domenica 26 novembre 2023

"Sparvieri" di Adelchi e Pier Angelo Baratono

 

Sparvieri è il titolo di una raccolta poetica pubblicata dall’editore Montorfano di Genova nel 1900, in cui si trovano versi scritti dai fratelli Adelchi (Firenze 1875 – Genova 1947) e Pier Angelo Baratono (Roma 1880 – Trento 1927). Entrambi, dopo questa prima esperienza in campo poetico, si dedicarono ad altro. Adelchi insegnò filosofia in varie università italiane, non disdegnando l’interesse - da studioso - per la psicologia e la pedagogia; inoltre fu, per qualche anno, anche deputato socialista. Pier Angelo invece, rimase letterato a tutto tondo, pubblicando soprattutto novelle e racconti. Sono rarissimi i versi dei due fratelli successivi a Sparvieri; alcuni di essi, si possono leggere sulle pagine della rivista La Riviera Ligure e, per quel che riguarda il solo Pier Angelo, su quelle di Poesia. Sono pochissimi anche i critici che si occuparono di questa raccolta uscita agli albori del XX secolo; fu il critico Glauco Viazzi (1920-1980) che, dopo ottant’anni di oblio, li volle recuperare ed antologizzare nei due tomi intitolati Dal simbolismo al déco (Einaudi, Torino 1981). I versi di entrambi i fratelli leggibili in Sparvieri, molto risentono del clima letterario che si avvertiva in Europa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; in particolare, tutti e due furono attratti dal decadentismo e dal simbolismo. Mentre Adelchi, per alcuni aspetti, si rivela da una parte un precursore del crepuscolarismo e dall’altra un seguace dei poeti “maledetti” francesi; il fratello Pier Angelo è più portato per l’estro fantasioso, ed alcune sue poesie, che sembrano dei racconti in versi, anticipano i temi che predilesse allorché abbandonò la poesia per dedicarsi alla prosa.

Il volumetto, di 70 pagine, si apre con una brevissima prosa poetica senza titolo e senza autore, che vede protagonisti proprio gli uccelli del titolo; segue una prima parte intitolata Poesie sparse e Gli Epigoni, in cui compaiono sette poesie e tre prose poetiche di Adelchi, divise nelle seguenti sezioni: Sentimentali, L’aurora che sveglia, Sui ritmi del cuore, Gli Epigoni. Seguono tredici liriche di Pier Angelo, anch’esse divise in sezioni e sottosezioni; la prima sezione s’intitola Novalba e racchiude le seguenti sottosezioni: Motivi dell’infanzia triste, Fiabe, Ombre di lanterna, Intime; la seconda ed ultima sezione s’intitola Congedo e contiene una sola poesia: Libecciata. Chiudo questo post trascrivendo due poesie (una di Adelchi e una di Pier Angelo) tratte dalla raccolta Sparvieri.

 

 


 

 

Da "L'AURORA CHE SVEGLIA"

 

I.

Un pianto d'acque, avanti giorno, insiste

e desta un trillo, due; più nulla. Pare

di sera. Pare, l'alba, ancor più triste

dopo una notte senza riposare.

 

O pianti soffocati! e in gola il sangue

aspro trabocca, e irrigidisce esangue

il volto, e l'occhio vaga dilatato.

 

Giunge l'aurora, e gridi gridi ai monti

ai mari ai fiumi col fiato fiammato

vanno squarciando i pallidi orizzonti.

 

Veggono la malata ed il malato

ai vetri lunghe scale di cristallo,

un lumeggiar cangiante, rosa, giallo.

 

Poi batte il sole sulla croce d'oro,

fa suonar le campane, filtra in chiesa,

bacia un languido volto, alluma il coro,

ride su l'orlo della lampa accesa.

