sabato 30 dicembre 2017

Poeti dimenticati: Ugo Ghiron

Nacque a Roma nel 1876 e ivi morì nel 1952. Dopo il ginnasio si trasferì con la famiglia a Pisa e qui conseguì la laurea in lettere. Sempre nella città toscana cominciò a frequentare circoli letterari e a pubblicare i suoi scritti sui giornali locali; in seguito collaborò a riviste prestigiose come "Nuova Antologia", "La Riviera Ligure" e "Vita letteraria". Nel frattempo Ghiron dava alle stampe i suoi primi volumi di poesie, che attirarono l'attenzione di critici e letterati come Guido Mazzoni, Giovanni Marradi e Eugenio Donadoni. Col passare degli anni lo scrittore romano pubblicò anche poesie dedicate all'infanzia, racconti, traduzioni ed un romanzo.
La sua poesia, che rientra nell'ambito del classicismo, si rifà alla poetica pascoliana; in particolare, si nota un'attenzione all'umanità sofferente.




Opere poetiche

"Vita", Bemporad, Firenze 1908.
"Le rime della notte", Bemporad, Firenze 1913.
"Le vespe e gli eroi", Zanichelli, Bologna 1916.
"Le visioni di Atropos", Sandron, Milano 1919.
"Gli aquilotti e le rondini", Sandron, Palermo 1922.
"Tristezze", Simoncini, Pisa 1925.
"Poesie 1908-1930", Sandron, Palermo 1932.
"I canti di Dmitri il vagabondo e altre poesie", Studio Ed. Moderno, Catania 1937.





Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 371-376).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. III, pp. 122-127).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. CCLXXXXVIII-CCC).




Testi


UOMINI

Lo attese al varco, e, come belva, al collo
lo tenne forte: disperatamente
ansando, lo guardò l'uomo: impotente
poi sussultò, poi vacillò, diè un crollo.

Contro la luna l'orma d'uno stollo
ultima dileguar vide il morente:
non vide, udì vanir sì del fuggente
via pei campi la pésta... E sorse collo

squallido raggio, e, d'atre nubi ingombra,
l'alba mirò dai taciturni cieli,
atomo oscuro, il pallido insepolto:

laggiù, con gli sbarrati occhi ancor vòlto
come a inseguire un'ombra, che si celi
esterrefatta e rapida nell'ombra.

(da «La Riviera Ligure», giugno 1907)




DICE IL MALATO DI CUORE...

Io ti porto nel petto, o mia condanna.
Mi gridi ogni minuto: - Io son con te;
non ti lascio; non chiedermi mercé.
La voce son di chi muto ti danna. -

Io ti porto nel petto, o mia condanna.

Anche mi gridi: - non badarmi! Inganna
l'ora. Men triste a chi l'inganna ell'è.
Lo so che senti la tua morte in me;
lo so che per me tremi come canna

(sempre t'odo nel petto, o mia condanna)

lieve al vento; ch'io son l'ombra che appanna
il tuo sereno; ch'io son lei che ha in sé,
lei che ti grida il tuo destino, che
le lunghe notti vigile ti affanna

(oh di mia vita giovine condanna!);

ma non badarmi! l'ora lenta inganna.
Io tacerò, vedrai, senza perché,
d'un tratto, forse... Tacerò con te,
io tua lunga funèrea ninnananna. -

Non t'avessi nel petto, o mia condanna!


(da "Le rime della notte", 1913)

mercoledì 20 dicembre 2017

"Sergio Corazzini" (un articolo del 1929)



Morire a vent'anni! Pensate voi come dev'essere doloroso quando la vita se ne va così, come una piccola cosa inutile, e le illusioni si sgretolano a poco a poco.
Assistere allo sfacelo della propria intelligenza, morire ogni giorno un poco, essere poeta e non credersi tale, e piangere così, tacito e solo, come un piccolo fanciullo abbandonato, quando nel cuore dovrebbero cantare i sogni più belli... ed avere vent'anni!
Ecco il dramma donde scaturisce quel volumetto di "Liriche" in cui, come in nessun altro libro, l'anima di un autore si rispecchia nitida, intera.
A voler intendere bene il significato della poesia corazziniana bisogna premettere che essa non è riflessa, derivata o voluta tale.
L'influsso del decadentismo francese non ne menoma la originalità, e per quanto in alcuni punti si riscontrino affinità col Guerin, col Jammes, col Verlaine, essa resta sempre unica nel suo genere ed ha in sé qualche cosa di tanto profondo e intimo, che non senza scoramento si pensa alla precoce dipartita di chi l'ha scritta.
Di imitato non c'è che la forma esteriore, qualche parte accessoria, ed anche qualche concetto di carattere comune: gli organetti di Barberia, le corsie degli ospedali, le nostalgie dell'impossibile si riscontrano in altri poeti, specie francesi.
Alcune liriche non contribuiscono, o poco, all'esatta comprensione dell'anima corazziniana, tanto sono generiche: "Invito" per esempio è un sonetto intessuto di luoghi comunissimi, un sonettino malinconico che parla di rassegnazione, di tristezza, di martirio, come ne parlerebbe un qualunque imitatore del "Poema paradisiaco".
Ma là dove parla il tisico, là dove chi scrive sa che la vita gli sfugge, e lo dice con quella rassegnazione propria ai tisici, tra uno sputo sanguigno e un colpetto di tosse, ivi è la vena, intima significazione di questa lirica tanto bella quanto dolorosa.
Pensate ad un ospedale: grigio, silenzioso, dalle corsie fredde, dai letti bianchi, uguali, monotoni, dove il sole è tanto smorto, dove la vita, ogni giorno, si sposa con la morte.
Oppure pensate ad un chiostro: un tetro caseggiato da cui pare esuli la vita; dietro una grata il viso pallido d'una bianca suora, incorniciato dai candidi lini del soggòlo.
Potete pensare inoltre ad un fanciullo, un piccolo e dolce fanciullo cui è mancata ogni dolcezza, finanche una carezza materna e che prima di affacciarsi alla vita, si è accostato all'amaro calice del dolore, bevendone tutti i veleni. E "L'amaro calice" s'intitola la prima parte delle "Liriche".
Avrete, così, un concetto approssimativo della poesia corazziniana e tanto più essa vi sembrerà bella, quanto più penserete che le sue angosce sono vissute, che i suoi dolori non sono inventati.
Così preparati accostiamoci al volume, sfogliamolo con devozione, gustiamone il contenuto, apprezziamone il valore.
"Sono perduto": ecco l'atroce verità; il poeta conosce bene il suo male, ma ha negli occhi tanta rassegnazione, ma ha sulle labbra un così lieve sorriso indefinibile, che nessuno lo direbbe un tisico:

