venerdì 29 giugno 2012

Da "Le memorie di Barry Lyndon" di William M. Thackeray

Non tenevo mai dei miserabili libri di conti, a quei tempi. Non avevo debiti. Pagavo come un re tutto quello che prendevo; e prendevo tutto quello che volevo. Le mie entrate dovevano essere molto larghe. I miei passatempi ed i miei equipaggi erano quelli di un gentiluomo di posizione elevata: che nessun briccone si permetta di sogghignare perché rapii e sposai Milady Lyndon (come sentirete subito), e di chiamarmi avventuriero, o di dire che io ero uno spiantato e che quel matrimonio fu tra persone di condizioni molto diverse. Spiantato! Io avevo tutta la ricchezza d'Europa ai miei ordini. Avventuriero! Altrettanto può esserlo un abile avvocato o un prode soldato: come è un avventuriero qualsiasi uomo che fa da sé la sua fortuna.

(Da "Le memorie di Barry Lyndon" di William M. Thackeray, Rizzoli, Milano 2008, p. 214)


 

Poeti dimenticati: Domenico Tumiati

Domenico Tumiati (Ferrara 1874- Bordighera 1943) fu un drammaturgo e un poeta che godette di una certa fama tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Figlio di un famoso avvocato, primo di quattro fratelli, visse sempre nell'agiatezza. Lasciata la sua città natale, rimase per tutta la vita a Firenze insieme alla moglie Margherita Roi (che era la nipote di Antonio Fogazzaro) appartandosi e risultando sempre estraneo ai circoli letterari della sua epoca. Collaborò, coi suoi scritti, a varie riviste letterarie tra cui "Il Marzocco", "La Lettura" e "Poesia". Pubblicò, rimanendo in stretto ambito poetico, delle raccolte che molto risentono del clima tardo-romantico e simbolista.
 

 
Opere poetiche

"Iris Florentina", Tip. Landi, Firenze 1895.
"Musica antica per chitarra", Tip. Landi, Firenze 1897.
"La badia di Pomposa", Zanichelli, Bologna 1900.
"Emigranti", Zanichelli, Bologna 1900.
"Poemi lirici", Zanichelli, Bologna 1902.
"Musiche perdute", Zanichelli, Bologna 1923.
"I cantari", Zanichelli, Bologna 1927.
"Liriche (Le ballate, I melologhi, Le odi, I cori)", Treves, Milano 1937.
 

 
Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 392-398).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VII, pp. 164-178).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. I, pp. 191; vol. II, pp. 255-257).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo I, pp. 81-87).
 
 

Testi

AL SILENZIO

Sul tuo deserto altare, Silenzio divino, le rose
T'offro da i cespi di rugiada roridi,

Ove la terra in lieve tessuto di linfe compose
Oro, alabastro e la marina porpora.

Non disdegnare, o Nume che adoro, l'effimero dono,
Ché il lor profumo senza suono effondesi;

Tacite meraviglie, le guance rosate elle sono
Che su dal buio de le tombe tornano.

Chiedon elle che tu benigno al mio prego acconsenta:
Fa' che sul volto de l'antico etere

E su i prati del mare, non l'ala del tempo, ma senta
Scorrere il primo onnipossente spirito.

(Da "Liriche")

mercoledì 27 giugno 2012

Il bianco nella poesia italiana decadente e simbolista

Il colore bianco in genere è simbolo d'innocenza, di castità, di sacralità e semplicità. Se si tratta di un vestito il bianco indica purezza (la veste della sposa) oppure potrebbe riferirsi a un trionfo dello spirito sulla carne o ancora a una vita senza peccati. Allo stesso tipo di simbologia si ricollega la presenza di fiori bianchi, che siano rose, gigli o altri ancora; ciò spesso può valere anche per gli animali (in particolare per gli uccelli).
 


Poesie sull'argomento
Alfredo Baccelli: "Ora bianca" in "Poesie" (1929).
Giovanni Alfredo Cesareo: "O bianco viso!" in "Poesie" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "Un sogno" in "Poema paradisiaco" (1893).
Luisa Giaconi: "Candori" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Bianca passeggiatrice" in "Primavere del Desiderio e dell'Oblìo" (1903).
Alessandro Giribaldi: "Il geranio bianco" e "L'ombra bianca" in "Il 1° libro dei trittici" (1897).
Corrado Govoni: "I gatti bianchi" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Pallida" e "Il bianco" in "Gli aborti" (1907).
Gian Pietro Lucini: "Chorus mysticus" in "La solita canzone del Melibeo" (1910).
Mario Mariani: "Biancori" in "Antelucano" (1905).
Pietro Mastri: "Il velo e la corona" in "L'arcobaleno" (1900).
Nicola Moscardelli: "Che manca?" in "Abbeveratoio" (1915).
Pier Ludovico Occhini: "Incedi" in "Biscuits de Sèvres" (1897).
Aldo Palazzeschi: "Le fanciulle bianche" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Il Principe Bianco" in "Lanterna" (1907).
Aldo Palazzeschi: "Mar Bianco" e "La Principessa Bianca" in "Poemi" (1909).
Domenico Tumiati: "La bianca notte" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Annie Vivanti: "Viole bianche" in "Lirica" (1890).
Remigio Zena: "Domino bianco" in "Olympia" (1905).
 