 

(da “Sparvieri”, Montorfano, Genova 1900, p. 21)

 

 

 

 

I SETTE DORMIENTI

 

Sette barbe fluenti,

fiocchi di neve, sovra il petto incolti,

nei velluti biancheggiano e sui volti

di sette re dormienti.

 

Sette bocche contorte,

vuote son de' lor denti le mascelle,

come di frati abbandonate celle

riposan mute e smorte.

 

Sette cuori ghiacciati,

ove si stagna denso e nero il sangue;

nei petti antichi la memoria langue

degli affetti passati.

 

Sette nebbiose menti

non soffron più, nella continua pace

che sui paesi sonnolenti giace,

della vita i tormenti.

 

Ma un giorno quelle sette

teste invecchiate rivedran la luce,

e al mondo ansioso doneranno un duce

solo, profuso in sette.

 

(da “Sparvieri”, Montorfano, Genova 1900, pp. 39-40)     

 

 

 

domenica 19 novembre 2023

"Inviti superflui"

 

Inviti superflui è il titolo di uno dei Sessanta racconti scritti da Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno 1906 – Milano 1972) e pubblicati dalla Mondadori di Milano a partire dal 1958. Il racconto che segue questa breve dissertazione, proviene dall’edizione facente parte della collana “Oscar Moderni” del 2021; più precisamente è il racconto numero 17, e si trova alle pagine 162-165 di detto libro.

Personalmente considero Inviti superflui il più bello e intenso tra i Sessanta racconti di Buzzati; è anche il più distante dal contesto generale delle vicende qui narrate. In pratica, a me sembra una sorta di lettera immaginaria, mai spedita dall’autore, diretta ad una donna da lui fortemente amata. Tale donna si è allontanata definitivamente dallo scrittore, il quale però non ha affatto smesso si amarla, e forse inconsciamente spera ancora in un suo ritorno; da qui nascono una serie di desideri espressi in modo altamente poetico e fantasioso dall’innamorato, che sogna ad occhi aperti situazioni e presenze di varia natura, in grado di generare sensazioni possibili e impossibili che potrebbero provare i due, qualora la donna improvvisamente facesse ritorno, e volesse iniziare una relazione con lo scrittore. L’uomo immagina che i due innamorati siano sempre in compagnia, in luoghi e stagioni diversi, che lo scrittore conosce perfettamente e che adora; e la donna, in perfetta sintonia coi pensieri dell’amato, potrebbe adorarli con la stessa intensità, poiché le anime dei due diverrebbero una sola. Ma ogni situazione immaginata, dopo una travolgente estasi spirituale, si conclude con un avvilente ritorno alla realtà, caratterizzato dall’amara consapevolezza che tutte le ipotetiche storie paventate non sono altro che astrazioni; il motivo risiede nell’idealizzazione della persona amata dallo scrittore, che all’inizio la vede diversamente da come è; poi l’uomo smette di sognare, ma fino ad un certo punto; afferma infatti che si accontenterebbe soltanto di avere la donna accanto a sé, con tutte le differenze di carattere e di pensiero: la sua sola presenza basterebbe a farlo felice, e, forse, anche la stessa donna potrebbe esserlo, paga dell’amore che prova il suo compagno nei suoi confronti (e che lei, tra l’altro, non ricambierebbe). Infine, lo scrittore finalmente comprende che la donna da lui follemente amata se n’è andata per sempre, e neppure lontanamente pensa più a lui.

Una serie di intense sensazioni ed emozioni, si dipanano per tutto il racconto, partoriti e sorretti da una immaginazione particolarmente accentuata; a queste fanno regolarmente seguito cadute dolorose, che si collegano ad una finale visione realistica e consapevole precedentemente assente; sicuramente tali stati d’animo contrastanti, che iniziano con visioni fantastiche ed entusiasmanti, e terminano con ragionati e disillusi ritorni alla realtà, sono stati vissuti da chissà quante persone, che hanno idealizzato una figura femminile per cui provavano una straordinaria attrazione (e la stessa cosa sarà accaduta anche a sessi invertiti). Questo racconto altro non è che una poesia in prosa, in cui Buzzati, probabilmente, parla di un’esperienza personale, e lo fa in modo particolarmente coinvolgente. Concludo raccomandando fortemente a tutti questo libro, poiché insieme ad Inviti superflui, qui sono raccolti altri 59 racconti molto belli, da leggere e rileggere così come Il deserto dei Tartari: romanzo capolavoro di Buzzati che amo più di ogni altro. Ecco, infine, Inviti superflui.

