lunedì 25 agosto 2014

Da "Memorie del tempo presente" di Riccardo Bacchelli

Dio non è nei pensieri eccezionali.
Bisognerebbe ritrovare l'esame, l'emendamento, i precetti.
Dio non è necessariamente sulla via di Damasco, non preferisce la chiamata e l'estasi.
Ma è sempre buona volontà premiata, chiede in ogni caso pazienza.
Bisognerebbe che costruissi il mondo rigorosamente in giudicato e giudicante.
Mi ricostruirei in corpo e in anima.
E la preghiera sarebbe restituita.
L'uomo vano si dimentica di pregare, l'uomo orgoglioso se ne vergogna.
Per recuperare la preghiera occorrono oggetti precisi e che stiano i più a cuore.
La salvezza d'un fratello in guerra, la guarigione da una malattia, il rimorso meglio determinabile in ore e minuti nell'occasione più irrimediabile.
Non ho più che una settimana disponibile.
E stasera ancora non so se domani mi sveglierò finalmente alla giornata, che voglio figurarmi promessa, di riassunto e di getto.
Mi sia concessa una giornata di lavoro.
. . .
Dio numera e si rammenta degli uomini nella discussione e nel transito terreno, la prudenza di Dio nell'attribuire e distribuire è nascosta, è Dio che sceglie.
Adesso ogni dono m'è stato sospeso, ogni indugio m'è inibito. A chi mi rivolgerò? Che risorse mi restano? Che farò?
Percosso di stupefazione, mastico amaro. E son contento di non poterne finalmente più.
Né il mio lavoro increscioso, né l'anima mia sbandata, piena di maligni piaceri contro gli altri e contro sé, costituirebbero decente offerta. Qualcosa, e sempre il più indispensabile, m'è mancato ad ogni incontro, e quanto a me la mia forza propria e nativa l'ho sviata. Ho offeso la grazia.
Ho giudicato troppo. Ora sono senza soccorso e senza speranza. E quando tentai un dialogo pronunciato, sillabare una domanda a Dio, che disdette! È successo di sera, quando l'uomo smette di vergognarsi per rispetto umano, e del male e del bene.

(Da "Memorie del tempo presente" di Riccardo Bacchelli, Rizzoli, Milano 1953, pp. 82-83)



Questi due frammenti di Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 – Monza 1985), si trovano nel volume Memorie del tempo presente, che, quando uscì, venne presentato come primo della serie destinata a raccogliere tutta l’opera letteraria dello scrittore emiliano. Tornando ai frammenti, entrambi si trovano nella sezione Memorie e riepilogo, e nella sottosezione Memorie. Per i temi e per il tipo di scrittura, molto assomigliano ai Poemi lirici, che in questo libro precedono le Memorie, e che furono pubblicati nel 1914. Anche il periodo temporale in cui le Memorie furono scritte, non è lontano rispetto a quello delle poesie presenti nei Poemi. Penso che Bacchelli, poeticamente parlando, non tornò mai più ai livelli ottimi delle sue prime pubblicazioni.


domenica 24 agosto 2014

Mattini

Dei mattini ricordo di più e più volentieri quelli liberi, ovvero quelli in cui non era obbligo andare a scuola o sul posto di lavoro. Naturalmente i più bei mattini sono stati quelli dell'infanzia, d'estate in special modo, quando la prima fase della giornata rappresentava il momento più entusiasmante. Ricordo anche i mattini invernali del periodo delle vacanze natalizie, allorché potevo godere della medesima libertà e spensieratezza, con, in aggiunta, la trepidazione provata per l'attesa di una festa che allora era di fondamentale importanza: il Natale. "Il mattino ha l'oro in bocca", recita un famoso proverbio... Ma, in verità, per me i mattini di oggi non solo non posseggono nulla di prezioso, ma trascorrono vuoti e noiosi.



SPUNTA IL MATTINO E L'ALBA È SCOLORATA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)

Spunta il mattino e l’alba è scolorata,
Sul salice novello
Il passero dall’ale
Si scote indolenzito la brinata,
Tace la valle e tacciono gli steli,
Fischiano i venti e le recenti gemme
Stillan di pioggia al ritornar de’ geli:
E intanto nel cespuglio e nel roveto
Un mesto fior si schiude,
Si schiude una viola.
La viola bruna - il fior di sepolcreto.
Oh che sì mesta fossi
Nel libro di lassù scritto non era,
Oh mattin di natura, o primavera!