Testi
DOMINO BIANCO
di Remigio Zena

«Vieni, sposa, dal Libano, festina
All'acque vive e fresche del Giordano:
Candida per battesimo cristiano,
Lascia la tua materna Palestina.

Come agnella che torni in disciplina,
Vieni al bianco Pastor del Vaticano,
E lo sposo, cattolico romano,
Ti sia maestro nella pia dottrina».

Così l'Antiste celebrante il rito
Battesimale e nuzial, tra i gigli
Delle vergini e il fumo degli incensi.

O tu qui genuflessa, a che tu pensi?
Al roseto di Gerico sfiorito?
Alle varie tue fedi in cui sbadigli?

(Da "Tutte le poesie")

lunedì 25 giugno 2012

Antologie: Poeti italiani del XX secolo

"Poeti italiani del XX secolo" è il titolo di un'antologia della poesia italiana novecentesca curata da Alberto Frattini e Pasquale Tuscano, uscita per La Scuola Editrice in Brescia nel 1974. Trattasi di un libro concepito per uso prettamente scolastico, ma che possiede caratteristiche e qualità tali da poter rientrare nel novero delle migliori antologie italiane sulla poesia del Novecento in assoluto. Qui compaiono per l'ultima volta (purtroppo) una serie di poeti che in seguito verranno inesorabilmente esclusi dalle antologie poetiche perché ritenuti tradizionalisti, ovvero troppo legati alla poesia del secolo precedente e poco o per nulla innovativi. Sto parlando di Angiolo Silvio Novaro, Giovanni Bertacchi, Francesco Gaeta, Pietro Mastri, Ada Negri e Giovanni Cena: poeti che, pur dimostrando di essere ancorati alla poesia del passato, scrissero delle bellissime poesie e che quindi ritengo sia ingiusto cancellare dalla memoria. Questa antologia li pone nella prima sezione, dedicata proprio ai poeti che rimasero con un piede nell'Ottocento, ma che seppero anche aprire la strada alla poesia più moderna e in particolare al crepuscolarismo.
A proposito di crepuscolarismo, è bello vederlo qui rappresentato in modo così ampio, sì da mettere in risalto l'importanza e l'enorme fascino che i poeti crepuscolari hanno avuto sia sui lettori sia sui poeti delle generazioni seguenti; oltre ai nomi altisonanti di Gozzano e Corazzini, sono presenti in questa antologia anche nomi troppo spesso esclusi come quelli di Giulio Gianelli, di Guelfo Civinini e di Tito Marrone, quest'ultimo poi, totalmente ignorato da tutti gli antologisti o quasi, va considerato come il primo, vero poeta crepuscolare. Per il resto si spuò dire che suscita qualche perplessità la sezione in cui si vedono accomunati futuristi e vociani, perché mi sembra evidente, tanto per fare un esempio, la netta differenza tra poeti come i futuristi Marinetti e Buzzi e i frammentisti Rebora e Jahier; certo è che altri scrittori, come Govoni e Palazzeschi, possono benissimo rientrare in un gruppo di tal guisa, ma così facendo essi vengono totalmente esclusi dai crepuscolari, pur avendo tutti i requisiti per starvi dentro. Anche la quinta sezione appare un po' troppo generalizzata, ma è pur vero che non è facile inserire in gruppi poeti come Saba, Cardarelli e Vigolo, i quali si tennero sempre lontani da scuole o movimenti di sorta; la loro opera poetica si fa notare, tra le altre cose, anche per l'indipendenza totale da qualsiasi moda o tendenza dei tempi. In complesso, come ho già accennato, questa antologia può essere considerata completa ed esaustiva, sia per quel che riguarda la selezione dei poeti presenti, che per la scelta dei testi riportati. Ecco infine, divisi in capitoli, i poeti presenti nell'antologia.
 
 
I. FRA I DUE SECOLI
Domenico Gnoli, Angiolo Silvio Novaro, Giovanni Bertacchi, Francesco Pastonchi, Francesco Gaeta, Carlo Michelstaedter, Pietro Mastri, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Luisa Giaconi, Ada Negri, Gian Pietro Lucini, Giovanni Cena.
 
