domenica 30 giugno 2019

Antologie: "La Scapigliatura", a cura di Elio Gioanola


Eccomi di nuovo a parlare di un'antologia che non è prettamente poetica, avendo al suo interno brani di prosa. S'intitola La Scapigliatura, è stata curata dal critico Elio Gioanola ed è stata pubblicata da Marietti Editore in Torino, nel 1975. Per far capire di cosa si tratta, ritengo cosa conveniente riportare la sinossi pubblicitaria presente sulla quarta di copertina di questo volume:

Nella storia letteraria LA SCAPIGLIATURA è una pagina significativa, ancora in parte inesplorata o fraintesa: si pensi a certe ingiuste condanne della vecchia critica idealistica o all'eccessivo rivoluzionismo sociologico della critica più recente. Periodo di sperimentazione e di inquietudine, cerniera - così l'hanno definita alcuni critici - tra la crisi del secondo Romanticismo e la stagione realistica e veristica che la letteratura rusticale degli anni 1840-1855 aveva timidamente annunziato, la Scapigliatura viene presentata in questa agile ma esauriente antologia come la prima, originale rivoluzione decadente della nostra letteratura. Introduzioni, commenti e note illustrano le caratteristiche psicologiche e stilistiche di ogni personalità, senza peraltro sacrificare e anzi rilevando in concretezza storica, i caratteri, le originalità e le tensioni del movimento nel suo complesso.

Per quanto riguarda la struttura del libro, si parte da un'introduzione assi scrupolosa e particolareggiata, divisa nei seguenti paragrafi:

1. Quadro storico-culturale, - 2. Bohème di casa nostra, - 3. Manzoni padre e Rovani padrino, - 4. Scapigliatura come «minoranza sconfitta», - 5. Scapigliatura come simbolismo mancato, - 6. Il «dualismo» scapigliato, - 7. Dualismo estetico: i due Boito e Gualdo, - 8. Stilismo come deformazione del segno: Dossi, - 9. Dualismo patetico: Praga, Tarchetti, ecc., - 10. Dualismo come conflitto psichico: Camerana, - 11. Sperimentalismo  piemontese e ligure: Sacchetti, Faldella, Zena.

Si passa quindi alla parte antologica vera e propria, divisa in tre sezioni che vado ad elencare, inserendovi anche gli scrittori presi in considerazione:

SCAPIGLIATURA LOMBARDA
Cletto Arrighi, Emilio Praga, Arrigo Boito, Igino Ugo Tarchetti, Giulio Pinchetti, Camillo Bazzero, Camillo Boito, Luigi Gualdo, Carlo Dossi.

SCAPIGLIATURA PIEMONTESE
Giovanni Camerana, Giovanni Faldella, Roberto Sacchetti.

SCAPIGLIATURA LIGURE
Remigio Zena, Pietro Guastavino.

Ora, volendo porre, a compendio di questo post, una breve, personalissima considerazione, non posso che plaudire l'ottimo lavoro svolto dal curatore, sia per ciò che concerne l'analisi generale del periodo storico e degli elementi fondamentali che caratterizzano il movimento scapigliato, sia per la meticolosa scelta dei testi, prosastici o in versi, preceduti da commenti ineccepibili e assai utili. Qualche perplessità, forse, si ha nel trovare una sezione riservata alla Scapigliatura ligure, la quale, seppure sia esistita, non credo abbia un valore rilevante nel contesto del movimento; e, proprio nella sezione citata, un po' di sorpresa si prova nel trovare il nome di Pietro Guastavino: poeta minore che ben pochi ricordano, e che non risulta inserito in nessun'altra antologia che io conosca, dedicata alla Scapigliatura.