Del quinto lustro appena
Dolorando così volo su l’ale,
E una cura profonda,
E un avido desire
Smanioso della tomba il cor mi assale,
Delle deserte stanze
Apro le imposte e miro
La sofferente natura,
E nell’appeso speglio,
Le disfatte sembianze,
Che il gelo del dolor strusse repente.
Pur gioventù mi arride e in ciel non eri
Certo così segnata
Di precoce vecchiezza,
O mattin della vita, o giovinezza!

Qual fato dunque, qual terribil fato
Ha le stabili leggi
Di natura mutato?
Stille di piaggia e gemme disseccate,
Poveri fior recisi,
Vergini volti e guancie giovinette
Di lacrime solcate...
Tale il mondo affatica e mi assecura
Di rapida rovina
Un’arcana sventura;
Né a te fu dato, a te, stagion novella,
D’intatti fiori ornarti;
Né a te di gioie assaporar l’ebbrezza,
O mattin della vita, o giovinezza!

(Da "Disjecta", 1879)





MATTUTINO
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Buon giorno, o splendido sole dorato
Che alla mia camera fai capolino:
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino!

Finché dagl'incubi vieni a destarmi
Che la fantastica notte m'adduce,
E posso immergermi, purificarmi
In questo tepido bagno di luce,

Finché tu sfolgori sul mar che invano
Sferzan le collere del maestrale,
Finché dell'ampio consorzio umano
Sei democratico re liberale,

Finché sì splendido, sole dorato,
Alla mia camera fai capolino,
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino.

(Da "Fantasie marine", 1881)





FIORI D'ARANCIO
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)

Era d'inverno un gelido mattino,
triste; pioveva, nol scorderò mai;
ed ella se ne stava a capo chino,
io fra i capelli i fiori le appuntai.
Poi surse; e mi baciò tutta radiosa,
bella, gentile, nel suo vel di sposa.
Fuori piovea, ma nelle luci care
di mia sorella il sol vidi brillare.

(Da "Pètali e lagrime", 1894)





SVEGLIANDOMI IL MATTINO, A VOLTE IO PROVO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

Svegliandomi il mattino, a volte io provo
sì acuta ripugnanza a ritornare
in vita, che di cuore farei patto
in quell'istante stesso di morire.

Il risveglio m'è allora un altro nascere:
ché la mente lavata dall'oblio
e ritornata vergine nel sonno
s'affaccia all'esistenza curiosa.
Ma tosto a lei l'esperienza emerge,
come terra scemando la marea.
E così chiara allora le si scopre
l'irragionevolezza della vita,
che si rifiuta a vivere, vorrebbe
ributtarsi nel limbo dal quale esce.

Io sono in quel momento come 
chi si risvegli sull'orlo d'un burrone,
e con le mani disperatamente
d'arretrare si forzi ma non possa.

Come il burrone m'empie di terrore
la disperata luce del mattino.

(Da "Pianissimo", 1914)





MATTINA
di Ardengo Soffici (1879-1964)

La luce non è che un mazzolino di fiori più sottili;
Un ronzìo di mosche d’oro e verdi il cielo.
Senza questo pardessus parigino si potrebbe ballare;
A tutti i piani c’è la musica come in paradiso.
Una signora vestita del tricolor dell’Italia nelle cromolitografie patriottiche
Evade verso l’oriente:
Jamais je ne voudrais être son chien!
Piuttosto piangere di tenerezza
Sul miracolo della gente che risuscita ogni giorno
In questo enigma universale, che piglia per un almanacco
E passa;
E passa con la tranquillità dei giovenchi,
Ah! noi moriremo per aver troppo adorato le cose da nulla.
L’aria d’anilina mi bagna come una camicia tuffata nel turchinetto.
Vedo tutto:
Il baccalà che esperimenta il Nirvana fiorito di pomodori nelle zangole azzurre;
L'ombre delle grondaie abbassate sugli occhi glauchi delle persiane;
Le ombre degli uomini che si sprofondano
Nella terra trasparente.
E a un tratto capisco questo assioma: Ogni nuova civiltà nasce dal riso dei bambini.
Il timpano del sole batte sullo specchio del parrucchiere
Per farmi sorridere;
Ma non si può che seguire in silenzio la freschezza delle ore.
(I miei capelli sono sinistri!)

