domenica 30 aprile 2017

Poeti dimenticati: Eugenio Gara

Nacque a Genova nel 1888 e morì a Milano nel 1985. Debuttò nel mondo della letteratura con un libro di poesie, per poi intraprendere una lunga e prestigiosa carriera di critico musicale (specializzato in operistica); negli anni, collaborò con numerosi giornali pubblicando saggi memorabili. Scrisse anche molti libri, tra i quali vanno ricordati quelli concernenti le biografie del tenore Enrico Caruso e della soprano Maria Callas. Giovanissimo, si dedicò alla poesia pubblicando un volume ed altri versi sparsi in riviste d'inizio Novecento; le sue liriche prediligono i temi cari al decadentismo e al crepuscolarismo, ma a volte compaiono anche alcuni accenti romantici.




Opere poetiche

"La canzone del salice", Stab. Tipografico S. Morano, Napoli 1910.




Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 96-99).




Testi

SPLEEN

Come diventa triste la vita, triste e vana,
quando non si ha più fede, o sorella lontana:
quando le foglie secche de le nostre illusioni
si staccan da la rama di nostra gioventù,
e fugan senza luci, senza direzioni,
fugano solamente per non tornar mai più:
quando l'anima nostra con lo sguardo angosciato
affissa stranamente lo specchio del passato,
e non si riconosce, l'anima appesantita:
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una voce,
una piccola voce, che c'insegni a sperare;
che ci guidi e ci dica: - È questa la tua croce,
è questo il tuo cammino: lo devi camminare.
Una piccola voce che ne i giorni piovosi
ci sollevi lo spirito con i canti armoniosi:
una vocina dolce che ne le notti oscure
ci riconforti l'anima, ingombra di paure:
quando non si ha una voce, che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Com'è triste la vita quando non si ha una mano,
una manina piccola, che ci guidi lontano:
che ci aiuti a salire il periglioso colle:
che ci aiuti a discendere su le invocate zolle:
una manina piccola, che ci prenda pel viso
e c'imprima sul labbro un allegro sorriso:
una piccola mano che ci apra le pupille,
e ci additi i fantasmi vaganti a mille a mille...
Quando non si ha una mano che a la nostra sia unita,
o sorella lontana, com'è triste la vita!

Adesso, sorellina, io non so che viare,
viare lentamente, senza giammai sostare:
io non so che viare lungo i fondi sentieri
con il triste fardello de' miei tristi pensieri:
viare senza mèta - sia lontana o vicina -,
viare trascinando l'anima pellegrina:
viare etrnamente senza luce d'amore,
senza gloria di cielo, col mio pesante cuore...
O sorella lontana, mi vorresti aiutare?
Io non so che morire, e viare, viare...
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .


(Da "La canzone del salice")

domenica 23 aprile 2017

La gondola come simbolo di morte nella letteratura decadente e simbolista

La gondola, caratteristica imbarcazione veneziana, in certa letteratura decadente e simbolista, diventò simbolo di morte. Lo attestano dei versi e delle prose pubblicate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ecco due esempi che confermano questa tesi. Il primo è un sonetto di Alessandro Varaldo (1876-1953), tratto dal Il 1° Libro dei Trittici (Tipografia di Pietro Gibelli, Bordighera): opera poetica decisamente sui generis uscita nel 1897 , in cui sono presenti poesie in forma di sonetto "a tema" dell'autore menzionato, di Alessandro Giribaldi (1874-1928) e di Mario Malfettani (1875-1911). Originale è anche l'impaginazione orizzontale dei testi. Poco conosciuto, questo libriccino è da considerarsi tra i più riusciti nell'ambito della poesia simbolista italiana. 


LA GONDOLA DAL LETTO DI ROSE

Passano i morti solo in questa pace
sopra quest'acque nere e lentamente?
Forse scorre veloce una silente
gondola di giustizia o di fallace

vendetta? Sul Canale Orfano sente
il marinaio un tremito: si tace
ogni canto, ogni bacio in questa pace
funebre: stanno le civette intente.

Ma una gondola passa in un istante
di terrore ed à rose in su i cuscini;
rose bianche d'amore e di desio,

e scorre sopra tanti morti e tante
vendette sola poi che ai mattutini
sogni i fantasmi cantano l'addio.



La poesia di Varaldo si trova nel capitolo intitolato Trittico de le acque ed è quanto mai misteriosa: la prima quartina è composta da domande inquietanti relative ad un non ben definito passaggio sulle acque scure del canale veneziano; forse di morti, oppure, di una gondola che simboleggi la giustizia o la vendetta. Il canale, definito "orfano", è circondato da un grande silenzio, da una pace "funebre". Poi l'apparizione terrificante della gondola che ha, al suo interno, dei cuscini ed un letto di rose bianche (esse, come dice il testo, simboleggiano amore e desiderio). L'ultima terzina del sonetto è inesplicabile: parla del passaggio solitario dell'imbarcazione sopra le acque che coprono tanti morti e tante vendette; quel "poiché" dell'ultimo verso sembrerebbe spiegare il motivo di tale passaggio nel fatto che i fantasmi (forse quelli dei morti citati in precedenza) cantano l'addio ai mattutini sogni.