Carlo, malinconia
m'ha preso forte, sono
perduto; così sia.

Ma quando, in "Toblach" dopo aver cantato

Le speranze perdute, le preghiere
vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,
gli ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere;

quando, dopo tutto ciò che v'è di irraggiungibile e di perduto, Egli canta l'ospedale tetro dove le infrante giovinezze vanno verso il tetro abisso lungo la via della speranza, allora ci accorgiamo di trovarci di fronte ad una rara sincerità artistica, conoscendo noi ora da quale inguaribile male fosse minata la sognante giovinezza del poeta.
Non aveva grandi aspirazioni, smodati desideri; un po' d'ombra, un cantuccio dove piangere abbandonato e solo, un po' di riposo lontano dagli uomini, la nostalgia d'una canzone morta, la malinconia d'un ricordo evocato dalle note di un organetto di Barberia:

Cosa mi canterai tu
questa sera?
Amica, non voglio pensare
troppo, la prima canzone
che ricordi, antica,
non importa:
una di quelle canzoni
che non si cantano più,
da tanto,
che non fanno più schiuder balconi
da un secolo. Vuoi
darmi la nostalgia
d'una canzone morta?

Oppure vuol morie perché la vita gli è inutile, e la morte indifferente; vuol morire, così, per non saper fare altro:

Vorrei morirmi di malinconia
vedovo d'ogni desiderio, solo,
con l'altissimo sogno che mi tiene.

Qualche volta il poeta dimentica perfino d'essere tisico, e reprimendo un singhiozzo, tergendo qualche lacrima, lancia quell'inno alla "Serenità" che è fra le cose belle la più bella del volumetto:

Serenità, non tu mi riconduci,
nave di sogno, a una perduta riva?
non è forse una luce primitiva
questa che vince tutte le altre luci?

E colgo ancora le margheritine
per i capelli de le mie sorelle
e m’inebrio del sole e de le stelle
e piango se mi pungono le spine.

Tutto quel che fu mio, teneramente,
mette le foglie, mette i fiori, odora;
oh, mai tramonto si sbiancò in aurora
più di questa soave e più ridente.

Ma poi l'incanto sparisce; il cielo si fa grigio, i rosai si sfogliano, il pensiero della morte ritorna coll'insistenza d'un tarlo, ed il singhiozzo represso, ovattato, dimenticato, erompe:

... E allora?... perché farmi tornare?
Serenità: quiete al mio tormento
vana, sono perduto, ora, mi sento
morire e gli occhi s’empiono di bare

e questo cielo non conobbe voli
mai, questa casa non s’aprì alla gioia,
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi consoli,

se non valse al dolor tua compagnia,
se il passato mi stringe sí che in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia.

Afferrato da questa amarissima realtà il poeta non si lascia prendere più al laccio dalle illusioni, cui seguono i facili disinganni; e nel "Piccolo libro inutile" si vota intero alla malinconia di vecchie arie perdute, e alla sorella Morte che invoca, dolcemente, come ristoro alla stanchezza della vita piangevole e dolorosa, trascinantesi nella tetra corsia di un ospedale:

Elemosina triste
di vecchie arie sperdute,
vanità di un'offerta
che nessuno raccoglie!
Primavera di foglie
in una via diserta!
Poveri ritornelli
che passano e ripassano
e sono come uccelli
di un cielo musicale!
Ariette d'ospedale
che ci sembra domandino
un'eco in elemosina.

E per meglio avvalorare e chiarire la mia asserzione, dovrei trascrivere il sonetto "San Saba" e la bella "Ode all'ignoto viandante" in cui è tutta la significazione della poesia corazziniana, tutta la nostalgica anima del poeta ammalato.
La raccolta "Dal piccolo libro inutile" è la più significativa: minuta è la vivisezione del proprio cuore, amara, per quanto rassegnata, la confessione; è uno squarcio di autobiografia spirituale, poiché l'io dell'autore predomina su tutto e anzitutto, come nella "Sonata in bianco minore" e in "Dopo".
Leggete "Desolazione del povero poeta sentimentale"; nell'ampiezza del verso libero piange la rinunzia alla vita, dolora l'angoscia lenta dell'anima che si sfascia, singhiozza una tranquilla rassegnazione, una infantile ma dolorosa dolcezza, che commuovono, come può commuovere il pianto di un bimbo che ha perduto la mamma e nulla ha più da sperare.
E Sergio perdeva la vita. Quello che prima poteva essere presagio ed, altrove, certezza, qui diventa desiderio e quasi volontà di morire:

Oggi penso a morire,
io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

Ed è rassegnato come un povero specchio malinconico.
E quale ingenuità in certe espressioni così tenui che sembrano trasparenti, e quale dolcezza di suoni, smorzati in sordina, così fiochi che sembrano echi lontani:

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto.
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava.
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

E poi l'ultimo tarlo roditore della sua mente, il pensiero della morte vicina, inevitabile, certa:

Oh, io sono veramente malato!