(Da "Marsia e Apollo", 1938)





E ORA, IN QUESTE MATTINE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai più rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole...

(Da "Poesie", 1942)





MATTINO D'ESTATE
di Diego Valeri (1887-1976)

Una immensa distesa
di vigne, ondata solo
da emergenti alberelli qua e là.
E, qua e là, la macchia rosso bruna
d’un tetto, accanto a quella
biondiccia d’un pagliaio.
Poi, lontano, una lunga fila d’esili
pioppi frondosi
contro il turchino pallido
delle dolci colline. Il cielo è un bianco
fulgore, appena appena
annebbiato d’azzurro;
il silenzio è spaccato dagli scoppi,
poi solcato dai lunghi rombi tremuli
di due campane gravi.

Io da questo balcone alto contemplo
lento passare il mattino d'estate
sul piano aperto e per il vano cielo;
e da tutte le cose a me venire
mi par non so che pianto,
non so che nuovo senso del morire.

Sento, come non mai,
che si stempra nel nulla la mia vita,
a giorno a giorno, inesorabilmente;
sento che tu mi manchi
ad ogni istante un poco,
o giovinezza, e che sarai domani
un pugnetto di cenere
dentro il mio cuore fioco.

Sento che allora la tristezza mia
sarà fatta più triste
dal ricordo di te, come più muto
fatto è questo silenzio dalla scia
lunga, di suono, delle due campane
che non cantano più.

(Da "Poesie vecchie e nuove", 1952)





MATTINO D’AUTUNNO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Un pallido sole che scotta 
Come se avesse la febbre 
E fa sternutire quando 
La gioia d’esser giovani 
E di passeggiare di mattina 
Per i viali quasi deserti 
È al colmo, illumina l’erba 
Bagnata e la facciata rosa 
Di un palazzo. Tutto è gioviale 
Buongiorno e sereno, raffreddore 
E mezza stagione. E Goethe 
In mezzo alla piazza sorride.

(Da "Sirio", 1929)





I MATTINI PASSANO CHIARI
di Cesare Pavese (1908-1950)

I mattini passano chiari 
e deserti. Così i tuoi occhi 
s'aprivano un tempo. Il mattino 
trascorreva lento, era un gorgo 
d'immobile luce. Taceva. 
Tu viva tacevi; le cose 
vivevano sotto i tuoi occhi 
(non pena non febbre non ombra) 
come un mare al mattino, chiaro. 

Dove sei tu, luce, è il mattino. 
Tu eri la vita e le cose. 
In te desti respiravamo 
sotto il cielo che ancora è in noi. 
Non pena non febbre allora, 
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce, 
chiarezza lontana, respiro 
affannoso, rivolgi gli occhi 
immobili e chiari su noi. 
È buio il mattino che passa 
senza la luce dei tuoi occhi.

(Da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", 1951)





MATTINO A ONEGLIA
di Cesare Vivaldi (1925-1999)

Stamattina a buonora mi risvegliano
le grida dei ragazzi entusiasmati
dai tuffi lungo il molo. Tutta Oneglia
sventola una marina di bucati

stesa avanti ai miei piedi, ed è ben sveglia
nel sole ogni finestra, insaponati
visi specchia; qualcuno unge una teglia
e vi dispone pesci infarinati.

Felicità d’esser vivi, e allegri
nel vento cogliere tutti gli odori
della città e del porto, la frittura,

il catrame che bolle. L’occhio ai negri
scafi dei lontanissimi vapori
si fissa. Come una nuova avventura.

(Da "Il cuore d'una volta", 1956)





LE SEI DEL MATTINO
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un'aria e popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l'uno dopo l'altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.