 

 


 

 

INVITI SUPERFLUI

di Dino Buzzati

 

Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.

 Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro.

 Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

 Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

 Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.

 È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

 Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

 

(da "Sessanta racconti", Mondadori, Milano 2021, pp. 162-165)

 

 

domenica 12 novembre 2023

Gli orologi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Il primo orologio che mi fu regalato lo ricordo ancora benissimo: era un "Vetta" tutto in metallo, subacqueo, a carica manuale, con le lancette ed i numeri. Avevo compiuto appena dodici anni, e da quando lo misi al polso, quell'oggetto che era, fino a quel momento per me sconosciuto, divenne improvvisamente indispensabile. Da quel giorno non mi stancai mai e poi mai di guardare, ogni tanto o spesso, il mio orologio per sapere l'ora. Lo sostituii dopo molti anni, ma certamente fu quello che mi durò di più e che ancora conservo, sebbene ora non funzioni più. A pensarci bene oggi, quel piccolo oggetto che mi fu donato in quel preciso anno, rappresentò per me la fine di un periodo della vita totalmente spensierato quale è l'infanzia, e l'inizio di una fase più problematica: quella adolescenziale, che comportava anche delle prese di coscienza riguardanti determinati obblighi ed impegni personali, che da quel momento avrei dovuto adempiere da solo; se, in precedenza, non m'importava nulla di quale ora fosse, perché era compito dei miei parenti - e in particolare dei miei genitori - sapere l'orario in cui sarei dovuto andare a scuola o dal medico o chissà dove, da quella data ero diventato solamente io il responsabile delle mie incombenze, poiché avevo sempre con me l'indispensabile strumento che poteva dirmi quanto tempo avevo per recarmi in un luogo, per ritornare a casa, per dormire, per studiare o per divertirmi. Gli orologi, da allora, avrebbero scandito le ore, i giorni, gli anni... tutto il tempo della mia vita.


10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



VECCHIO OROLOGIO

di Adolfo Bianchi (?-?)


Triste occhio, per le vaste 

solitudini silvane 

sperduto e i romori 

lontani, 

che il vento folle a te poi riconduce; 

triste occhio dell’antica torre 

screpolata e vestita d'erbe gialle, 

ermo, dolente, immoto 

nelle notturne ombre e nei bagliori 

antelucani, 

nelle fiamme evanescenti 

dei crepuscoli ; 

a te né fosche nubi 

irte di pioggia e cieli 

tersi e tranquilli, né 

sole spargente nimbi d’oro e festa, 

né la triste sinfonia 

del vento turban l’opra taciturna. 

Triste, il tuo tristissimo 

metro di distruzione 

ripeti e gridi 

alla Terra, al Mare, al Sole. 

Ripeti che il gaudio passa e l’ebrezza 

e che la fine giunge  

inesorabilmente. 

E l'Ora breve precipita, 

mentre, dal tuo romitorio 

silenzioso, freddo 

ne segni il corso e n’odi 

l’ansimare sommesso, 

e il tuo cuore, in monotono 

martellio, rugge, rantola, 

si strugge, ed in rintocchi 

dolenti muta i suoi singhiozzi 

che turban la solitudine e il sonno 

e richiamano 

alla vita, al duolo e alla tristezza 

le genti stanche e le anime dubbiose. 