Molto più limpido è il frammento che ho estratto dal racconto breve di Thomas Mann (1875-1955): La Morte a Venezia (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912). 

Ma chi non ha mai avuto da reprimere un brivido passeggero, una misteriosa timidezza nel salire per la prima volta, o dopo lunga dissuetudine, in una gondola veneziana? Quella strana barca, tramandata dai tempi delle ballate e tanto singolarmente nera, come lo sono soltanto le casse da morto, ricorda avventure silenziose e scellerate nello sciabordio della notte, ricorda forse di più la morte stessa, la bara, il tetro funerale e l'ultimo, taciturno viaggio. E si è mai osservato che il sedile d'una tale barca verniciato in nero feretro, la poltroncina imbottita in nero opaco, è il sedile più soffice, più voluttuoso, più prostrante del mondo? Aschenbach se ne rese conto quando, ai piedi del gondoliere, di fronte ai suoi bagagli raccolti in ordine a prua, vi si accomodò sopra. I vogatori stavano ancora litigando, rudi, incomprensibili, gesticolando minacciosi. Ma la calma particolare della città acquatica sembrava accogliere mite, smaterializzare e disperdere sui flutti le loro voci. Faceva caldo là nel porto. Sfiorato dall'alito tiepido dello scirocco, sull'elemento cedevole, appoggiato al cuscino, il viaggiatore chiuse gli occhi, godendo un'inerzia tanto inusitata quanto dolce. Il percorso sarà breve, pensava; potesse durare sempre! Mentre oscillava leggero si sentiva allontanare dalla ressa, dal vociare confuso.



Qui viene descritto il momento in cui il protagonista, ovvero il professor Gustav von Aschenbach, sbarcato allo scalo veneziano, sale sulla gondola che lo deve portare all'interno della città lagunare. Nella gondola il nero prevale sugli altri colori e ricorda, per le dimensioni e la forma, una bara; per questo il pensiero della morte è conseguente, unito ad una sensazione d'inerzia, di rilassatezza e di voluttà tali da far sì che il viaggiatore desideri un viaggio infinito. Forse si tratta dell'ultimo viaggio (e in effetti, alla fine del racconto von Aschenbach troverà la morte nella città veneta); volendo poi fare un ulteriore, personale viaggio con la fantasia, si potrebbe pensare all'imbarcazione che ospita un personaggio misterioso, visibile nel celebre quadro L'isola dei morti (Die Toteninsel, 1880) del pittore elvetico Arnold Böcklin (1827-1901).

venerdì 21 aprile 2017

Ogni sera Ugo ricominciava l'identico itinerario...

Ogni sera Ugo ricominciava l'identico itinerario, seguendo i canali, con un'andatura indecisa, già un po' curvo, benché non avesse che quarant'anni. Ma la vedovanza era stata per lui un autunno precoce. Aveva i capelli pieni di una cenere grigia, era stempiato. Con gli occhi appassiti guardava lontano, molto lontano, al di là della vita.
E come era triste anche Bruges, in quel morire del pomeriggio! e come gli piaceva così! L'aveva scelta appunto grazie alla sua tristezza; per quello ci si era stabilito dopo il grande disastro. Una volta, nei tempi della felicità, quando viaggiava con la moglie e vivevano una vita capricciosa, un pochino cosmopolita, a Parigi, all'estero, in riva al mare, c'era venuto con lei, così, passando, senza che quella grande malinconia potesse qualche cosa sulla loro gioia. Ma poi, rimasto solo, s'era ricordato di Bruges, e di colpo aveva avuto l'intuizione che ormai era lì che doveva stabilirsi. Era una misteriosa equazione che s'imponeva: alla sposa morta doveva corrispondere una città morta. Il suo grande lutto esigeva un simile scenario: soltanto lì avrebbe potuto tollerare la vita. C'era venuto portato da un istinto. Che fuori di lì il mondo si agitasse e facesse rumore e accendesse le sue luminarie, intrecciasse i suoi mille fragori: egli aveva bisogno di un infinito silenzio e d'una esistenza talmente monotona che quasi non gli desse più la sensazione di vivere.