E muoio un poco ogni giorno.


                                                                                                                L. GUERRIERI

(da «Il Solco», 24 febbraio 1929)

venerdì 15 dicembre 2017

"La necessità di morire" di Cesare Giulio Viola

In questi giorni si è commemorato in Roma il poeta decadente Sergio Corazzini.
Domenico Oliva - compiendo un atto di riparazione postuma alla trascuranza di cui aveva purtroppo circondato i volumetti non venali che il giovane scrittore gli aveva inviato - ha tenuto d'innanzi ad un uditorio folto di poeti e di artisti una conferenza, dalla quale è balzata degnamente la figura del cantore morto ventenne, rapito a pochi fratelli di sogno e d'ideale, non ancora baciato da quel raggio di gloria, che si vuol oggi far credere fosse già spuntato su l'orizzonte di sua vita.
Non mai creatura umana amò l'umiltà del silenzio come questo solitario adolescente; benché con pochi giovani, in un cenacolo ormai disperso da una intempestiva raffica di morte, gli fui fratello nella buona e mala fortuna, e lo seguii con trepidanza tormentosa durante il suo male indomabile e lo vidi spegnersi e vegliai con pochi intimi, in una triste notte di giugno dello scorso anno, la sua spoglia mortale, sono stato profondamente turbato d'innanzi all'onda di ammirazione che comincia a crescere intorno al povero poeta sentimentale, al desolato poeta che amava, teneramente, come un fanciullo, gli angeli dipinti sulle vetrate delle cattedrali, la desolata malinconia delle canzonette napoletane, la serena pace dei chiostri solinghi, dove l'anima sua pareva potesse conciliarsi col desiderio d'oblio e di solitudine.
Io lo conobbi, or è due anni, quando entrai a far parte della redazione di Cronache latine, rivista ultra-decadente e rivoluzionaria, per un poemetto che non vide mai la luce, poiché l'effemeride tra il dileggio e l'ironia della terza sala d'Argano, la più mirabile fucina di maldicenza letteraria d'Italia, morì al terzo numero, uccisa da un sonetto wagneriano di Donatel Zarlatti, che sin d'allora rivelava quelle tendenze che l'han condotto qualche mese fa al manicomio.
Morì la rivista, ma i collaboratori che avevano preferito, piuttosto che dare alle stampe un terzo numero, concedersi in barba agli abbonati un pranzo luculliano innaffiato di Champagne, con relativa scarozzata notturna per i quartieri più silenziosi della vecchia Roma, i collaboratori serbarono immutati tra di loro i vincoli di amicizia e di fraternità!
Si era un gruppo di giovani, armati di entusiasmo e di ironia, irriverenti verso i vecchi, convintissimi di possedere un grande valore e di essere destinati a un grande avvenire, (i superstiti non sono per nulla cambiati) disdegnosi del facile plauso, se non altro persone di ottimo gusto che stimarono più colui che sa ideare una bella lirica di chi commerciando in generi diversi possa aspirare al non commendevole titolo di Re dei Latticini.
Sergio Corazzini pareva il più mite fra di noi; era indubbiamente il più buono, ma anche il più ironico. Chi ebbe agio di avvicinarlo, ricorderà i suoi implacabili motti di spirito, il suo riso canzonatore che non dispiaceva perché non si velava mai d'alcuna nube di malvagità, ma che si manteneva, sul suo labro, specie negli ultimi tempi persistente e immutabile.
Impiegato presso una compagnia d'Assicurazioni, egli passava i suoi lunghi giorni, chiuso in una piccola stanza cieca di finestra, perennemente illuminata da una lampada a luce elettrica, ed era riuscito a introdurre, come scrivano, un suo intimo amico - letterato egentissimus, - in compagnia del quale cercava di rendere a se stesso meno gravi e tormentose le ore d'ufficio.
La sera, immancabilmente, ci si trovava da Argano, donde in folta comitiva si partiva per lunghe passeggiate, peregrinando per le località più strane e deserte di Roma: i dintorni del Foro, S. Saba, l'isola di S. Bartolomeo. Di domenica Sergio diveniva irreperibile; non c'era caso che lo si potesse indurre ad assistere ad una conferenza o ad un concerto: era il suo giorno di libertà completa ed egli, come un rosignolo che si fosse liberato dalla prigionia della gabbia, aveva bisogno irresistibile di luce, di sole, d'aria.
Si recava al Castello di Costantino o a qualche trattoria di campagna solo, quando gli amici non volevano accompagnarlo, e lì si abbandonava a godersi la sua domenica, come uno scolare, sino a che la sera non l'avesse nuovamente condotto alla Città terribile, dove in strisce esigue di turchino il cielo sorride ai poeti e ai sognatori.
Il suo ultimo libro credo sia nato da questi ritorni, e da questa nostalgia profonda d'azzurro.
Imberbe, pallidissimo perché già da qualche tempo il suo gracile organismo era minato dal male che poi lo condusse alla morte, accurato nell'eleganza del vestire, egli impersonava perfettamente i caratteri della sua poesia d'eccezione; nel suo sguardo, nella sua voce, nei suoi atteggiamenti si riconosceva il povero poeta sentimentale, colui che aveva sentito turbarsi dal profondo dell'anima la sua vena schietta e ingenua e trasformarsi il suo riso di fanciullo meravigliato in un triste sorriso di morente.
Scomparve con la fine dell'autunno dal cerchio degli amici: gli rimanemmo fedeli pochissimi, quelli che non fecero soggiacere il sentimento di amicizia e di fraternità al timore del contagio.
Un inverno dolorosissimo scorse sulla vita del poeta: egli celò ai fratelli e ai genitori le sue sofferenze, quanto più gli fu possibile; tentò di illudere la sua povera mamma non accusando che in parole larvate tutta la desolazione della sua giovinezza soccombente; la sua anima parve divenire più fanciulla, si riconciliò con la serenità perfetta: la morte gli sorrise come una sorella attesa.
Tre cerei altissimi in una stanza nuda, una piccola veilleuse, compagna e consolatrice delle lunghe notti di tormento, uno scaffale ricco di libri rilegati elegantemente, e sul letto, colmo di gigli, il cadavere del Poeta, ravvolto in un lenzuolo bianco.
Quattro amici, nel silenzio della casa, vegliarono il feretro: Antonello Caprino, Gino Calza, Alberto Tarchiani ed io: quattro ignoti fratelli d'un fratello ignoto, cui è stato necessario morire, perché la gloria che tributano gli uomini comuni, si accorgesse del suo canto e del suo pianto!