 
II. CREPUSCOLARI
Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Marino Moretti, Fausto M. Martini, Guelfo Civinini, Carlo Chiaves, Carlo Vallini, Giulio Gianelli, Tito Marrone.
 
 
III. DAI FUTURISTI AI «VOCIANI»
Filippo Tommaso Marinetti, Paolo Buzzi, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Pietro Jahier, Enrico Pea.
 
 
IV. DALLA POESIA PURA ALL'ERMETISMO
Arturo Onofri, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Gerolamo Comi, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero, Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi.
 
 
V. LE VARIE STRADE DELLA POESIA ITALIANA TRA LE DUE GUERRE
Umberto Saba, Diego Valeri, Mario Novaro, Vincenzo Cardarelli, Sibilla Aleramo, Luigi Fallacara, Luigi Bartolini, Giorgio Vigolo, Adriano Grande, Carlo Betocchi, Angelo Barile, Sergio Solmi, Attilio Bertolucci, Raffaele Carrieri, Ugo Fasolo, Cesare Pavese, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Renzo Laurano, Vittorio Sereni.


giovedì 21 giugno 2012

Ricordo di Enrico Fracassi


Di Enrico Fracassi ci rimangono soltanto dodici poesie scritte nel 1924, pochi mesi prima di uccidersi. Questi pochi versi rimasero a lungo inediti, fino a quando, nel 1948 Enrico Falqui decise di pubblicarle in un volumetto edito dalla Scheiwiller di Milano. Poeta stimato da Ungaretti, incluso da critici autorevoli nelle migliori antologie poetiche del Novecento, Fracassi ancora oggi non è stato del tutto dimenticato, visto che di recente è stata ripubblicata la sua esigua opera poetica. Il perché è spiegato bene da Giacinto Spagnoletti in "Poesia italiana 1909 - 1949", nella prefazione alla scelta antologica di suoi versi:
«Le poesie di chi muore in giovane età - e nel caso di Fracassi, suicida - lasciano sempre alla parola del critico una misura di pietà, che talvolta supera o elude il giudizio stesso, quasi che questo non abbia alcun valore o solo un valore marginale. Si scopre nella poesia di chi è morto il senso della sua tragedia e la amara ricerca della morte; situazione che ha già in sé qualcosa di poetico, di fatale, che inesorabilmente, però, ci trascina altrove, fuori del giudizio critico. Le poesie di Fracassi, quelle poche che egli ci ha lasciato prima di morire, non temono, invece, il nostro giudizio: esse si sono collocate intrepidamente tra le tante immagini di disperazione che ci ha lasciato il Novecento, per una loro assolutezza, cui bisogna legare il nome e il segreto di un uomo eccezionale».
Le liriche di Fracassi nascono dalla sua lettura dei classici greci e latini, ma, come afferma lo stesso Spagnoletti, si percepisce anche una certa somiglianza con la poesia di Vincenzo Cardarelli e (aggiungo io) dei frammentisti della "Voce", come dimostra anche l'uso del verso in prosa. Oggi i versi di Fracassi sono entrati nella storia del Novecento poetico italiano insieme a quelli di Carlo Michelstaedter, di Cesare Pavese, di Antonia Pozzi, di Eros Alesi e di tanti altri poeti non conosciutissimi ma che certo avrebbero meritato di esserlo perché la loro poesia nacque esclusivamente da una necessità disperata di esternare i loro sentimenti e il loro profondo dolore.
 

 

Opere poetiche di Enrico Fracassi


"Congedo", Scheiwiller, Milano 1948.
"Passione e oblio", Il Labirinto, Roma 1998.
 

 

Presenze in antologie


"Antologia della poesia italiana (1909-1949)" a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda, Parma 1952 (pp. 201-205).
"Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana", a cura di Luciano Anceschi e di Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 (pp. 587-591).
"Poesia italiana contemporanea (1909-1959)" a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda, Parma 1964 (pp. 417-419).
 

 

Testi


Il veleno più sottile è questa bellezza diffusa.
Come uno scolaro in vacanza, aspiri voluttuosamente, gridi di piacere, ti getti supino sull'erba, faccia a faccia contro il cielo.
Quanto più limpida è l'aria, tanto più s'aduggia il mio spirito.
È la Natura un quadro senza figure, che noi non sapremmo animare.

(Da "Passione e oblio")


mercoledì 20 giugno 2012

Due romanzi ritrovati

Due romanzi ormai dimenticati: "Il maestro di Vigevano" di Lucio Mastronardi (1930-1979) e "La vita agra" di Luciano Bianciardi (1922-1971), insieme ai film ispirati a tali romanzi e che portano i medesimi titoli, sarebbero da recuperare al più presto. Il loro merito principale fu quello di individuare le occulte e diaboliche trappole che ormai da qualche anno erano state abilmente inserite dai capitalisti che allora detenevano il potere, nella vita e nel modo di pensare del popolo italiano durante il famoso periodo del "boom economico", ovvero all'inizio degli anni '60. Questi meccanismi che avrebbero portato a una serie di aberrazioni collettive come il consumismo sfrenato, l'invidia sociale, l'esibizionismo senza limiti, la corruzione dilagante e tanto altro ancora, oggi si sono moltiplicati, anche se una crisi economica senza precedenti sembra che stia mettendo in seria crisi un sistema che però, probabilmente, continuerà a dominare il mondo ancora per un bel po'.