È, quello sopra riportato, un frammento del romanzo di George Rodenbach (Tournai 1855 - Parigi 1898) intitolato Bruges la morta (Bruges-la-morte, 1892), tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1907, riproposto con una nuova traduzione nel 1955 (anniversario dei cento anni dalla nascita dello scrittore belga), nella celebre collana B. U. R. della casa editrice Rizzoli di Milano. Precisamente, si tratta della prima pagina del capitolo II. Questo romanzo è da annoverare tra i migliori del periodo decadente e simbolista della letteratura europea. Rodenbach, conosciuto soprattutto come poeta, creò questo capolavoro grazie al suo amore per la città di Bruges, che ebbe il merito di trasmettere a molte generazioni, comprese quelle dei nostri poeti crepuscolari come Fausto Maria Martini (che fu il primo a tradurre il libro nella nostra lingua), Marino Moretti e Corrado Govoni. A proposito di quest'ultimo, pubblicò nel 1903 l'opera poetica Armonia in grigio et in silenzio, che possiede requisiti assai vicini al romanzo di Rodenbach, comprese le citazioni della città belga e dei suoi famosi beghinaggi.

Riguardo al frammento che ho estratto, si possono notare in modo tangibile, sia l'atmosfera malinconica (tipica di tanta letteratura decadente) della città che l'autore definisce "morta", sia il simbolismo tutt'altro che nascosto della città stessa che viene paragonata alla vita ed all'umore del protagonista: un uomo maturo, affranto dal lutto (la moglie era recentemente scomparsa), solo e stanco della propria, inutile esistenza.    

giovedì 20 aprile 2017

Antologie: "Dal Carducci ai contemporanei"

Tra le antologie scolastiche concernenti la poesia italiana otto-novecentesca è doveroso parlare dell'opera Dal Carducci ai contemporanei (sottotitolo: Antologia della lirica moderna) a cura di Giovanni Getto e Folco Portinari, Zanichelli, Bologna 1956. Dalla Giustificazione presente già dalla prima edizione, si legge che l'antologia è rivolta soprattutto agli studenti dell'ultimo anno delle scuole medie superiori; per tale motivo si spiegano le molte esclusioni. A partire dalla 2° edizione però, i due curatori tornano sui loro passi, includendo alcuni nomi di poeti contemporanei che, d'altronde, non avrebbero meritato l'iniziale, severa esclusione. La definitiva 3° edizione vede infine un aumento del numero delle poesie selezionate, specialmente per autori come Pascoli, Saba, Ungaretti e Montale, ovvero i pilastri della poesia italiana moderna. Nel complesso, considerando i componimenti in versi scelti e le interessanti note che spiegano ed approfondiscono ogni testo poetico presente, si può affermare che questa antologia sia tra le migliori del periodo; è sottinteso che si sta parlando, come già detto, di un libro prettamente rivolto agli studenti. È altrettanto scontato che questa antologia sia ormai datata, e non risulti esaustiva per quel che riguarda l'intero XX secolo. Ecco infine i nomi dei poeti presenti.



DAL CARDUCCI AI CONTEMPORANEI

Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Clemente Rebora, Dino Campana, Camillo Sbarbaro, Arturo Onofri, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Vittorio Sereni.


lunedì 17 aprile 2017

La rosa bianca

Coglierò per te
l'ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l'hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent'anni.
Un po' smemorata, come tu sarai allora.




Questa è la poesia che apre la tenue raccolta di Attilio Bertolucci (1911-2000): Fuochi in novembre (Minardi, Parma 1935). È, secondo me, tra le migliori del poeta emiliano; ricordo che la lessi per la prima volta in una famosa antologia della lirica novecentesca italiana e mi piacque immediatamente per l'estrema semplicità e, nello stesso tempo, per l'ancestrale simbolismo che racchiude. Non era passato molto tempo da quando, anch'io, ebbi la fortuna di cogliere l'estrema bellezza delle rose bianche: quell'intimo senso di mistero e di purezza che posseggono questi fiori dal colore splendente. Ebbi modo, anche, di ascoltare la stupenda canzone di Sergio Endrigo (1933-2005) intitolata, appunto, La rosa bianca; e in seguito venni a conoscenza del fatto che Endrigo si ispirò ad un'altra poesia dello scrittore e rivoluzionario cubano José Martí (1853-1895), la quale recita così: Cultivo una rosa blanca, / En julio como en enero, / Para el amigo sincero / Que me da su mano franca. / Y para el cruel que me arranca / El corazón con que vivo, / Cardo ni oruga cultivo: / Cultivo la rosa blanca. È evidente che qui il fiore diviene simbolo di pace e di amicizia, sempre grazie a quel colore bianco che emana soltanto sentimenti puri e positivi. Seppi poi di un gruppo studentesco nato in Germania durante la 2° Guerra Mondiale, che si oppose in modo netto al regime nazista e che si identificò col nome: Rosa Bianca (Weiße Rose), ponendo ancora una volta questo fiore a simbolo della non belligeranza e, in questo preciso caso, della cristianità. Tornando alla poesia di Bertolucci, essa parla, principalmente, dell'amore che prova il poeta nei confronti della compagna; amore che si manifesta con l'offerta di un fiore meraviglioso: una rosa candida fiorita in settembre, alla fine dell'estate. Probabilmente il fiore rappresenta il simbolo della giovinezza che sta per andarsene (un ritratto di te a trent'anni). Il poeta descrive la rosa con l'aggettivo "dolce", quasi che fosse qualcosa di commestibile; in realtà la dolcezza deriva dal fatto che, malgrado le api l'abbiano "visitata" e si siano nutrite del suo polline, essa ha miracolosamente mantenuto una sorta di verginità, di pulizia e lucentezza tali da disorientare (far tremare) chi la guarda.