domenica 23 giugno 2019

Le prostitute in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo


Viene definito, un po' ironicamente e un po' sarcasticamente, "il mestiere più vecchio del mondo"; ma è veramente un mestiere quello della prostituta? Certamente sono considerate delle lavoratrici tutte coloro che offrono il loro corpo in cambio di un compenso in denaro e che sono state legalizzate e regolarizzate da alcuni stati europei e non; comunque, personalmente rimango perplesso nel pensare che si possa considerare un lavoro come un altro il prostituirsi. Al di là di queste considerazioni, nella maggior parte delle poesie presenti in questo post, le prostitute sono descritte e considerate con umanità e comprensione. A volte si nota anche una buona dose di pietà verso queste donne; una pietà cristiana che non si discosta da quella, come recita il Vangelo, di Gesù nei confronti di un'adultera che stava per essere lapidata. C'è anche chi le guarda con curiosità, chi le provoca e le ferisce per poi piangere insieme a loro, e infine chi, nostalgico, rimpiange i tempi in cui esistevano quegli edifici definiti postriboli, in cui vivevano gruppi di prostitute e in cui gli uomini potevano sfogare senza problemi di sorta le loro esigenze sessuali.




ANGELA
di Umberto Bellintani (1914-1999)

Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell'amore:
c'è il buono di un'anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c'è tanto della mamma nei tuoi occhi
di benevolo nero;
e chi ti prende, di poi si vergogna.

(da "Nella grande pianura", Mondadori, Mialno 1998, p. 50)




LA DONNA DEL TRIVIO
di Mario Bètuda (?-?)

Conosco una donna da trivio. Giovane.
Forse non ha trent'anni;
ma che ha vissuto una lunga vita d'affanni.

Si dona a chi paga, inerte: materia che vale quello che prende.
È bella ed ha molti ammiratori,
che richiedono i suoi pagati favori.
Io la conobbi una nera sera di pioggia.
Ero triste sconsolato affannato.
Lo conobbe.
Mi mise una mano, lenta e calda fra i capelli,
e, che hai? mi disse. Sei mesto? Hai pianto? D'amore?
Ho pianto anch'io, tanto!

Da quella sera l'amai. L'amai di un amore
dolce soave pudico fraterno; che mi vive nel cuore
come una stella nel cielo oscuro: puro.
Non l'ho mai posseduta, né mai l'avrò,
ed ella m'è grata della rinuncia che fo.
Mi comprende.
Talvolta la bacio di un lungo bacio fraterno in mezzo la fronte.
Freme.
Dopo, mi guarda a lungo, e dentro l'occhio
— fonte di un'anima sincera — trema e si ferma una lagrima.

E mi sorride mesta: le sorrido.
È una festa il mio sorriso al suo cuore.

È una donnaccia da trivio, dicono.

Io vi grido in faccia, oneste che condannate,
che l'anima di quella donnaccia
vale l'anime vostre tutte, raccolte in una.
Voi aveste fortuna: ella non ebbe fortuna.

(da "I Poeti Futuristi", Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1912, pp. 100-101)




A UNA TROIA DAGLI OCCHI FERRIGNI
di Dino Campana (1885-1932)

Coi tuoi piccoli occhi bestiali
Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi
E mi riguardi e taci. La tua carne
Goffa e pesante dorme intorpidita
Nei sogni primordiali. Prostituta...
Chi ti chiamò alla vita? D’onde vieni?
Dagli acri porti tirreni,
Dalle fiere cantanti di Toscana
O nelle sabbie ardenti voltolata
Fu la tua madre sotto gli scirocchi?
L’immensità t’impresse lo stupore
Nella faccia ferina di sfinge
L’alito brulicante della vita
Tragicamente come a lionessa
Ti disquassa la tua criniera nera
E tu guardi il sacrilego angelo biondo
Che non t’ama e non ami e che soffre
Di te e che stanco ti bacia.

(da "Opere", Tea, Milano 1989, p. 153)




BALLATA INCOMPLETA
di Ennio Flaiano (1910-1972)

Luana, dov'è Marilù?
Dove sono Fatima e Lia?
Dov'è la bella Bijou,
che fu l'amante mia?
Dove sono Bologna e Taitù,
la Spagnola, Ferrara e Rovigo?
E, Strana, dove sei tu?
Vorrei scriverti un rigo.

                          Principe, questo è l'intrigo:
                          il piacere e ginnosofia.
                          Dov'è dunque l'amante mia? 
                          Vorrei scrivere un rigo.

(da "Poesia satirica nell'Italia d'oggi", Guanda, Parma 1964, p. 120)




COLOMBINA PROSTITUTA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Non ama più il romanticismo epistolare
e i baci inzuccherati come dei confetti;
all’erba molle preferisce i duri letti
insonni e affaticati dentro il lupanare.