 
LIBRI

Lucio Mastronardi, "Il maestro di Vigevano", Einaudi, Torino 1962.
Luciano Bianciardi, "La vita agra", Rizzoli, Milano 1962.
 

 
FILM

"Il maestro di Vigevano", di Elio Petri, con Alberto Sordi e Claire Bloom, Italia 1963.
"La vita agra", di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, Italia 1964.

domenica 17 giugno 2012

Roma d'estate

"Io ho sempre avuto una profonda compassione di tutta quella gente che dalla propria dignità e dalla consuetudine è costretta a star lontana da Roma nei mesi d’estate. E la mia compassione, in verità, è anche più profonda per tutta quella gente che, pur rimanendo a Roma, si vergogna di mostrarsi per le vie e passa le lunghe ore del giorno in un sopore affannoso, esalando l'intera angoscia in lamentazioni e querele, gonfiandosi di acque tinte, facendosi vento con un ventaglio giapponese o tergendosi il sudore dall'orribil fronte... Oh, povera gente, a cui sono ignoti e saranno forse ignoti per sempre gl’infiniti diletti che Roma, anche d’estate, può dare ai suoi fedeli!
Roma è sovranamente bella e grande e dilettevole in tutte le stagioni. Ma non la Roma invernale tutta color d'oro sotto il pallido cielo di gennaio, come una città dell'Estremo Oriente; né la Roma primaverile, tutta fiorita di rose e di viole come un verziere, ridente nell'azzurro con le sue fontane serene e con le sue chiese argentee; né la Roma d'autunno, immersa nella pura dolcezza della taciturna pace che le piovono i cieli sparsi di nuvole bianche, può venire al paragone con l'ignea Roma estiva che arde solitaria e grandiosa in mezzo alla sua campagna".

(Da: Gabriele D'Annunzio, "Roma fine Ottocento", a cura di Paola Sorge, Newton Compton, Roma 1995, p. 57)


venerdì 15 giugno 2012

Il viaggio definitivo

...E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.


(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960





È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».




martedì 12 giugno 2012

La poesia di Carlo Michelstaedter



Carlo Michelstaedter (Gorizia 1887 - ivi 1910) è stato un illustre filosofo e anche un ottimo poeta pur non avendo mai pubblicato volumi di versi nella sua breve vita. Le sue poche liriche uscite postume le scrisse per esigenza personale e senza l'intenzione di renderle note al pubblico; si pongono perciò come una sorta di diario intimo, privato, destinato forse ai soli amici più stretti e alle donne amate. Oggi i versi di Michelstaedter è possibile leggerli nel volume "Poesie" della Adelphi (è uscito per la prima volta nel 1987 ed è stato più volte ristampato). Sfogliando il libro citato si capisce che le poesie dello scrittore friulano hanno molta attinenza col suo pensiero filosofico e poca col clima letterario dei suoi tempi. I temi sono spesso riconducibili all'amore e alla morte: due ossessioni, si potrebbe dire, per Michelstaedter, e ciò appare più evidente leggendo la splendida poesia "Il canto delle crisalidi". Si nota poi un'attenzione particolare per gli eventi stagionali che fanno da spunto al poeta per esprimere più chiaramente i suoi stati d'animo e la sua energia interiore. Si trovano anche elementi che ricordano la malinconia e il pessimismo leopardiano, soprattutto quando Michelstaedter medita sul significato della vita. Ricorrenti sono le immagini dei paesaggi marini e del mare, che, come al solito, suggeriscono a Michelstaedter profonde riflessioni sull'esistenza e sul trapasso. Oggi, a più di cento anni dalla scomparsa del filosofo goriziano, è il caso di considerare Michelstaedter come uno dei migliori poeti del XX secolo, poiché i suoi versi posseggono una sincerità, una profondità di sentimenti e una maestria raramente riscontrabili in altri poeti del suo tempo, dai quali si allontana anche e soprattutto perché la sua poesia possiede il requisito essenziale dell'atemporalità, che la rende immortale e estranea a qualunque tipo di moda o tendenza.
 

 
Opere poetiche di Carlo Michelstaedter
"Scritti (volume I)", Formiggini, Roma 1912.
"Poesie", Adelphi, Milano 1987.
 