                                                                                                                                                            C. G. Viola


(da «Tribuna Pugliese, 20 giugno 1908»)


Sergio Corazzini (Roma 1886 - ivi 1907)


mercoledì 13 dicembre 2017

Il Natale nella poesia italiana decadente e simbolista

C'è, in parecchie di queste diciassette poesie, molta originalità; la festa del Natale non è descritta coi soliti versi e con le solite nostalgie (a parte Giorgieri Contri e Moretti). La Aganoor, per cominciare, ci dice che in questo giorno dell'anno i vinti trovano la loro unica vittoria grazie a tramiti occulti e a tracce segrete, riuscendo a sconfiggere l'infallibile Sapere. La nascita del Cristo, insomma, è ancora ben presente tra gli ultimi della terra, malgrado l'avanzare del progresso scientifico abbia fatto scomparire un gran bel numero di sogni e d'illusioni. Bella anche, nella poesia di Garsia, l'immagine del navigante che, in un tempo lontanissimo, avvilito dall'impossibilità di continuare il suo viaggio, si rianima al suono delle campane che annunciano il Natale e inaugura il primo ceppo bruciandolo su un'ara di sabbia. C'è, poi, Graf che si ritrova (non si sa come né perché) durante la notte di Natale, all'interno di una folta e gelida selva; qui, vagando, scopre la presenza di un povero abituro, in cui, sopra un lettuccio, c'è un bambino appena morto che è vegliato dalla madre e dal padre doloranti. Superfluo aggiungere che questa visione, paragonandola all'immagine di Gesù bambino con Maria e Giuseppe accanto, ha un significato decisamente negativo: la scomparsa della divinità è, di conseguenza, anche quella del bene. Non distante dal Graf, Rocchi si rammarica dei secoli che sono passati dalla nascita di Gesù, senza che vi sia stato un cambiamento tale da poter affermare che il sacrificio del Cristo sia stato utile; per tale motivo quella che era una sicura fede, ormai somiglia ad un fuoco agonizzante. Pressoché indecifrabile è la lirica di Angelo Toscano, che parla di fremebondi cavalieri erranti; il loro misterioso viaggio però, come si evince leggendo gli ultimi versi, non risulterà vano, avverandosi quel Sogno d'amor al quale agognavano. Non facile decrittare anche la poesia di Valsecchi: quel gregge che, dapprima impossibilitato al ritorno all'ovile a causa di una forte nevicata, viene soccorso da un naviglio, il quale, anche in difficoltà, alla fine, affonda coinvolgendo nel naufragio tutti i poveri agnelli; certamente può rappresentare una visione fosca del presente e soprattutto del futuro, interpretandola come descrizione del naufragio dell'innocenza, della mansuetudine e della bontà (e il tutto avviene proprio nella notte di Natale). Si potrebbe poi parlare di certo realismo rintracciabile nelle poesie di Oliva e di Govoni e di altro ancora... ma il discorso risulterebbe, ormai, troppo noioso.




ANCÓRA IL NATALE
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

E venne il Sapere: e all' esilio
dannò creature dal serto
di stelle. In celesti dominii
divelse, schiantò; fu il deserto.

Ma quando, al suo fine, con infule
solenni il decembre si benda,
e a noi le campane ricantano
la loro divina leggenda,

ritornano i vinti, per tramiti
occulti, per tracce segrete
di sogni, e il Sapere discacciano
con fragili rami d'abete.

(da "Poesie complete", Le Monnier, Firenze 1912)





LA CASA
di Ettore Botteghi (1874-1900)

Natale. Oh ch'io non torni alla mia bella
casa dove sognai canti beati
e azzurri vasti e mari interminati,
calmi come i tuoi grandi occhi, sorella.

Oggi, candida casa, era una festa
tra le tue mura: i bimbi erano buoni.
Cristo che nasci, Cristo che perdoni,
quanto splendore su la bionda testa!

Oh ch'io non torni a la mia casa mai,
oh ch'io non senta un infantil vociare!
O casa piena di memorie care,
io piango, io piango; tu sorriderai.

Voi che ci siete, o miei bimbi, gioite:
io sono pieno di mestizia al cuore.
O Gesù Cristo, che diffondi Amore,
quante gioie dal mio cuore svanite!

