tre quattro variabili elementi
che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
tre quattro fradici o acerbi colori
che quanto è grande il suo spazio perpetua,
anima che s'irraggia ferma e limpida
su migliaia d'altri volti, germe
dovunque e germoglio di Anna Frank.
Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

(da "Gli strumenti umani", Einaudi, Torino 1995, p. 74)



Jacques François Carabain,  "Weeshuis in Leiden"
(da questa pagina web)