 
Presenze in antologie
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 286-287).
"Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana", a cura di Luciano Anceschi e di Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953 (pp. 101-106).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 519-522).
"Poeti italiani del XX secolo", a cura di Alberto Frattini e Paolo Tuscano, La Scuola, Brescia 1974 (pp. 106-116).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980 (vol. I, pp. 245-254).
"Poesia italiana del Novecento", a cura di Elio Pecora, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 99-104).
"Poesia del Novecento italiano. Dalle avanguardie storiche alla seconda guerra mondiale", a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002 (pp. 83-85).
 

 
Testi
IL CANTO DELLE CRISALIDI

Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.

Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.

E più forte
è il sogno della vita -
se la morte
a vivere ci aita

ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita

e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.

Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte

morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. -

(da "Poesie")


domenica 10 giugno 2012

Poeti dimenticati: Luigi Donati

Luigi Donati nacque a Lugo di Romagna nel 1870 e vi morì nel 1946. Giornalista, scrittore e bibliotecario, si interessò dell'opera poetica del suo corregionale Giacinto Ricci Signorini, curandone anche l'edizione postuma delle poesie e delle prose. Amico di Gian Pietro Lucini che scrisse una prefazione alla sua opera poetica più significativa: Le Ballate d'Amore e di Dolore (1897), fece parte di un cenacolo di poeti che per primi introdussero in Italia la poetica del simbolismo. I versi di Donati mostrano alcuni elementi neoromantici, pascoliani e decadenti.
 
 
Opere poetiche"Tentativi", Seraglio, Siracusa 1893.
"Le Ballate d'Amore e di Dolore", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1897.
"Poesia di Passione. La Grazia", Zanichelli, Bologna 1928.
 
 
Presenze in antologie"Il Verso Libero", Edizioni di "Poesia", Milano 1908 (pp. 630-632).

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (Vol. 1, pp. 86-90; vol. 2, pp. 108-109; vol 3, p. 95).
 
 
Testi
DOLOROSA

Come il vento fra i rami di cipresso,
Piange talvolta l'anima nel verso
Ch'io nell'enigma della vita immerso
Plasmo fra i dubbi da cui sono oppresso.

Piange, né ad essa valgono i conforti
Della fede i sorrisi del pensiero
Tuttora illuso da un gentil miraggio...
Ahi, voti onesti un dì ben saldi, or morti
E chiusi in qualche ignoto cimitero,
Unica meta al mio triste viaggio:
Voi siete i fior divelti in pieno maggio
Dall'anima che omai nega ogni cosa
E piange una ballata dolorosa,
Come il vento fra i rami di cipresso.

(Da "Poesia di Passione")

venerdì 8 giugno 2012

Il bambino (o fanciullo) nella poesia italiana decadente e simbolista

La simbologia del fanciullo è spesso collegata ad un concetto di purezza, d'ingenuità, di semplicità e di speranza; non mancano però altri tipi di simboli che fanno riferimento al bambino, il quale, in alcuni casi, viene identificato col mondo (in Onofri per esempio) oppure con "un mondo" ovvero con la realtà tutta personale e straordinaria che riesce a percepire soltanto il fanciullo, sorta di essere dai poteri sensoriali enormemente sviluppati e dotato di un'immaginazione fantastica che gli permette di cogliere e immagazzinare elementi sconosciuti dell'universo, inaccessibili agli adulti. Se però si parla di poesia crepuscolare, il bambino o, meglio, l'infanzia diviene il periodo maggiormente rimpianto del passato, perché privo di tristezza e colmo di spensieratezza.
 

 
Poesie sull'argomento

Paolo Buzzi: "I bimbi" in "Aeroplani" (1909).
Carlo Chiaves: "Inquietudine" in "Sogno e ironia" (1910).
Guelfo Civinini: "Il poeta fanciullo" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini: "Il fanciullo" in "Le aureole" (1905).
Federico De Maria: "Il bimbo" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Willy Dias: "La bambola e la bimba" in «Poesia», novembre 1908.
Giulio Gianelli: "La fiaba" in «Riviera Ligure», luglio 1911.
Enzo Marcellusi: "I fanciulli" in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Nicola Marchese: "Infanzia" in "Le Liriche" (1911).
Tito Marrone: "Un fanciullo" in "Liriche" (1904).
Giovanni Pascoli: "Il fanciullo" in "Pensieri e dicorsi" (1907).
Fausto Salvatori, "Il bel putto che stringe fra le bracia" in "In ombra d'amore" (1929).
G. A. Sanguineti: "Vertigine" in "La cicuta" (1911).
Francesco Scaglione: "I fanciulli vecchi" in "Le Litanie" (1911).
Emanuele Sella: "Il Sogno" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'amorino" e "La Bambina delle spine" in "Musica antica per chitarra" (1897).
 