(da "Poesie", Valenti, Pisa 1902)





ALLA NUTRICE
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Gelida sta la notte cristiana
su le case degli uomini, ma pura.
– O tu che ne la casa tua lontana
fili con dita provvide la lana
de la tua greggia, sin che l'olio dura
ne la lucerna, e il ceppo a tratti splende,

Nutrice, da cui bevvi la mia vita
prima, ne le cui braccia ebbi il sopore
primo!, se da la tua bocca appassita
riudissi io quel canto e le tue dita
vedessi, ove s'attenua il bianco fiore
dei velli, e il fuso pendulo che scende,

e la fronte rugosa che s'inchina
incoronata di capelli bianchi,
ove la semplice anima indovina
si rivela talor quasi divinamente
in un raggio, e i tuoi cavi occhi stanchi
ove qualche favilla pur s'accende,

io forse piangerei ancora un pianto
salùbre e forse ancora dal profondo
mi sorgerebbe qualche antico e santo
affetto, e mi parrebbe nel tuo canto
ritrovar l'innocenza di quel biondo
pargolo; – e lungi queste cose orrende!

E tutta la freschezza del tuo latte
ne le mie vene! – Una natività
novella, in un candor di nevi intatte. –
E tutta la freschezza del tuo latte
ne le mie vene, e tutta la bontà
dei cieli; – e lungi queste cose orrende,

lungi sempre da l'anima rinata
e del candor natale circonfusa!
Una immensa bianchezza immacolata,
una forma d'amore angelicata,
e per tutto l'imagine diffusa
d'un Bene Sommo che quivi s'attende! –

Ma tu, che ne la casa tua lontana
torci il fuso, non sai la mia ventura.
Fili con dita provvide la lana
de la tua greggia; ne sai la mia vana
tristezza, in quest'azzurra notte pura.
Tu torci il fuso, e il ceppo a tratti splende.

E fili, e fili sin che l'olio dura,
Nutrice; e morta la mammella pende.

(da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)





AGNUS DEI (PASQUA DI NATALE)
di Giovanni Diotallevi (1862-1930)

È mezzanotte. Passa a l'improvviso
pel buio folto un din don dan festivo
che par che venga giù dal Paradiso,

bucando l'ombre come un raggio vivo.
Spunta nei sogni immemori un sorriso;
e la letizia d'un atteso arrivo

passa sul mondo - Sopra tutto il piano
le campane sorprese avanti giorno
fremon di gioia: suonan di lontano:

è un clamore per tutto quel contorno:
e par che tremi un gran giubilo umano
ne la romba che oscilla quindi in torno.

Quando s'acqueta l'aria mescolata
una pecora a lungo a lungo bela
con un gemer di femina prostrata.

Poi che la voce flebile rivela,
seguendo de la madre la chiamata,
va un pastore nel gregge, che si leva:

e prende su le braccia l'agnellino
che trema ne l'oscurità glaciale
e manda dei vagiti di bambino.

Bela la madre al gemito filiale:
vedon dal buio il simbolo divino
le vigilanti stelle.... Ecco, è Natale!

(da "La spiritual primavera", Tip. Sallustiana, Roma 1898)





NATALE
di Augusto Garsia (1889-1956)

Sul mare il cielo si velò di noia.
E il navigante nello sguardo verde,
dalle mute apparenze consumato,
conobbe lo sconforto di chi perde
la mèta in sé, lontana: chiuse il gelo
d'una follia di vuoto, or che l'anelo
cuore più non sperò, né gli fu grato
l'attendere oltre, che dava la gioia.

Sul mare il cielo si velò di noia.
Il navigante, folle, sulla rena,
(cimitero del mondo!) ecco il battello
dare alla fiamma e il battello alla piena
fiamma, fumando, abbandonar lo snello
scafo... Ma in cima agli alberi campane,
nel ciel campane, come da lontane
plaghe di sogno, contrade di gioia...

Dal cielo, allora s'involò la noia.
In quei guizzi di fiamma si rinchiuse
pel navigante l'infinito mare.
Tra le campane «Amare è rinunciare»,
allora il folle un canto suo conchiuse.
Fu quello il primo ceppo di Natale
e l'ara fu di sabbia. Questo vale
ricordare, se in cielo e in mare è noia.

[da "Poesie (1921-1925)", Giusti, Livorno 1926]





LE RONDO' DE NOÈL
di Eugenio Gara (1888-1985)

Spiove da i tetti rossi un biancore nivale.
Sul cavallo dei sogni giunge il vecchio Natale.

Per ora, vecchio mio,
ti do un avvertimento:
metterò fuori la mia calza anch'io.
Cos'è? Non sei contento?
Via, non tenermi il broncio,
decrepito Natale;
non è poi un gran male
chiederti un bel pugnale,
o un'erba velenosa,
o pure un'altra cosa
che non faccia soffrire,
ma che faccia morire!

Perché lo sai, ch'io sono condannato:
inesorabilnente condannato.

Ma forse tu hai raione, vecchio mio:
sono io,
son io che sbaglio grossolanamente:
quello ch'ora ti chiedo,
tu me l'hai già mandato:
non ho dimenticato
che, in un giorno lontano,
la tua provvida mano,
che mi nega il veleno ed il pugnale,
mi ha elargito l'amore!
Io non ti sono grato
del cambio sai, Natale,
perché l'amore mi ha
per sempre attossicato.

Ed è perciò ch'io sono condannato:
inesorabilmente condannato.