Io li odo, vecchio orologio, 

nelle veglie notturne 

i tuoi spasimi atroci, 

e par ch’ogni tuo grido 

sia un occhio fiammante, 

che gli spazi squarci 

e il cuor dell’Universo. 

Io li odo, vecchio orologio, 

anche tra il sonno breve 

e le bufere e il duro 

martirio della vita. 

Io li odo sempre e taccio, 

triste occhio dell’antica torre 

screpolata e vestita d’erbe gialle, 

ermo, dolente, immoto 

nelle notturne ombre e nei bagliori 

antelucani,  

nelle fiamme evanescenti 

dei crepuscoli...


(da "Preludi", Stab. Tip. del Lauro, Loreto Aprutino 1912, pp. 26-28)





L'OROLOGIO 

di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)


Compiango l'assurdo orologio

che lascia cadere e cadere

le inutili ore

su tumuli e croci

finché le ghirlande sprecate

lo avvertono con indulgenza

che palpita fuori del Tempo

la pallida vita dei Morti.

Disincantato, avvilito

e logoro dal vano sforzo

di risvegliare gli assenti,

esala un gemito e tace.

PACE.


(da "Il sole dorme", Rebellato, Cittadella Veneta 1962, p. 35)





L'OROLOGIO A MURO

di Paolo Buzzi (1874-1956)

                                                      21 luglio

Suonano l'ore, vibrando,

nella mia casa?

Quasi non m'avvedevo

neppur che battessero...

È notte. E odo

quel coprifuoco interno...

Musica di campana

degli echi domestici

a fiore di parete...

Pure, dà, ad ogni stanza, un'anima...

E aggiunge un palpito al mio solitario cuore...

Ma, come mai

solo ora, m'avvidi

di quella regola sonora che vien dalla muraglia?

Forse che l'uomo del faro e del càssero

avverte la canzone continua del mare?

Strano. Ma questo accade:

che talvolta, nel letargo dei sensi consumati,

squilli il capriccio fonico

d'una Sirena

che viene a galla indi si tuffa

come dei flutti sovra l'altalena.


(da "Il canto quotidiano", "La Prora", Milano 1933, p. 215)







SU UN OROLOGIO

di Giovanni Cena (1870-1917)


Un anno, un giorno, un'ora... Ed anco un anno,

un giorno, un'ora! Il tempo immobil dura.

La lancetta procede con sicura

costanza, senza sosta e senza inganno.


Con ugual legge per gli spazi vanno

gli astri e ciascuno ai prossimi è misura.

Docili intorno ad una Forza oscura

per tutto il tempo ancor graviteranno.


Ma della vita l'indice è la noia

lenta e fra lenti battiti l'ingoia

tosto l'ignoto che ci è tomba e culla.


Pur quando guida il dito dell'Amore

o del Dolore sul quadrante l'ore,

l'attimo è tutto ed una vita è nulla.


(da "Homo", Nuova Antologia, Roma 1907, p. 108)





L'OROLOGIO A PENDOLO

di Tullio Consalvatico (1901-1980)


Il colore del tempo è nelle pietre

calde di sole ed ha quasi un profumo

dorato di cotogne allineate

della zia, sull'antico canterano.

Dalla parete l'orologio batte

nel silenzio e dondola il suo piede

nell'infinito che gli cresce intorno.

Ogni colpo è una foglia luminosa

che si stacca dall'albero del giorno;

nel suo grembo l'abisso lo raccoglie.


(da "Trasparenze", Ceschina, Milano 1966, p. 97)





L'OROLOGIO DEL CORRIDOIO

di Donata Doni (pseud. di Santina Maccarrone, 1912-1972)


L'orologio del corridoio

della clinica

segna ore senza tempo,

senza memoria.

Ore lunghe

di giorni interminabili,

vuoti, inutili, angosciosi.

L'orologio del corridoio

ascolta passi irrequieti,

vede volti distrutti,

enumera attimi eterni.