Tola-102, "White Rose"
(da questa pagina web)


sabato 15 aprile 2017

Drogo, il capitano Giovanni Drogo, risale a cavallo la ripida strada...

Drogo, il capitano Giovanni Drogo, risale a cavallo la ripida strada che dalla pianura mena alla Fortezza Bastiani. Ha avuto un mese di licenza ma dopo venti giorni già se ne ritorna; la città gli è oramai diventata completamente estranea, i vecchi amici hanno fatto strada, occupano posizioni importanti e lo salutano frettolosamente come un ufficiale qualsiasi. Anche la sua casa, che pure Drogo continua ad amare, gli riempie l’animo, quando lui ci ritorna, di una pena difficile a dire.
La casa è quasi ogni volta deserta, la stanza della mamma è vuota per sempre, i fratelli sono perennemente in giro, uno si è sposato e abita in una diversa città, un altro continua a viaggiare, nelle sale non ci sono più segni di vita familiare, le voci risuonano esageratamente, e aprire le finestre al sole non basta.
Così Drogo ancora una volta risale la valle della Fortezza ed ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l’orgasmo oscuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina nella illusione che l’importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il tempo avvenire gli poteva sembrare un periodo immenso, una ricchezza inesauribile che non si rischiava niente a sperperare. Eppure un giorno si è accorto che da parecchio tempo non andava più a cavalcare sulla spianata dietro alla Fortezza.
Si è accorto anzi di non averne nessuna voglia e che negli ultimi mesi (chissà da quanto esattamente?) non faceva più le scale di corsa a due a due. Sciocchezze, ha pensato, fisicamente si sentiva sempre lo stesso, tutto stava a ricominciare, non c’era neppure dubbio; una prova sarebbe stata ridicolmente superflua.




Questo frammento l'ho estratto dal capitolo XXV del bellissimo romanzo di Dino Buzzati (1906-1972): Il deserto dei Tartari (Mondadori, Milano 1945). È uno dei momenti più profondi e significativi del racconto, perché il protagonista, ormai invecchiato, inconsapevolmente sta perdendo la sua vita in un'attesa frustrante di qualcosa che mai verrà. Incapace di cogliere gli indizi del suo totale fallimento, nemmeno riesce a percepire fino in fondo che il tempo a sua disposizione sta per scadere (di lì a poco si ammalerà e morirà lontano da tutti). Ormai è solo, senza affetti (la mamma è morta, non ha una donna al suo fianco e nemmeno i fratelli si ricordano più di lui), con le ultime speranze che gli sono rimaste di una vita militare gloriosa, che però ancora non s'intravede all'orizzonte... e sta ormai per arrivare la sera. Si parla, in fondo, della vita di molti esseri umani, che passa nella speranza di un futuro migliore, di una felicità prossima a venire, e che, alla fine, si conclude senza nessuna soddisfazione. Il tempo è passato lentamente, ma, come si suole dire, inesorabilmente; anche se per noi ciò non sembra possibile, poiché nel nostro animo perdura quella sensazione giovanile, quell'istinto di sopravvivenza, che ci fa sembrare la vita come qualcosa che duri all'infinito. Ci convinciamo che il meglio sta ancora davanti a noi, anche se la nostra età è avanzata, e la vecchiaia è ad un passo; eppure siamo sicuri che la nostra esistenza ci serberà chissà quali sorprese... Ma in realtà, ad aspettarci, molto spesso sono soltanto le malattie e la morte.

venerdì 14 aprile 2017

Dall'oceano, onde emergono ancorati...

Dall'oceano, onde emergono ancorati
i continenti della terra viva,
ascendono a una luce senza riva
ricordi dei sommersi evi passati.

Sembra che, ricordando, si dilati
l'anima della terra sensitiva
a ripensar quand'ella trasaliva
d'infanzia, al cenno dei suoi dèi beati.

Ora li porta in sé, nel cielo ormai
della propria sua anima, che ha foce
entro abissali lave e polipai;

ma i raggianti ricordi, sui frangenti
dell'oceano, ora formano la croce
nera, che sboccia in sette rose ardenti.