Cos'è, caro vecchione:
di questa mia caozone?
Ho capito: hai paura di tardare.
Suvvia, non ci pensare;
resterà senpre tempo per gettare
dagli spenti camini
balocchi pei bambini
e illusioni pei grandi!
Senti: tu che sei tanto compiacente,
vuoi farmelo un favore?
Sì, bene:
prendi dunque il mio cuore,
e quando giungi a quella ch'è lontana,
tra una bambola bionda ed un soldino,
gettalo ne la calza.
Vedrai, vedrai che alzandosi
resterà un po' sorpresa.
Addio, Natale mio, scusami sai,
se ti ho un poco annoiato:
tutti adesso mi scusano,
perché sono ammalato.
L'anno venturo poi me la dirai,
ne Ia dirai, nevvero,
la sorpresa di quella che non m'ama!
Cos'è?... Trovi pesante
il mio povero cuore?
E pure è così piccolo;
ma pesa tanto tanto il mio dolore!
........................................
Sul cavallo de i sogni è partito il Natale.
Spiove da i tetti rossi un biancore nivale.

(da "La canzone del salice", Tip. Morano, Napoli 1910)





UN NATALE
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Penso un Natale della fanciullezza:
per che virtù dall'ombre dissepolto?
Vedo tra i cari visi uno più molto
caro: una mano a carezzarmi avvezza.

Dove, in qual colle, i bei rami d'ulivo
del presepio ricrebbero? Mi pare
ch'io li rivedo penduli sul mare
da lor clivi nativi. Il clivo è vivo

nel mio pensiero, come le persone
di quel tempo e le cose e le parole:
un ricordo così pieno di sole
che l'alta loggia se ne fa corone.

Sol di decembre sul mare velato:
un angelico mar come d'argento:
treman li agrumi nei giardini, al vento,
l'aroma ha il ritmo tepido d'un fiato.

Quel giorno è morto: come li altri è morto
e ancor sul colle ondeggiano li ulivi,
e ancor li agrumi odorano, nei vivi
soffi del vento, in questo orto, in quell'orto:

ancora il sole di decembre tepe
sull'angelico mare: e in mente ancora
il dolce viso mi si ricolora,
mi riodora l'antico presèpe.

(da "Primavere del desiderio e dell'oblio", Lattes, Torino 1903)





IL NATALE DEI RIMASTI
di Corrado Govoni (1884-1965)

Sono rimasti nell’ospizio
solo quattro ricoverati,
e stanno nel salone qua e là pei banchi.

Sul davanzale, nell’interstizio
gli ultimi crisantemi malati
sfogliano i loro petali in brividi bianchi.

Ed il sole per la tendina smorta
sfarfalla la sua luce chiara
simile a un lungo gesto commiativo.

Mentre che nel giardino ad una porta
picchia il vento odorato d’una fanfara
che passeggia per un bastione verde ulivo.

I vecchi vestono di rancia tela
(oh come triste così illuminata dal sole!)
e in capo tengono un berretto oscuro.

Il pomeriggio ammaina la vela
nella prossimità delle sinuose gole
del porto della notte già d’ombra maturo.

Uno d’essi s’appoggia a la stufa insistente
tentando di ridare al sangue quel vigore
che non à.

Un altro pensa amaramente
che dopo morte sulla sua tomba un fiore
nessuno porterà.

(da "Fuochi d'artifizio", Ganguzza Lajosa, Palermo 1905)





NELLA SELVA
di Arturo Graf (1848-1913)

S’apre la selva: nel gelato e greve
Aere si drizzan l’arbori stecchite;
Copre l’arbori e il suol, candida e mite,
La fioritura della sparsa neve.

Uno spicchio sottil di luna stanca
Alto risplende nel forbito cielo;
Una luce dïafana di gelo
Empie la scena assiderata e bianca.

È la notte in cui nacque il redentore,
La santa notte di Natale è questa:
Oh, che letizia in terra! oh, che tempesta,
Dio redentor, nel mio povero core!

Sotto l’alba lunar pallida e muta
Non suona voce, né fuscel si move:
Io vado e vado senza saper dove,
Io vado come una bestia perduta.

Ed ecco, a un tratto, in mezzo alla radaja,
Mi si discopre un povero abituro:
Splende nella discreta ombra del muro
Una finestra piccioletta e gaja.

Splende la finestretta solitaria
D’una tranquilla chiarità gioconda;
Lenta di fumo cinericcio un’onda
Sale dal negro fumajol nell’aria.

Ahimè, d’invidia e di dolor nel petto
Pungermi il core a quella vista io sento;
E penso: oh, che quiete, oh, che contento
Si deve accôr sotto quell’umil tetto!

Come la punta d’un acuto dardo
Sento che il cor mi lacera e trapassa:
Alla finestra piccioletta e bassa
M’accosto, salgo sur un ceppo e guardo.

Una stanzuccia imbiancata di corto,
Con un largo camino e un desco a fianco;
E lì nel mezzo, entro un lettuccio bianco,
Fra quattro ceri, un bambinello morto.

Siede il padre, e con volto allucinato,
Con un par d’occhi invetrïati e spenti,
Guarda nel focolare i tizzi ardenti,
Guarda il fumo che s’alza avviluppato.

Presso il lettuccio, con la voce mozza,
Col viso tra le palme e il crin disciolto,
Stracca, buttata giù come un involto,
La madre geme, la madre singhiozza.

(da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)





LA NATIVITÀ
di Marino Marin (1860-1951)

Come tenere carni che alimenti
una soave onda di latte sano,
vengono fine e morbide pian piano
su, a' primi freddi, l'erbe frumenti:

sono le dolci figlie del buon grano,
le nunzie del Messia. Foglie stridenti,
che sparsero fra i solchi i crudi venti,
vita: Gesù nasce e rigermoglia il piano.