L'orologio del corridoio

raccoglie segreti penosi,

ansie celate,

noie estenuanti,

dolori incompresi.

Forse soffre con noi

l'orologio del corridoio.


                            Roma 15 novembre 1971


(da "Il fiore della gaggìa", Edizioni di Storia e di Letteratura, Roma 1973, p. 101)





OROLOGIO

di Farfa (pseud. di Vittorio Osvaldo Tommasini, 1879-1964)


neonato di dodici ore

abbracci il tempo con le tue lancette

camminando in tasca


(da FARFA poeta record nazionale futurista", Sabelli, Savona 1970, p. 77) 





L'OROLOGIO DEL CUORE

di Gino Gori (1876-1952)


Lette sul bianco e nero

quadrante

degli orologi precisi, meccanici

e freddi,

le ore son tutte uguali,

son tutte grige e insensibili.

Lette nei cieli e nei mari,

nelle avventure solari,

negli occhi di donna e nei fiori

han l'ore diversi colori,

e sfumature e motivi

incancellabili e vivi

nel nostro cuore

per sempre.


Un'ora di rose,

un'ora di nuvole,

un'altra di baci e di lacrime...

E ancora: dall'ora materna

all'ora piena d'attesa,

dall'ora sospesa nell'ombra

come una lampada accesa

all'ora che indugia nell'aria,

rondine solitaria

che non vorrebbe emigrare.


Non le sentiamo suonare

queste ore, né camminare

inesorabili e vane

fra i segni delle meridiane,

ma uscire dalle fontane

come zampilli di vita,

cadere dai firmamenti

come angeli azzurri,

fiorire su bocche di donna,

dentro occhi di bimbi

e prolungarsi nel tempo

per abbracciare una gioia,

per contenere un dolore.


La storia del nostro cuore,

la parte migliore

del nostro destino

è scritta e fissata

sul grande orologio di foglie

di stelle, di gocce, d'incontri

e d'abbandoni e di schianti.

Passa sui luminosi quadranti

della natura

e va dall'ora della bambola

all'ora del primo amore,

dall'ora di tutte le lacrime

all'ora di tutti gli orgogli,

dall'ora veloce del tempo

fiorito

all'ora colore di buio

del riposo infinito.


(da "Il Grande Amore", Bemporad, Firenze 1926, pp. 6-8)





L'OROLOGIO

di Giovanni Lattanzi (1895-?)


Vegli con me: vegli, s’io dormo. Forse

pur quando il freddo m'avrà fatto i polsi

di pietra, tu, per qualche tempo ancora,

seguiterai la tua corsa e vedrai

smascherate le sfingi. Ora il mio cuore

soffre: non soffri tu. Batti: non altro.

Ma la tua voce (oh! la tua voce) è il grande

abisso. Ov'io nell'ansia a quell'abisso

mi affacci, una profonda eco di passi

odo in cadenza, e i secoli in viaggio

dall'eterno all'eterno. Sugli oscuri

eserciti che marciano, bandiere

lacere e scialbe ondeggiano a un ritroso

vento senza mai pace, e sui cavalli

squallidi i capitani alzano indarno

pallide fronti estenuate. In fondo,

sull'orizzonte d'un deserto giallo,

nereggia un'ombra oblunga di corrose

piramidi: sul fondo opposto è un cielo

che inghiotte entro il magnetico silenzio

d'esili stelle i popoli in cammino.


(da «La Donna Italiana», luglio-agosto 1931)





L'OROLOGIO

di Aldo Palazzeschi (pseud. di Aldo Giurlani, 1885-1974)


A una parete della mia stanza da letto

è appeso un orologio vecchio,

uno di quelli della vecchia usanza

colle catene e il peso.

Un tempo lo caricai

tanto per far qualcosa,

non sapendo precisare

se più m'irritasse fermo

o più il suo maledetto andare.