Si concede a chi vuole: se si fa pagare
non guarda pel sottile con gli amanti eletti.
E si presenta sotto mille vari aspetti,
donna moderna dalle voluttà più rare.

Il colore dei suoi capelli è materiato
di ruggine di vecchia spada sanguinosa,
e di fulvo liturgico oro saccheggiato.

L’incendio dei suoi occhi sembra che s’estingua
palpitando nell’orgia libidinosa
della rossa marea dalla sua lingua.

(da "Fuochi d'artifizio", Quodlibet, Macerata 2013, p. 118)




ALLO SVOLTO D'UNA VIA
di Pietro Mignosi (1895-1937)

Allo svolto d'una via
una prostituta. Preparo
la mia corazza d'orgoglio:
ho gli occhi crudeli e non guardo.

Aspetto che tenti,
aspetto i suoi occhi.

Ma quella donna è passata
ed ha sorriso ad un bimbo.

(da "Dialetica", Priulla, Palermo 1924, p. 45)




LE CORTIGIANE
di Fausto Maria Martini (1886-1931)

Cortigiane sfacciate, le Parole
ballano oscenamente innanzi al trono:
il re Pensiero inorridisce al suono
delle loro voci: il vecchio re non vuole

d'intorno maledette cortigiane
con flaccide mammelle, e labbra smorte:
le trarrà, come Cristo, dalle porte
del Tempio, fino nelle loro tane!

Fuggendo verso un'altra Primavera
di sogno, il vecchio s'è dimenticato
del suo povero trono desolato,
delle sue grucce e della tabacchiera...

(da "Panem nostrum...", Cromo-Tipografia Commerciale, Roma 1907, p. 47)




ZELIDE
di Marino Moretti (1885-1979)

I.
Malinconia del lastrico affollato
d'ombre rapide in ora solitaria,
mentre le nari cercano nell'aria
odor di bocche e odore di peccato,

fila di lune elettriche sospese
su la via fredda di bagliori, luce
bianca del sogno che ora mi conduce
alla soglia di un mistico paese...

II.
Due lire?... Ah, non guardarmi, non volere
ch'io ti fermi nel vicolo deserto
per domandarti con un guardo esperto
quanto costa un minuto di piacere,

quanto costa il tuo sguardo che si vela
sotto l'urgenza di supini amplessi...
Forse poco: due lire... Ah, s'io ti dessi
un po' d'amore e un po' di parentela?

III.
Malinconia del vicolo che ascolta
nel suo silenzio di mendico attento
la voce varia che gli porta il vento
dalla prossima strada, a volta a volta...

Malinconia della gran luna sola
altosospesa senza ferreo filo...
Passa nell'ombra un pallido profilo,
un brivido, un accento, una parola...

IV.
Ài detto il nome mio! Nome e cognome!
Tu mi conosci! Ti conosco anch'io!
O creatura, ài detto il nome mio,
ed io ricordo - Zelide - il tuo nome!

Siam d'un paese solo: e una segreta
cura affrettò la nostra dipartita:
soffrimmo, amammo, e poi... e poi... (la vita!)
tu prostituta ed io... non so, poeta...

V.
Malinconia d'un brivido che scruta
l'intime fibre e afferra i sensi e dà
un desiderio di felicità
a chi non l'ebbe ed a chi l'à perduta...

Tu mi sorridi e dici il nome mio
con una voce quasi un po' contrita...
Soffrire, amare, e poi... e poi (la vita!)
soffrire ancora... E sia, Zelide. Addio.

(da "Poesie di tutti i giorni", Ricciardi, Napoli pp. 66-68)




PIETÀ
di Renzo Pezzani (1898-1951)

Sotto la luce del lampione attese
«Vieni» - mi disse - «ho fame...» e si protese
come a donarsi.
Un senso di profonda
pietà m'assalse...
avrei voluto correre, fuggire,
non averla incontrata
e lasciarla morire...
         L'alma s'è ribellata:
         l'ho goduta nel buio e l'ho salvata.

(da "Ombre", M. Fresching, Parma 1920, p. 21)




MAGRA DAGLI OCCHI LUSTRI...
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca
chi le somigli
trova te che sull’uscio aspetti gli uomini.