Sentite (aride foglie, non v'incresca)
come picchian lì sotto i piccioletti
germi? È la vita nova, è l'erba fresca:

A quando a quando, un sorsellin che umetti
quest'erba, e sole, il mite sole; e a l'esca
trarranno ghiotti i papperi e i galletti.

(da "Voci lontane", Barboni, Castrocaro 1898)





NOTTE DI NATALE
di Marino Moretti (1885-1979)

Ardon gli astri nell'ombra e le campane
si rispondono querule e sonore;
ed una voce piange in fondo al cuore
per desiderio di cose lontane.

Oh avere adesso in questa santa festa
notturna che di buon incenso tepe
una piccola valle di presepe,
anche di cera, anche di cartapesta!

Aver adesso tutto un paesaggio
di Terrasanta coi laghi di vetro,
e le casette col lumino dietro
e la stella che, in alto, fa viaggio...

Ed ascoltar con l'anima che sogna
la musica improvvisa che s'aduna
semplicemente, dietro un soffio, in una
esiliata anima di zampogna,

mentre ardon gli astri e piangon le campane
e le finestre sono tanti lumi...
(O dolce cuore perché ti consumi
in desideri di cose lontane?)

Cantano le campane, ardono gli astri,
piangono i cuori, e l'anima rivede
le cose belle dell'antica fede
odorate di bacche e di mentastri;

rivede i luoghi dell'età migliore,
i luoghi dell'infanzia più remota,
e il giocattolo che sfiora la gota
siccome sfiora un desiderio il cuore...

Rivede un guardo fiso e un dolce labro
che s'apre e gaio sorrisetto intento
dinanzi ai ceri e ai fronzoli d'argento
ch'ornano i rami del virgulto scabro.

Giocattoli! Giocattoli ! Oh la chiara
stanza dove una mano frettolosa
e occulta preparò la bella cosa,
la bella cosa che or non più prepara!

Ma non forse i giocattoli risogna
l'anima stanca in questa ora notturna
in cui la vita umana è taciturna
come la sua più tacita menzogna:

non i giocattoletti abili e industri
che ànno virtù segrete e gesti e pose
e nomi come noi, ma quelle cose
piccole, quei piccoli oggetti lustri,

Quelle piccole sfere di cristallo,
o tremule d'argento, quelle stelle
di talco ardente come i ceri, quelle
piccole zone d'oro e di metallo...

Ardono gli astri, cantan le campane,
salgon le nebbie pallide dai fiumi...
O dolce cuore, perché ti consumi
in desideri di cose lontane?

(da "Poesie di tutti i giorni", Ricciardi, Napoli 1911)





NATALE
di Domenico Oliva (1860-1917)

Or la grande città tutta s'adagia
A spaventosa tavola felice:
Son discese le tenebre: la nebbia
Folta si spande per le strade e regna.
V'è un immane silenzio: il viatore
Tardo ha paura del deserto e affretta
Il passo e suona lugubre, beffarda
La via. Natal, Natale!

Un organetto sol frange il silenzio
E pei terrori taciturni lancia
Il più gaio motivo: è una balzana
Furia di note: è suon di danza: è un folle
Invito: è una bestemmia: è un acre insulto
Alle gioie santissime dell'ora,
Al sentimento mistico di questo
Giorno. Natal, Natale!

E mentre tutti sono buoni e obliano
Le sventure e le colpe e i giorni bui
E le miserie e l'increscioso monito
Che talvolta lo spirito inquieto
A noi sussurra e le figure spente
Son lungi, lungi, lungi, una mondana
Voce sui lieti discende siccome
Sferza. Natal, Natale!

E le memorie quel motivo desta
E i rancori e gli sdegni e i velenosi
Baci - e le febbri dell'amor fugaci
E le care fanciulle abbandonate
E l'ore infami e i tradimenti e il vago
Vano profilo di persona morta
Sotto la neve e sotto il fango sola,
Sola. - Natal, Natale!

(dalla rivista «La Domenica Letteraria», gennaio 1896)





O CELIA MIA, È PROSSIMO IL NATALE
di Romolo Quaglino (1871-1938)

O Celia mia, è Prossimo il Natale
e i bimbi attendon le gioiose strenne,
un ordigno Marconi erto di antenne
giganti ed il velivolo ideale.

Essi infelici, a cui l'età fatale
spira questa di audacie ansia perenne;
io ne I'arco di tua grazia trentenne
placo ogni fiamma del mio cuor mortale.

E, vecchio bimbo, chiedo una tranquilla
vita fluente a te, Celia, vicino,
tra il mare e i lauri de l'antica rocca,

e mi sia ciel la tua glauca pupilla,
e soffio a' voli fulgidi il divino
sonante riso di tua rosea bocca.

(da "I sonetti a Celia", Sandron, Palermo 1911)





NOTTURNO DI NATALE
di Francesco Rocchi (1879-1914)

Veglian sanguigne rutilanti faci
sul candor de le nevi immacolate;
gittano pertinaci
larve di fuoco alate
nei solchi impressi tortuosamente.
Ma nell'aperto più serenamente
il ghiaccio transparente
si tempra al riso de le nuove stelle,
e crepita; sì come alle più belle
notti di maggio le pie fontanelle
garriscono con voce d'usignuoli.
Diciannove compié rapidi voli
l'ifaticabil ala secolare,
da quando trasser sotto l'algid'orsa,
affrettando la corsa
gli attoniti pastori, a salutare
il nuovo nato: e diciannove soli
tramontarono sopra l'infinita
opera de la vita,
arridendo a le cento ore passate.
Oh triste voluttà de le memorie!
quanta sicura fede,
quanti bagliori d'obliate glorie
senza degna mercede
vanir, come le fiamme disperate
che vacillano ancora,
e saran spente anzi la prima aurora.