Da tanto e tanto tempo

l'orologio non va più.

Io lo guardavo sempre con ghigno,

tramandogli una fine,

una molto triste fine

a quel ciarliero maligno.


Uomini,

voi tutti portate addosso un orologio,

ma non potete sapere

quanto lui di voi sa,

tutto egli segnerà,

e non ve lo dirà

mai.

Io lo guardavo pensando:

orologio, tutto tu sai di me,

dimmi l'ora ch'io morirò.

Le due?

Le cinque?

Le tre?

Le tre e un minuto, e due minuti?

Dio!

Mi sentivo morire tutti i minuti.

Sopra il vile orologio

le mie ire infuriai,

quanto mi capitò fra le mani gli tirai:

sozzure, sputi, insulti, scarpe, calamai.

Ed egli si fermò.

Si fermò sulle sei.

Mi parve sul momento

d'esserne liberato,

che non battesse più,

che si fosse fermato.

Ma il dì seguente,

giunta quell'ora,

io lo guardai,

e da quella immobilità feroce

compresi che quella

doveva essere l'ora,

inesorabilmente.

Tutti i giorni io doveva

a quell'ora morire?

Quell'ora del tramonto,

o dell'Ave Maria,

prima della notte

o ultima del giorno,

le sei,

ora terribile di tutti gl'incubi miei.

Quell'ora serale

era divenuta giustamente

la mia ora sepolcrale.


Nella disperazione

corsi sull'orologio... e lo sventrai.

Tutto gettai, vetro, lancette,

il suo tagliente meccanismo infernale,

tutto dispersi.

E non si vede ora

che una mostra bucata,

e un pezzo di catena

rimasta ciondoloni

con una ruota attaccata.

Brandelli di quel sozzo ventre

che sbudellai.


Uomini,

che da voi non sapeste nascere,

da voi non saprete neppure morire:

ma vi tenete caro nel seno,

vicino al cuore,

un ordigno che sa la vostra ora,

e non ve la dirà,

tutti i giorni ve la batte sul petto

e non ve n'accorgete.

Io benedico a chi sa l'ora di morire,

e m'inginocchio ai piedi del suicida.

E penso: che aspetto?

Aspetto che ad uno ad uno cadano

tutti i miei bei capelli,

i miei bei denti?

Aspetto che una piaga gialla

sbuchi da qualche parte

ad insozzare la mia pelle bianca,

e l'invada, la ricuopra?

Oh! Com'è bello

morire con un fiore rosso in fronte

La rosa più vermiglia

che si sfoglia... che si sfoglia...

a lato della fronte bianca.

O dalla torre più alta

darsi alla voluttà del vuoto,

dello spazio!

Che sul mondo rimanga

una macchia vermiglia solamente.


E tu che sai quell'ora,

scritta è già sulla tua fronte,

tu,

mantenendo il tuo trotto,

tranquillo la segnerai

e passerai.

Ed io non potrò dire:

era quella,

quella che mi fece tremare ogni dì,

quella che passò inosservata,

quella alla quale non pensai.

No! Io mi faccio una torre sopra il monte,

la più alta del mondo,

su tutti i tuoi minuti

tutti i suoi mattoni,

e vi salgo all'ora mia,

quella scelta da me.

Mi fermo per sentire bene

il battito di tutti gli orologi del mondo,

cuori inutili e vili,

e ti grido:

«orologio, guarda, mi getto!»

E faccio l'atto.

«Ah! Ho sentito uno scatto!

sei stato tu,

tu che hai segnata l'ora già,

hai creduto che fosse quella!

Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!

No, non era quella,

è quella che so io,

sono io che comando,

sono io che darò l'ora a te. Ora!»

Trovar nella mia gola,

far salire dal mio ventre

le più folli, le più oscene risate,

i lazzi più sconci,

i gridi di scherno più acuti,

e farti aspettare

altri cinque minuti.