Testi
 
IL FANCIULLO
di Giovanni Pascoli

Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
    che in terra si perde,
        ma nasce il bell'albero verde.

Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
    senz'altro rumore,
        che un battito, appena, del cuore.


Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
    che trema su l'acque,
        fa il sasso che in fondo vi giacque.

Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
    tra i salci del rio
        anch'io, nelle tenebre, anch'io.


Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
    voglio essere accanto
        di quella che piange a quel pianto.


Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
    che irraggi e conforti
        la veglia dei poveri morti.


Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
    nel cielo infinito;
        dar nuova dolcezza al vagito.


Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
    come una rugiada
        ch'esali dal sonno, e ricada


nella nostr'alba breve. Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
    s'annulla e sublima...
        lasciando più vita di prima.


(Da "Pensieri e discorsi")

giovedì 7 giugno 2012

Sotto i colpi

C'è gente che ci passa la vita
che smania di ferire:
dov'è il tallone gridano dov'è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.

Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l'istrice.



Questa poesia di Nelo Risi fa parte del volumetto "Pensieri elementari" (Mondadori, Milano 1961) ed è una delle più profonde e più belle liriche del poeta milanese. Il testo, nella sua prima parte, parla del gusto, si direbbe sadico, che prova molta gente nel colpire il suo prossimo per farlo soffrire nel modo più crudele possibile; cercano, per tale motivo, di individuare il "tallone d'Achille" sì da poterlo ferire mortalmente. Nella seconda parte Risi invita ad una riflessione riguardo alla fragilità che accomuna più o meno tutti gli esseri umani, malgrado alcuni di loro esibiscano certi comportamenti atti a nascondere, con una palese dimostrazione di forza e di invulnerabilità, la presenza più che mai marcata di debolezza, nascosta strenuamente ostentando una falsa personalità tutta piena di atteggiamenti aggressivi; esattamente come fa l'istrice che per non essere attaccato si chiude entro la sua pungente corazza.
 

mercoledì 6 giugno 2012

Antologie: "Dagli Scapigliati ai Crepuscolari"

"Dagli Scapigliati ai Crepuscolari" è un vero e proprio volume enciclopedico stampato nel 2000 a Roma dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Trattasi di un'antologia poetica realizzata dal critico letterario Gabriella Palli Baroni e dal poeta Attilio Bertolucci che fa parte della collana "Cento libri per Mille anni". Nelle 1082 pagine del volume sono presenti versi scelti di 29 poeti italiani attivi tra il 1861 e il 1924. Un sessantennio che, come fa intendere il titolo dell'opera, parte dalla nascita del movimento letterario definito "Scapigliatura" (nel 1861 uscì la prima raccolta poetica di Emilio Praga, poeta scapigliato per eccellenza), e giunge fino al completo esaurimento della cosiddetta poesia crepuscolare. Se si vanno a leggere i nomi di tutti i poeti compresi dai curatori, certo si noterà l'assenza della triade più importante della poesia italiana, per quel che riguarda il periodo compreso tra il secondo Ottocento e i primi dieci anni del Novecento: Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio; ma il motivo è spiegato dal fatto che, almeno ai primi due, è stato dedicato un volume autonomo all'interno della collana stessa. Altra cosa che salta all'occhio è la particolare attenzione riservata a due poeti: Guido Gozzano e Sergio Corazzini; i massimi esponenti della poesia crepuscolare sono infatti qui rappresentati da un largo numero di poesie, decisamente maggiore rispetto a tutti gli altri. Si nota poi con piacere la presenza, in quest'antologia, di poeti che in tempi recenti sono stati sempre ignorati: parlo di Luigi Gualdo, Luisa Giaconi, Ada Negri, Giovanni Cena, Pietro Mastri, Angiolo Silvio Novaro e Nicola Moscardelli. Se è vero che i versi di costoro non rappresentino un sostanziale rinnovamento della poesia italiana, è anche vero che la loro qualità, se non eccelsa, è sicuramente più che buona; per questo è ingiusto, a mio avviso, non considerarli affatto, sia che si parli di lirica del XIX secolo che di quella del Novecento. Riguardo alle esclusioni invece, qualche perplessità può nascere nel non trovare alcuni crepuscolari piuttosto importanti come Carlo Vallini e Giulio Gianelli, così come altri poeti vicini al crepuscolarismo (Guelfo Civinini e Francesco Gaeta per esempio); anche l'assenza di alcuni poeti minori del secondo Ottocento come Domenico Gnoli, Enrico Panzacchi e Adolfo De Bosis in parte dispiace. Non si può discutere sul fatto che, comunque la si pensi circa i nomi selezionati, questa antologia sia tra le migliori pubblicate nell'ultimo ventennio: sia considerando la struttura, sia la scelta delle poesie e sia anche l'aspetto. Un libro insomma molto elegante e raro, da leggere, rileggere e conservare con la massima cura. Ecco i nomi dei poeti presenti in "Dagli Scapigliati ai Crepuscolari".