Questo sonetto di Arturo Onofri (1885-1928) si trova nel volume poetico "Suoni del Gral" (Al tempo della fortuna, Roma 1932), uscito a quasi quattro anni dalla morte del poeta romano e che rappresenta il penultimo capitolo del cosiddetto Ciclo lirico della terrestrità del sole. Precisamente, si tratta della poesia n° 11 del suddetto volume.
Chi è a conoscenza dell'ultima parte dell'opera poetica onofriana, è anche consapevole della sua enorme difficoltà e della sua incredibile sovrabbondanza. Tutto il "Ciclo lirico", ovvero circa un migliaio di liriche, si fonda su una poetica trascendente ben spiegata nel saggio Nuovo Rinascimento come arte dell'io, pubblicato da Onofri nel 1925, che dimostra il netto avvicinamento del poeta alle teorie occultistiche del filosofo Rudolf Steiner. In questi versi, sembra che il pianeta Terra sia un essere pensante, che è capace quindi di ricordare il passato e, soprattutto, la sua infanzia. La Terra possiede un'anima colma di ricordi, che, come spiega bene l'ultima terzina del sonetto, hanno forma di croce nera, e che, infine, sbocciano in sette rose ardenti. Lampante, in queste parole, il riferimento alla dottrina esoterica dei Rosa Croce racchiusa nei tre testi intitolati: Fama Fraternitatis, Confessio Fraternitatis e Le nozze Chimiche di Christian Rosenkreutz.

mercoledì 12 aprile 2017

Il Cristo nella poesia italiana decadente e simbolista

Gesù Cristo è preso in considerazione, dai poeti simbolisti e decadenti italiani, soltanto per rimarcare determinati avvenimenti della sua vita. Per esempio più di una volta si parla della parabola del Vangelo che lo vede intervenire a favore della prostituta Maria Maddalena, con la quale, grazie a libere interpretazioni, instaura un dialogo, oppure le si rivolge per dichiarare l'amore che prova nei suoi confronti.  In altri casi i poeti si concentrano sul calvario di Gesù e sulla conseguente crocifissione, facendolo così diventare simbolo del dolore e, nel caso della poesia di Graf, della sconfitta finale del "bene". In altri casi ulteriori Gesù viene descritto quale personaggio misterioso; in cammino o nell'atto del dormire (come nella poesia di Palazzeschi), possiede alcuni elementi (l'abito bianco e splendente, la biondezza di barba e capelli ecc.) che lo rendono attraente al massimo e palesano bene l'idea di un Dio che mostra la sua superiorità, anche dal lato estetico.  A volte, infine, Gesù appare al poeta come visione onirica, nel contesto in cui diviene Messia, quasi a dimostrare un profondo desiderio di vivere i momenti salienti dell'esistenza di "Dio in terra", di essere presente nel momento più importante della storia dell'umanità (secondo ciò che dice la religione cristiana, naturalmente).



GESÙ E L'ADULTERA
di Diego Angeli

Mite splendeva l'alba tra i rami degli ulivi
e ondeggiavan nel piano celeste i fior del lino,
tra gli steli del loto mormoravano i rivi,
i canti della vita sorgevan dal mattino,
mite splendeva l'alba tra i rami degli ulivi.

Ora dall'alto colle Gesù scendea pensoso,
e guardando le case tutte sperse nel piano,
- non anco ivi era giunto il mattin radioso -
benedicea gli umani con la candida mano.
Ora dall'alto colle Gesù scendea pensoso.

Si stendea nella pace la campagna fiorita,
e una donna gli venne incontro sul cammino;
avea le nere chiome sciolte lungo la vita,
avea dentro gli sguardi un bagliore divino.
Si stendea nella pace la campagna fiorita.

In torno a lei le capre pascevano belando,
ed ella volta al biondo figlio di Galilea
disse - O Maestro, quegli che soffrì molto amando
può sperare il perdono? - e parlando piangea.
In torno a lei le capre pascevano belando.

E il Maestro distese verso di lei la mano
dicendo lentamente: - Colui che ha molto amato
molto ha sofferto e il pianto lava ogni fallo umano.
Il pianto è come un nembo sopra il terreno arato. -
E il Maestro distese verso di lei la mano.

Sorrise allor la Donna ascoltando il perdono
e raccolti fra l'erba molti fiori odorosi
al Maestro li offerse e questi accolse il dono
però che amava i buoni, gli umili, i pietosi.
Sorrise allor la Donna ascoltando il perdono.

E i fiori ebbero vita novella sullo stelo,
e vennero le agnelle a lambir la sua mano.
Il sole delle nebbie squarciando il bianco velo
irradiò l'Eletto di un raggio sovrumano.
E i fiori ebbero vita novella sullo stelo.