(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 278-284)






domenica 5 novembre 2023

Riviste: "La Lettura"

 

La Lettura è il titolo di una prestigiosa rivista letteraria, nata nel 1901 come supplemento mensile in omaggio agli abbonati del quotidiano Il Corriere della Sera. Inizialmente diretta da Giuseppe Giacosa, la Lettura ebbe, tra i suoi collaboratori, personaggi famosi del mondo della letteratura italiana, come Antonio Fogazzaro, Edmondo De Amicis, Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Guido Gozzano. La poesia trovò quasi sempre spazio nelle pagine di questa rivista, e vi pubblicarono versi alcuni tra i poeti italiani più illustri del Novecento. La Lettura ebbe un discreto successo di pubblico che si prolungò costantemente, visto che il suo ultimo numero fu stampato nel 1952, dopo oltre mezzo secolo dalla sua nascita. Chiudo riportando tre poesie da me particolarmente gradite, che furono pubblicate per la prima volta nella rivista milanese.

 

 


 

 

IL RICHIAMO

di Guido Gozzano

 

I.

«Una cocotte!» - Che vuol dire, mammina?»

«Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!»

 

II

Ho rivisto il giardino, il giardinetto

contiguo, le palme del viale,

la cancellata rozza dalla quale

mi protese la mano ed il confetto...

 

III.

- «Piccolino, che fai solo soletto?»

- «Sto giocando al Diluvio Universale».

 

Accennai la secchietta, le bizzarre

cose che modellavo nella sabbia,

ed ella si chinò, come chi abbia

fretta d'un bacio e fretta di ritrarre

la bocca, e mi baciò di tra le sbarre

come si bacia un uccellino in gabbia.

 

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto

di quel suo volto tra le sbarre quadre!

La nuca mi serrò, con mani ladre;

ed io stupivo di vedermi accanto

al viso quella bocca tanto, tanto

diversa dalla bocca di mia Madre!

 

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?

Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»

«Sì... Vedi la mia mamma e il mio Papà?»

Subito mi lasciò, con negli sguardi

un vano sogno (ricordai più tardi)

un vano sogno di maternità.

 

«Una cocotte!...» - «Che vuol dire, mammina?»

«Vuol dire una cattiva signorina:

non bisogna parlare alla vicina!»

Co-co-tte... La strana voce parigina

dava alla mia fantasia bambina

un senso buffo d'ovo e di gallina...

 

Pensavo deità favoleggiate:

i naviganti e l'Isole Felici...

Co-co-tte... le fate intese a malefici

con cibi e con bevande affatturate...

Fate saranno, Chi sa quali fate,

e in chi sa quali tenebrosi offici...

 

Un giorno – giorni dopo – mi chiamò

tra le sbarre fiorite di verbene:

- «O piccolino! Non mi vuoi più bene!»

- «È vero che tu sei una cocotte?»

Perdutamente rise... E mi baciò

con le pupille di tristezza piene.

 

IV.

Tra le gioie defunte e i disinganni,

dopo vent'anni, oggi, si ravviva

il tuo sorriso... Dove sei, cattiva

signorina? Sei viva? Come inganni

(meglio per te non essere più viva!)

la discesa terribile degli anni?

 

Oimè! Da che non giova il tuo belletto

e il cosmetico già fa mala prova

l'ultimo amante disertò l'alcova...

Uno, sol uno: il piccolo folletto

che donasti d'un bacio e d'un confetto

dopo vent'anni, oggi, ti ritrova

in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!

Da quel mattino dell'infanzia pura

forse ho amata te sola, o creatura,

forse ho amata te sola! E ti richiamo!

Se leggi questi versi di richiamo

ritorna a chi t'aspetta, o creatura!

 

Vieni. Che importa se non sei più quella

che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,

o vestita di tempo! Oggi ho bisogno

del tuo passato! Ti rifarò bella

come Carlotta, come Graziella,

come tutte le donne del mio sogno!