Tu sei la mia sorella di quest’ora.

Accompagnarti in qualche osteria
di bassoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto!

Cadavere vicino ad un cadavere
bere dalla tua vista l’amarezza
come la spugna secca beve l’acqua!

Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
e sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre...

Nessuna gioia vale questo amaro.
Poterti fare piangere, potere
pianger con te!

(da "Pianissimo", Marsilio, Venezia 2001, p. 80)



Edouard Manet, "Nana"
da questa pagina web

domenica 16 giugno 2019

Poeti dimenticati: Luigi Conforti


Nacque a Torino nel 1854 e morì a Napoli nel 1907. Figlio di Raffaele, famoso avvocato, patriota e politico (fu ministro di Grazia e Giustizia per diversi anni nella neonata nazione italiana), studiò a Siena e ivi si laureò in giurisprudenza; si spostò quindi a Firenze e nel capoluogo toscano iniziò i suoi studi letterari. Trasferitosi infine a Napoli, nella città partenopea trovò un impiego dapprima nel Banco di Napoli, poi al Museo Nazionale, dove trovò il modo di occuparsi anche di archeologia. È autore di libri di storia napoletana e di versi; questi ultimi, quasi tutti dalla struttura poematica, si distinguono per una evidente propensione verso il paganesimo, unita ad una spiccata tendenza verso il romanticismo e l'erotismo.



Opere poetiche

"Pompei", Pierro, Napoli 1888.
"Esperia", Vecchi, Trani 1889.
"Poema dei baci", Pierro, Napoli 1892.
"Poema della passione", Chiurazzi, Napoli 1898.
"I dodici Cesari", D'Auria, Napoli 1902.
"La Spiaggia delle Sirene", Marzano, Napoli 1905 (1910²)
"Sibari", Pironti, Napoli 1907.




Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 116).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. V, pp. 49-53).




Testi

DIONISIACA

O cagne de la rabbia andate, andate
al monte, dove il coro
de le figlie di Cadmo furioso
move la danza bacchica; agitate
dei veli l'ampie spire
in orgia di baccanti.
Da la cima rocciosa, ove s'inalza
il sacro albero, erranti
le Menadi vedrete a le montane
balze discender ebbre,
agitando dei cembali
sonanti i crepitacoli.
Chi lor fu madre? Nate
da fiera leonessa o da gorgone
ne le libiche tane,
insaziate di lascivia, alternansi
quai bisce in sozzi talami,
che non le partorir viscere umane!
Chi son queste femine,
che mai non furon vergini?
Esse sen vanno in corsa scapigliata
in lunga teoria, là sovra l'erte
del Citerone e vanno ognor ne l'ansia
di nove ebbrezze,
invase da lo spirito del Dio.
Quando scintilla il vino
su per le coronate
mense, i colmi boccali
chiamano a l'orgia i cori vendemmiali
di Cadmo; sotto i pini
le dissennate figlie, cui nel fianco
arde la voluttà, fatta di morsi
di vipere e assetate
tigri, quando a Penteo
diedero strazio con l'ugne voraci.
E canti Bromio ardito:
La vita ha breve fine,
e chi l'eletta mente
volge a sublimi cure,
non consegue il presente.
Altro non v'ha per noi che il dolce oblio
dei mali, e lo concede amor soltanto!...
A le donne, che Bacco ama, ed è vanto
piacere ai giovinetti,
da le ricciute chiome
e vellutate guance,
fragranti di disio,
dolce è sfrenar le bianche
membra nei baci inconsci de l'oblio.
Il Dio con tempia carche
di draghi in serti ed angui,
d'edera i crin conserti,
per la distesa ascolta
il suon dei timballi,
e grida: A le sorgenti
del foco entro a le maschie
viscere, o ditrambo,
disfrena le tue molli
spire al vischio dei baci.
Il racemoso Iddio chiede ai celesti
non più che sonno e oblio?...

(da "Sibari")

domenica 9 giugno 2019

In ritardo


E l’acqua cade su la morta estate,
e l’acqua scroscia su le morte foglie;
e tutto è chiuso, e intorno le ventate
gettano l’acqua alle inverdite soglie;

e intorno i tuoni brontolano in aria;
se non qualcuno che rotola giù.