(Da "La Città si Vita", Premiata Tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)




IN GALILEA
di Giovanni Alfredo Cesareo

Quando il tramonto s'effondea vermiglio
Alla spiaggia del mar di Galilea,
Il Nazareno eretto come un giglio
Fra l'ascoltante turba che sedea,

Dolcemente parlava, e sul candore
Della prolissa tunica la chioma
Feminea si spartia: da' campi in fiore
Giungeva una silvestre onda d'aroma.

Umile e augusta era la pace in torno,
E il flutto con suo lene sciabordio
Assecondava il bel sermone adorno,
Quasi raro suon d'arpe un canto pio.

— Felici i mansueti, perché vanto
Avranno di dominio su la terra.
Felici quei che vivono nel pianto,
Perchè sarà soccorso alla lor guerra.

Felici quei che han sete e quei che han fame
Di giustizia, perché prossima è l'ora
Che verran saziate le lor brame,
Spaccando a' monti la novella aurora. —

Tale ammoniva, e ne le sue pupille
Parea specchiarsi il ciel pieno di rose:
Cadean le sue parole, come stille
D'unguento, su ferite anime irose,

Su anime in lor pena umiliate,
Su accese anime pronte al sacrifizio;
E, come canne da un soffio agitate,
Mille fronti di sè davano indizio.

Or quand' egli movea, la turba giva
Appresso lui silenziosamente
Su la stridula ghiaia della riva,
E argentei sogni volgea nella mente;

Mentre un velo cinereo per l'erto
Declivio già mescea tutte le forme,
E lenta al profondissimo deserto
Salia la gloria della luna enorme.

(Da "Le consolatrici", Sandron, Milano-Palermo-Napoli 1905)




LA VISIONE
di Gabriele D'Annunzio

Quasi era a mezzo il dì. Presso e lontano
il fiume sorridea come a' belli anni.
Si placavan nel cor tutti gli affanni
per quel candore immenso cristiano.

Ed io vidi la riva del Giordano,
e splendere Gesù ne' rossi panni
qual fiamma che s'inchina, e a lui Giovanni
sparger l'onda su 'l capo sovrumano.

Ora, andando io così lungh'esso il fiume
pio (non so qual bontà muta nel sole
spirava il mondo), l'albero e l'arbusto

m'eran fratelli. E in tal beato lume
e in tal silenzio udimmo le parole:
– convien compire tutto quel che è giusto. –

(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)




GESÙ
di Federico De Maria

— Magdalena, non pianger: soffriamo
insieme. Questo pianto
— puro lavacro — à mòndo
il tuo peccato. Magdalena, io t'amo!

Ma non mi chieder nulla: la mia vita,
la mia carne, la mia
anima, sia
libera e integra consacrata al Mondo.

Benedetto il tuo martirio!
Benedetto il martirio mio!
L'Idea brucia ed innalza le passioni tenaci
al Cielo, in volute d'incenso.
Io sento nel cuore, da i baci
non dati che in noi muoiono, germogliare un ardor di più intenso
Amore. Noi siam lievi. Io voglio
farmi più lieve. — Lieve sino a divenir Dio!

(Da "La leggenda della vita", Edizioni di «Poesia», Milano 1909)




E CRISTO DISSE
di Ettore Fabietti

E Cristo disse: Germini la Pace
l'umile germe ch'io semino in terra:
nel mio sacco non ho miglior semente.
Gittò la mèsse, e poi volle, il verace
seminatore, perché pria nascesse,
irrorar del suo sangue anco le zolle.
Ma i guardiani del campo, a cui commesse
eran le sorti de la pia fatica,
sconvolsero la terra,
e spersi al vento i germi della Pace,
che è ben di tutti, seminaron guerra;
onde i fraterni lutti
fruttar dovizie al lor desìo rapace.

Or dei guardiani, o buon Gesù, che al vento
spersero i germi de la tua semenza,
noi siamo stanchi, e omai provar vorremmo,
Gesù mite, a far senza;
che per i lor nefasti
Tu seminasti, e noi non raccogliemmo.

(Da "Canti di Trifoglieto", Treves, Milano 1913)




VERSO LA CROCE
di Luigi Fallacara

O nostra umana, persa desianza
ardisci, ardisci, se l'Amor tanto osa;
l'Amore ha preso la nostra sembianza,
ed ogni carne è fatta onda amorosa!

O gioia che ogni gioia avida avanza,
il Dio perduto a noi tutto si sposa;
o nel Cristo avventata, alta certanza,
d'essere in Dio, con Dio, solo una cosa!

Ma più m'alzo a te, Cristo, e più dolore
trovo. Più dentro sono le tue braccia,
più veggo aprirsi la Croce gigante.

O Croce, o Croce vicina e distante!
La croce tutto l'universo abbraccia
vivo sol della tua morte, Signore!