 

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,

di rimpianto. Non amo che le rose

che non colsi. Non amo che le cose

che potevano essere e non sono

state... Vedo la casa, ecco le rose

del bel giardino di vent'anni or sono!

 

Oltre le sbarre il tuo giardino intatto

fra gli eucalipti liguri si spazia.

Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.

Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;

ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,

sulla tua bocca l'ultima tua grazia.

 

Vieni! Sarà come se a me, per mano,

tu riportassi me stesso d'allora.

Il bimbo parlerà con la signora.

Risorgeremo dal tempo lontano.

Vieni! Sarà come se a te, per mano,

io riportassi te, giovine ancora!

 

(da «La Lettura», giugno 1909)

 

 

 

 

RINUNZIA

di Angiolo Silvio Novaro

 

Entrai dove l'anima mia

Allo specchio facevasi bella

Per piacermi, e le dissi: Sorella

Le tue gioie ove sono?

I zaffiri e le turchesi

Che raccogli nei paesi

Del sogno?

Le perle degli amori

Che leghi in rotondi monili

E ridi mente le infili

E di sùbita luce le irrori?

Gli argenti e gli ori

Di allegrezze che tu senti

Maturare in felici silenzi?

I pizzi e gli arazzi de' rari

Lussuosi vagabondari

Ove ti avvolgi molle e restia?

Per abbellire gli altari

Bisogna che in dono li dia!

  Con meditata dolcezza

Di frasi,

Con l'accorata forza che spezza

I tenaci egoismi, con quasi

Un riso negli occhi

Parlai all'anima mia

E intento rimasi.

  Ella tremava nei giunti ginocchi.

Tra pallori d'agonia

Si storcea l'aride mani

Singhiozzava: - Domani!... Domani!... -

E alfine alzò il viso rasciutto

E disse: Va', pigliati tutto,

E ciò che dev'essere sia!

  In cima agli altari io deposi

Il fascio dei beni preziosi

E sperso fuggii sulla strada

Reciso dall'anima mia

Recando nei morsi del vento

L'orrore d'un cieco sgomento -

Ed ora non so dove io vada...

  Ma ciò che dev'essere sia!

 

(da «La Lettura», maggio 1916)

 

 

 

 

VISITAZIONE

di Diego Valeri

 

Come il dì si ritrasse, perduto

nel più alto del cielo,

l'ombra invase col suo soffio muto

la conca del lago, verde, di gelo.

 

Nero il monte, tutto serrato

nella prigione della sua mole.

Non c'era che un cespo rosato

d'oleandri a ricordare il sole.

 

Allora stette d'improvviso

davanti a me l'angelo triste,

pallido, in veste bruna d'oliva,

gli occhi colore delle ametiste.

 

Dalla nuvola chiusa dell'ale

traspariva la luce bianca

delle braccia, disciolte in grave

abbandono, come cosa stanca.

 

- Angelo — pregavo — guardami in cuore

coi tuoi occhi d'innocenza:

sento che l'anima mi muore

se anche tu mi neghi la salvezza.

 

Lascia ch'io ponga nelle tue mani

tutto quello che ho sofferto:

le paure, i sogni vani,

la mia sete di cielo aperto.

 

Angelo, tu puoi forse ancora

trarre da tanto stolto male

qualche piccola cosa buona

da portar sotto le tue ale... -

 

Mi fissava; ma come assorto

in pensiero di lontananza,

come dicesse: tu sei morto,

per i morti non c'è speranza.

 

Poi sparì. La notte spense

anche quel riso di fiori, quel gelo

dell'acqua; confuse le immense

solitudini del monte e del cielo.

 

Tutto era fermo, opaco, muto,

nella notte senza stelle serena.

Io smaniavo, dentro me caduto,

come nella terra una cieca vena.

 

(da «La Lettura», giugno 1931)