 



Emilio Praga, Arrigo Boito, Igino Ugo Tarchetti, Giovanni Camerana, Vittorio Betteloni, Luigi Gualdo, Remigio Zena, Contessa Lara, Olindo Guerrini, Pompeo Bettini, Arturo Graf, Sergio Corazzini, Amalia Guglieminetti, Guido Gozzano, Carlo Chiaves, Fausto Maria Martini, Luisa Giaconi, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Ada Negri, Giovanni Cena, Pietro Mastri, Nicola Moscardelli, Angiolo Silvio Novaro, Mario Novaro, Diego Valeri, Nino Oxilia, Marino Moretti, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi.

domenica 3 giugno 2012

Da "L'idiota" di Fjodor Dostojevskij

Davanti a sé vedeva il cielo limpidamente azzurro, sotto di sé il lago, intorno l'orizzonte luminoso, senza principio né fine. Ed egli contemplava tutto ciò con l'anima torturata. Ora si ricordò come tendeva le braccia verso quell'azzurro risplendente e lontano e piangeva. Si sentiva estraneo a quella magnificenza, e ne soffriva. Che cos'era quel banchetto, quella continua festa immensa, che durava eternamente e alla quale si sentiva attratto da gran tempo, fin dalla prima infanzia, senza mai potervi prendere parte in alcun modo? Ogni mattina spunta lo stesso sole luminoso; ogni mattina, sulla cascata, s'incurva l'arcobaleno; ogni sera, laggiù, all'estremo limite del firmamento, si accende di una fiamma purpurea la cima del monte più alto, coperta di neve; ogni «piccolo moscerino che continua a ronzare intorno a lui in un raggio di sole partecipa a quel coro festoso, vi ha il proprio posto, lo ama ed è felice», ogni fuscello cresce ed ha la sua parte di felicità! Ogni essere, ogni cosa ha il suo sentiero ben tracciato, che percorre tra i canti; egli solo non sa nulla, non capisce nulla, è estraneo agli uomini, estraneo ai suoni, a tutto, è un rinnegato della natura.

(Da "L'Idiota" di Fjodor Dostojevskij, Mursia, Milano 1962, pp. 543-544)

"Onore del vero" di Mario Luzi

Nel 1957 Mario Luzi pubblica il suo sesto volume di poesie, intitolato "Onore del vero" (Neri Pozza, Venezia); si tratta dell'opera migliore di Luzi, ormai lontano dalla poetica dell'ermetismo di cui era stato tra i migliori esponenti nelle sue prime pubblicazioni come "Avvento notturno" (1940) e "Un brindisi" (1946). Superata la soglia dei quarant'anni, il poeta toscano inserisce nei suoi versi molte note esistenziali, fa un bilancio (spesso amaro) della propria esistenza, descrive i paesaggi dei posti dove vive o dove si reca, che divengono simbolo dei suoi stati d'animo e della sua vita; a tal riguardo è molto bello un articolo di Pier Paolo Pasolini incluso in "Passione e ideologia" (Garzanti, milano 1973) in cui lo scrittore friulano elenca una serie di poesie del volume citato, sottolineando le caratteristiche del paesaggio che ne emerge: « [...] Insomma nella terra in cui vive Luzi, piove sempre o quasi, o soffia il vento, o gela. Se c'è il sole, è un sole insano, che dà malessere; se c'è sereno, è quel sereno allucianato e faticoso che tormenta il corpo del malato, del convalescente, dello psicastenico... A questa «scelta» del paesaggio nel paesaggio reale, corrisponde un'analoga «scelta», diciamo, sociologica. [...] Abbiamo tuguri in periferie fluviali, baraccamenti, campi di profughi, osterie tristi come antri, ecc. I personaggi che popolano questi posti sono, più che dei poveri, dei miserabili, degli zingari, molto vivaci e coloriti nella loro stravaganza sociale, benché atrocemente grigi ». Quindi, oltre ai paesaggi, anche i personaggi di queste poesie riflettono gli umori cupi di Luzi; non è assente poi una religiosità quasi celata, che un altro poeta, Giovanni Raboni, ha posto in evidenza in quest'altro articolo: « Nelle Primizie del deserto e, ancora di più nell'Onore del vero, il dibattito religioso che rappresenta la continuità della poesia di Luzi ci appare ormai indissolubilmente connesso a un paesaggio, a una cronaca essenziale perfettamente identificabile nel suo nucleo di persone, abitudini, mestieri. Queste relazioni non soltanto rendono comunicabili gli estremi della vicenda interiore, ma la proiettano, duplicandone il significato, sull'area di una precisa condizione storica ». Nelle 31 poesie di "Onore del vero" risiede il momento di massima maturità poetica di Luzi, l'apice di una nuova fase già iniziata con l'opera precedente: "Primizie del deserto" (1952) e che si sarebbe conclusa con quella successiva (cronologicamente parlando): "Sul fondo delle campagne" (1965). Ecco quindi, dal suddetto volume, una tra le migliori poesie.
 