(da "Nubila", Zanichelli, Bologna 1901)





CAMPANE
di Teresah (1877-1964)

Campane, campane
nella notte di Natale
chi v'ode non sa più quale
musica ascolta, campane.

V'ode alcuno che, smarrito
in un sogno di dolore,
à dimenticato il cielo
né sa più quale infinito
parla, quale amore
in voi, musiche del cielo.

Pur v'ode cantare
nell'anima e s'addormenta
ebro di un sogno lucente:
non sa quale : suscitare
dall'anima antica spenta
forse un'infanzia lucente?

Campane, campane
nella notte di Natale...
Ecco, sogna non sa più quale
dolcezza e piange, campane.

(da "Nova lyrica", Roux e Viarengo, Torino 1904)





FANTASIA DI NATALE
di Angelo Toscano (1879-1908)

1.
E vanno e vanno, come geni arditi,
del Sogno i fremebondi cavalieri:
transvolano le nevi ampie i corsieri,
sfioran gli spazi ondosi - erranti miti.

Questi han ne l'occhio un torvo lume, e quelli
hanno un baglior di fervide conquiste,
e vanno e vanno sulla notte triste
vertiginosi démoni ribelli.

Un ricamo di rose Aurora, e diede
la gloria il Sol di un suo nimbo fiammante,
la selva un forte conclamar di nidi,
diêder l'aquile - invano - aerei gridi:
torna lieve passâr - che nulla chiede -
gettando all'aria un clàssico sonante.

2.
Che dice il vento in lor chiome effuse?
che canta ogni astro in sua musica lene?
geni frementi sotto eburne clene
quali dà il Tutto a lor voci confuse?

Dal patulo orizzonte fulge un'iri
settemplice al viaggio eterno ardito,
quell'arduo volo dentro l'Infinito
germina un balenar d'incanti miri.

E vanno e vanno... Largo o nubi, o stelle,
largo de' monti o nevicato orrore,
largo de' venti o folla tempestosa,
giunge di spirti un nugolo ribelle
clama l'insonne schiera luminosa
passa l'alito indocile di Amore.

3.
Dove sono i corsieri? A quale estremo
cielo guidâr la corsa irrefrenata?
atomi tra un chiaror di luce aurata
migraron dietro il Sogno, alto, supremo.

Ed un candido abisso occulto, o un seno
vasto il mar sonante or li ricetta,
o all'infinito limpido gli aspetta
- lieto riposo - un astro ermo sereno!

Ma se l'ombra allumò fascino breve,
se orma ignota varcò sterili zolle,
non sarà vano il mistico viaggio;
ecco, spuntan già floride corolle
corre un fremir di vita, ecco, la neve
dietro il Sogno di Amor: puro miraggio.

(da "Il libro dei venti anni", Toscano, Messina 1900)





LA NEVE DI NATALE
di Fausto Valsecchi (1891-1914)

Ora nevicherà. Sento l’odore
della neve sospesa nelle stanche
nuvole grigie. E intorno, uno stupore
di cose che fra breve saran bianche.

L’ora ch’io vivo è livida d’attesa.
Una gregge passa, passa lentamente.
L’odore della neve ch’è sospesa
sul mondo sembra quella della mente:

lo stesso odore che le nari agghiaccia,
facendo lacrimare gli occhi stanchi.
Giunge il gregge all’ovile e s’accovaccia,
con gli occhi d’oro sotto i cigli bianchi.

Un altro gregge passa. Ora la neve
incomincia a cadere sugli agnelli.
Io guardo e penso a una carezza lieve
di mani che svaniscono sui velli.

Cade la neve. No, non cade: scende.
È alata. Atterra senza farsi male.
Non s’ode. Io guardo e penso alle leggende...
C’è in terra steso un cielo pastorale.

Gli agnelli andando ne hanno calpestata
la via, così che tutto s’imbruna.
E sul pallore della nevicata
la sera cala come nella luna.

L’ombra è sul gregge, che ha atterrato il muso,
ed in candidi petali si sfoglia.
O giungere così, subito, al chiuso
che ha una lampada accesa sulla soglia!

Laggiù in fondo brillare vagamente
la veggo come in una fiaba truce,
dove l’abisso s’apre, fra la gente
che il buio incalza, e il luogo della luce.

Gli agnelli hanno raggiunto una corrente.
Fra il gregge ed il suo ovile l’acqua scorre:
- la neve cade sempre - lo si sente
belare, ma nessuno lo soccorre.

Come può il cuore reggere allo strazio?
Il lago è senza fine e senza fondo.
Lascio errare lo sguardo nello spazio.
Dimentico di vivere sul mondo.

Fin che un naviglio in grembo al gregge, lieve
come un gran cigno, attratto dai belati,
approda, sosta, e poi riparte, greve
di quei poveri agnelli entro serrati.

Ed io lo guardo andarsene. Dai fianchi
tutti i musi sporgono per bere.
Il gregge soffre. E i remi sono stanchi
di tuffarsi nelle acque quasi nere.

Il lago è senza fine, è senza fondo.
Io penso (perchè penso?) a un naufragio.
Dimentico di vivere sul mondo.
E il gregge affonda adagio, adagio, adagio.


(da "Versi e novelle", Bartolozzi, Lecco 1966)