(Da "Illuminazioni", Casa de' poeti, Varese 1925)




CRISTO
di Arturo Graf

Fuor dalle membra il caldo sangue a rivi
Ti scorrea, lacerava le divine
Tempie il tormento di pungenti spine:
Ti parea di morire e non morivi.

Con gli occhi in te confitti, genuflessa
Tua madre stava appiè dell’alta croce;
La sciagurata non avea più voce,
Né respiro, né pianto, e intorno ad essa

Tumultuava senza fin l’oscena
Turba, brïaca di delitto: obliqua
Per i colli, dal pian, chiudea l’iniqua
Città di Giuda l’esecrabil scena.

Fumava il sol caliginoso ed atro
Nel bronzeo cielo; esterrefatta e muta
Stava la terra; ed alla tua veduta
S’apria come un funereo teatro

L’età futura, e travedevi arcane
Fughe di tempi, e magistero occulto
D’indomabili posse, ed il tumulto
E la ruina delle cose umane.

E trïonfar menzogna, e infami gioghi
Vedevi al mondo impor da’ tuoi vicarii,
E nel tuo nome benedir sicarii,
E nel tuo nome dar le vampe ai roghi.

Correr l’iniquità la terra e il mare,
Ed invocare a suo presidio il cielo;
La tua croce schernita, e il tuo Vangelo
Fatto insegna e blason di lupanare.

T’ingiurïava dai cadenti clivi
Il volgo di vendetta ancor non sazio;
Ma tu l’ingiuria vil, ma tu lo strazio
Di tue misere carni non sentivi;

Ché un’angoscia più grave, un duol più rio,
Qual giammai non s’accolse in mortal petto,
Ti strinse il cor, t’avvinse l’intelletto,
Ed esclamasti: O padre, o padre mio,

Per tal d’abietti e di codardi schiavi
Nefando gregge ho il sangue mio versato?
Questo scempio cui giova? e reclinato
Sul petto il capo l’anima esalavi.

(Da "Medusa", Loescher, Torino-Roma 1880)




LA LIETA NOVELLA
di Virgilio La Scola

Benedicendo, Egli passò fra ignote
Plebi, e smarriva dentro l'orizzonte
Le sue pupille cerule ed immote:...
Un bianco lume gli battea la fronte,
Di penitenza gli lucean le gote.

Urgea su' colli un palpito lontano,
Ogni fiore balzava di desio:...
Egli ammoniva dolci cose, piano,
Piano imponea, come un divino oblio,
Su le femminee chiome la sua mano.

Ne la malinconia de l'ore meste,
Illuminava di sorriso il pianto,...
Fulgea più nivea la sua bianca veste,
Fluia più blando il suo soave incanto:
Ne la malinconia de l'ore meste...

Il pio sermone, lungo la sua via,
Leniva i mansueti, v'indulgea,...
Suscitava un'occulta melodia,
Ne l'umile suo fiato si traea
Immense turbe lungo la sua via...

E ripeteva a' genuflessi, a' proni:
"Poca semente darà un gran raccolto:...
In opre buone e con pensieri buoni
Usate il poco e giunga a' privi il molto:
Sollecitate de la terra i doni:...

E sia giustizia in ogni labbro, o figli,
Chi la difende ei ne sarà difeso:...
È palpito che doma i rei consigli,
È balsamo che modera ogni offeso:...
Suoni letizia da ogni labbro, o figli:

E sien pacati i vostri passi, come
Lo scorrere silente del Giordano..."
Egli dicea, e a le femminee chiome
Le parabole sue scendeano piano,
Piano gli olivi n'effondeano il Nome...

Recava a l'alba un sogno dolce e stanco
Ne le pupille, ed esalava, a sera,
Ebro di pianto, dal suo volto bianco,
Tutta la santità della preghiera:...
ecava a l'alba un sogno dolce e stanco.

(Da "La placida fonte", Zanichelli, Bologna 1907)




IL SERMONE
di Achille Leto

Saliva il Rabbi per le vie deserte
della montagna che fiorìa di grano:
sostò tra l'erba e, con le braccia aperte,
Egli versò tutto il suo cuore, piano.

Cadevan su le turbe umili e buone
le soavi parole; e, nel profondo
silenzio che seguì, parve il Sermone
illuminare - come un'alba - il mondo.

(Da "Le metope", Spinnato, Palermo 1907)




IL SANGUE CREBBE...
di Marino Marin

Il sangue crebbe ne la selva acerba
de le umane passioni il salutare
frutto d'amor che, lento a maturare,
a gli avvenir tutto il suo dolce serba:

frutto spiritual cui la mala erba
de l'odio anche non valse ad aduggiare:
tal che chi appressa il labbro ad assaggiare
nel verbo di Gesù Cristo s'inverba.

Poi che fu con la luce de la grande
anima sua che germogliar fe' il seme
che inaffiò poi con lagrime e con morte;

fu il corpo suo che in mistiche vivande
diede a le turbe; furon fede e speme
che al triste passo il fer sicuro e forte.