Apersi un poco la finestra: udii
rugliare in piena due torrenti e un fiume;
e mi parve d’udir due scoppiettìi
e di vedere un nereggiar di piume.

O rondinella spersa e solitaria,
per questo tempo come sei qui tu?

Oh! non è questo un temporale estivo
col giorno buio e con la rosea sera,
sera che par la sera dell’arrivo,
tenera e fresca come a primavera,

quando, trovati i vecchi nidi al tetto,
li salutava allegra la tribù.

Se n’è partita la tribù, da tanto!
tanto, che forse pensano al ritorno,
tanto, che forse già provano il canto
che canteranno all’alba di quel giorno:

sognano l’alba di San Benedetto
nel lontano Baghirmi e nel Bornù.

E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
l’acqua mi sferza, mi respinge il vento.
Non più gli scoppiettìi, ma le remote
voci dei fiumi, ma sgrondare io sento

sempre più l’acqua, rotolare il tuono,
il vento alzare ogni minuto più.

E fuori vedo due ombre, due voli,
due volastrucci nella sera mesta,
rimasti qui nel grigio autunno soli,
ch’aliano soli in mezzo alla tempesta:

rimasti addietro il giorno del frastuono,
delle grida d’amore e gioventù.

Son padre e madre. C’è sotto le gronde
un nido, in fila con quei nidi muti,
il lor nido che geme e che nasconde
sei rondinini non ancor pennuti.

Al primo nido già toccò sventura.
Fecero questo accanto a quel che fu.

Oh! tardi! Il nido ch’è due nidi al cuore,
ha fame in mezzo a tante cose morte;
e l’anno è morto, ed anche il giorno muore,
e il tuono muglia, e il vento urla più forte,

e l’acqua fruscia, ed è già notte oscura,
e quello ch’era non sarà mai più.

 
Frontespizio di una ristampa dei "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli

Questa che ho riportato è una delle poesie più disperate e malinconiche presenti nella raccolta di Giovanni Pascoli intitolata Canti di Castelvecchio. Apparve fin dalla prima edizione dell'opera citata, uscita nel 1903; è, più precisamente, l'ultima lirica della sezione principale che porta il titolo della raccolta, e si pone come componimento finale di una successione che ha, come struttura progettuale, quella del trascorrere delle stagioni, partendo dall'inverno e terminando con l'autunno. Praticamente ignorata dalle antologie più importanti, ricordo che la lessi per la prima volta quando comperai una ristampa di questa opera poetica che considero, insieme a Myricae, la migliore del poeta emiliano. Come già accennato, i versi di In ritardo evidenziano uno stato d'animo decisamente malinconico del poeta, dovuto alla fine dell'estate e del bel tempo, come dimostra l'ambientazione autunnale, con la caduta di una pioggia intensa, che, insieme al sinistro rumore dei tuoni, si pone a simbolo di disfacimento e rovina. Altri simboli si possono identificare nei nidi - uno vuoto ed uno occupato dai rondinini - citati al verso 39, attorno ai quali si aggirano i genitori della nidiata: due volastrucci (sono i balestrucci, ovvero un tipo di rondini dai colori bianco-azzurri), preoccupati per la sorte dei rondinini affamati; ebbene quei nidi molto ricordano la vicenda familiare del Pascoli: il nido abbandonato, ovvero la prima cova stagionale dei balestrucci, rappresenta la perdita dei genitori e dei fratelli del poeta; il secondo invece, simboleggia la precarietà e il pericolo in cui si trovava a vivere il Pascoli dopo tanti lutti familiari mai superati né rimpiazzati da altri affetti. L'ultimo verso, sentenzioso e palesemente pessimista, dichiara senza mezzi termini l'impossibilità di un ritorno del tempo trascorso - che poi coincide col tempo felice del poeta - mettendo quindi a sigillo della composizione una totale assenza di speranza ed un senso di vuoto assolutamente incolmabile.


Ruggero Pascoli (1815-1867) coi tre figli maggiori: da sinistra Giacomo (1852-1876), Luigi (1854-1871) e Giovanni (1855-1912)