NOTIZIE A GIUSEPPINA DOPO TANTI ANNI

Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane ?

Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.

Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna è varia,
grandina, spiove, qualche cane latra,
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
 

sabato 2 giugno 2012

Poeti dimenticati: Raffaele Salustri

Raffaele Salustri
Raffaele Salustri nacque a Roma nel 1843; nella città eterna visse facendo l'impiegato e morì nel 1892. In gioventù conobbe e apprezzò i poeti della Scuola romana, soprattutto i fratelli Maccari da cui assimilò la rara semplicità spirituale. Successivamente approfondì gli studi della letteratura europea e diventò fervente seguace di Victor Hugo. Le sue poesie riflettono un'anima intenta ad osservare con meraviglia le cose del mondo; un'anima pregna di spiritualità e conscia della propria, profonda solitudine.

 


Opere poetiche

"Versi", Pallotta, Roma 1866.
"Solitudini", Tipografia del Senato, Roma 1878.
"Solitudini e visioni", Forzani e C., Roma 1886.
"Myosotis", Tip. Fratelli Centenari, Roma 1888.
"Poesie", Artero, Roma 1891.
"Poesie e prose scelte edite e inedite", Forzani e C., Roma 1905.
 


Presenze in antologie

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume terzo, pp. 319-322).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 701-707).

 


Testi

La luna alta e serena
Tutta inradia l'amena
Fonte, e dà svariate
Bianchezze a le cascate,
Agl'intrecci, a le fughe,
A le placide rughe
Del bacin, da cui gronda,
Lento diluvio, l'onda,
Al fluttuar solenne
E di veli e di penne
E di frangie, che il vento
Scioglie in nebbia d'argento.
Ma i multiformi albori
Vince co' suoi candori
Lo zampillo, simile
A stelo alto e gentile,
Onde piovon croscianti
Fiori di diamanti.
Da l'acqua armoniosa
Un sospir senza posa
Esce; talor soave,
E talor triste e grave.

(Da "Poesie e prose scelte edite e inedite")


Pini

All'estremo orizzonte, i grandi pini
se n'andavano curvi, in lunga traccia,
a uno a uno come pellegrini;
e ciascuno recava per bisaccia,
alto sopra la livida brughiera,
una nuvola d'oro della sera.

(Da "Ariele" di Diego Valeri, Mondadori, Verona 1924, p. 15)


Spesso i migliori esiti della poesia di Diego Valeri si ritrovano in pochi versi che contengono immagini nate da una ineguagliabile e inaspettata fantasia. È il caso di "Pini", una poesia semplice in cui gli alberi vengono sottoposti ad una personificazione, divenendo così, nell'immaginario di chi li vede come non li vedono gli altri, dei pellegrini curvi che camminano in fila indiana lungo una brughiera e si portano sulle spalle delle bisacce, che in realtà sono nuvole, presenti e osservate da Valeri al di sopra degli alberi stessi: all'ultimo orizzonte.

venerdì 1 giugno 2012

Una frase di George Orwell

"La pubblicità è il rumore di un bastone in un secchio di rifiuti".


Questo pensiero di George Orwell non avrebbe bisogno di commenti tanto è eloquente; quante volte si è detto: "La pubblicità è l'anima del commercio", sarà anche così ma la sua invadenza penso abbia superato ogni limite. Ammesso che sia giusta la sua presenza non si capisce il motivo per cui debba essere inserita scriteriatamente in trasmissioni della TV, film, quotidiani, riviste e altro ancora. Ricordo la presa di posizione di alcuni grandi registi del nostro cinema quando, anni fa, gli spot pubblicitari venivano inseriti in modo massiccio all'interno di capolavori durante la loro mesa in onda: semplicemente scandaloso. E ricordo ancora di più i giornalini dei miei fumetti preferiti che comperavo da ragazzo, gradualmente essere letteralmente invasi dalle inserzioni pubblicitarie, tanto che alla fine trovavo più pagine commerciali che strisce di fumetti: vergognoso. Anche nello sport la pubblicità ha lentamente invaso il palcoscenico, basti pensare che una volta (e lo ricordo anch'io) era vietato qualsiasi tipo di pubblicità sulle casacche dei calciatori. Insomma con la scusa che la pubblicità produce ricchezza e migliora l'economia ce la propinano in gran quantità rendendocela nauseante.