(Da "Sonetti secolari", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896)




DA "I PRATI DI GESÙ"
di Aldo Palazzeschi

È una perpetua continua processione
di centomila persone
ogni giorno, che a quel prato
s'aggiran torno torno
per ore e ore.
Centomila persone
che s'intrecciano, s'incontrano,
si guardano, s'inchinano,
senza far romore.
Il più assoluto silenzio
deve regnarvi attorno, giro giro,
si deve potere udire un respiro.
Nel mezzo del prato
c'è un uomo addormentato,
c'è sempre stato.
La gente è sempre stata
nella più grande ammirazione,
giro giro, tondo tondo,
da che mondo è mondo.
Tutti ammirano perplessi
quell'eterno placido sonno,
tutti colla massima devozione,
ogni giorno centomila persone.
L'uomo è là, nel mezzo al prato,
steso in terra addormentato,
sempre giovine uguale, sempre biondo,
sempre colla sua veste
bianca di candore.
Dorme colla più gran tranquillità
il più bel sonno del mondo, 
forse per l'eternità.
La gente giro giro
sta fissa ad ammirare
l'alzarsi e l'abbassarsi di quel petto,
sta in orecchi per udire
il placido respiro.

(Da "Poemi", Stab. Tip. Aldino, Firenze 1909)




SCONFORTO
di Giovanni Pascoli

Gesù: — Per le città, per le castella
andava lungo il limpido Giordano,
predicando la sua buona novella.

E cui sul capo Egli imponea la mano,
e cui diceva la sua parola vera,
cieco, ossesso, lebbroso, ecco era sano.

Ed il dolore al suo passar non era
più. Ma gran pianto era al suo lento arrivo!
Moveva a l'alba e si fermava a sera.

A sera stanco il figlio del Dio vivo,
come lavoratore, era, ma pago;
e s'assideva al tronco d'un olivo,

guardando al cielo. E subito il suo vago
occhio abbassava, ch'e' s'udiva intorno
come l'immenso mormorio d'un lago.

Ecco, e vedeva, al fine del suo giorno,
turbe infinite sotto il ciel vermiglio,
ch'attendean sua venuta o suo ritorno.

E giacevan nei solchi, sopra il ciglio
dei fossi, per le vie, pecore sparse
senza pastore. E tu gemevi, o figlio

di Dio: TROPPA È LA MESSE E L'OPRE SCARSE!

(Da "Poesie varie", Zanichelli, Bologna 1912)




CRISTO
di Federigo Tozzi

Con una veste rossa per dileggio
ti portano nel mezzo di una piazza.
E piove. Un uomo del bestial corteggio
batte su la tua carne pavonazza.

Ma, come se volesse farti peggio,
la turba ridacchiando ti sollazza
se alcuno dice: O Cristo, ti schiaffeggio!
E il tuo sangue lo bagna come guazza.

Anche tieni una canna con le mani,
non pensando ai fuggiti tuoi seguaci
e alla pioggia che t'entra nei capelli.

Oh, come ti si schiudono i lontani
cieli della bontà, mentre tu taci;
e quanto ti confortano più belli!

(Da "La zampogna verde", Puccini, Ancona 1911)




LA FIAMMA DE LE PALME
di Domenico Tumiati

L'opaco argento de li olivi pare
un antico turibolo d'altar:
io vo pel verde colle a salutare
Gesù, che biondo su le turbe appar.

Li anni miei, come quelli di Giovanni,
spuntano, verdi steli, ne la via:
come i tralci de l'uva, i miei verdi anni
aspettano l'avvento del Messia.

Fra i grigi olivi de la pia collina
io salgo. M'odi, William Hunt, fratello?
tu così andavi per la Palestina,
così santificando il tuo pennello.

(Da "Musica antica per chitarra", Landi, Firenze 1897)




GESÙ, SOLE CHE ILLUMINI
di Remigio Zena

Gesù, sole che illumini
Dell'universo i cardini,
Gesù, trono degli umili,
Gesù, palma dei martiri,

Corona delle vergini,
Stola dei catecumeni,
Imperator sui numeri
Degli stellati eserciti,

Per le lunghe vigilie
Del mio terrestre carcere,
Per le stille vermiglie
Che non cessai di spargere

Sotto la Croce, esanime
Prostesa nella cenere,
Non mai sazia di chiedere
Le penitenti lagrime,

Pei cilizi e gli aculei
Che il fianco mi trafissero,
E pei dardi fulgurei
Che nel tuo amor mi uccisero,

Gesù mio Re, mio Unico,
Le preci mie ti muovano.
Fra i santi che ti adorano,
Beata anch'io, ti supplico. 

(Da "Le pellegrine", Treves, Milano 1894)