(Da "Gli strumenti umani", 1965)

sabato 16 agosto 2014

Albe

L'alba oggi non mi suscita più alcuna emozione. Ma mi ricordo le albe vissute nel periodo dell'infanzia, soprattutto nei rari momenti, in estate, in cui già ero sveglio quando il sole si stava per affacciare nel cielo, e guardavo attraverso gli spiragli della finestra chiusa la prima luce apparire e divenire, a mano a mano, più intensa. Ero emozionato, meravigliato, trepidante in attesa di un nuovo, magnifico giorno che mi avrebbe proposto una moltitudine di cose esaltanti. Ma ricordo anche le albe dei giorni destinati alle partenze per la villeggiatura: la scoperta della città deserta e buia, i treni, le stazioni... e dentro di me un entusiasmo enorme, per un'avventura che mi immaginavo fantastica ma che spesso (troppo spesso) non si sarebbe rivelata tale.
Oggi, dicevo, l'alba non ha più un significato per me, e non rappresenta nulla, se non l'inizio di un nuovo, vuoto, squallido giorno.



ALBA FESTIVA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?

È un inno senza fine,
or d’oro, ora d’argento,
nell’ombre mattutine.

Con un dondolìo lento
implori, o voce d’oro,
nel cielo sonnolento.

Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla,
voce argentina — Adoro,

adoro — Dilla, dilla,
la nota d’oro — L’onda
pende dal ciel, tranquilla.

Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:

la voce della tomba.

(Da "Myricae", 1900)




ALL'ALBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.

Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo rattratto
come ugnello di gàzzera marina.

La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.

Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.

Livido si fuggì pel folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.

Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.

(Da "Alcyone", 1904)




L'ALBA
di Luisa Giaconi (1870-1908)

S'apre una pagina d'ambra
nel cielo, all'orlo del monte;
fioca sul nero orizzonte
l'ultima stella sparì.

E già per l'erto pineto
brucando il gregge si sperde,
piccoli punti fra il verde,
fiocchi di bianco qua e là...

Fremiti di foglie e d'acque
par che si sveglino a pena,
via via la luce s'insena
lenta nel bosco la giù.

L'ombra riprese i fantasmi
e riaccostò le sue porte;
di là, il silenzio, la morte,
il giorno dolce di qua;

il giorno, ch'è fra due notti,
come la vita nel nulla
che nel mistero ci culla;
un sogno anch'esso e non più.

(Da "Tebaide", 1912)




SU L'ALBA
di Alessandro Giribaldi (1874-1928)

Stanotte – su l'alba – dormivo
una fiorita di sogni...
Un sonno leggero; e sentivo
battere su la finestra.

Chi batte? Chi batte? Sei tu?
Sei tu, mia pensosa?
Sei tu (le tue dita di rosa?)
che vieni a trovarmi quassù?

Discesi - con gli occhi nel sogno –
dal letto, cercando su i vetri
l'amore... e il tuo volto.
Non c'eri. Mi posi in ascolto.

Ancora? Chi batte? Non c'eri...
Ma c'era un verdone, sperduto
anch'esso nell'ombra. – Che cerchi?
Rispose: ti porto un saluto.

Ti porto un sospiro, da lungi,
ti porto una lacrima, un bacio.
La vidi: guardava sul mare...
diceva: non giungi, non giungi?

(Da "I canti del prigioniero e altre liriche", 1940)




IMPRESSIONE DI SONNO
di Arturo Onofri (1885-1928)

Bere il tuo riposo fiorito, quando l'alba insinua per le imposte chiuse i suoi sottili coltelli di luce, assorbire il molle respiro della tua carne di rosa, il profumo degli abbandoni goduti, che all'angolo delle tue palpebre, come due petali stanchi, s'inumidiscono ancora della rugiada del sonno, esalato sulle tue ciglia dalla ninnananna del mare.

(Da "Orchestrine", 1917)




IO UN'ALBA GUARDAI IN CIELO
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Io un'alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.

Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d'ombra eternamente muta.

Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d'occidente
e io seguìa un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.

E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angioli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.

In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.

E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.

(Da "Realtà vince il sogno", 1932)




LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)

All'alba entrai 
in un piccolo cimitero. 
Fu in un paese lontano 
ai piedi di una torre grigia 
senza più voce alcuna 
di campane – 
mentre ancora le nebbia 
inargentava 
le querce oscure, 
le siepi alte, 
l'erica 
viola – 

Nel piccolo cimitero 
le pietre 
volte all'Oriente 
come in un riso 
bianco 
parevano visi di ciechi 
che allineati marciassero 
incontro al sole. 

(Da "Parole", 1964)




ERANO GIORNI DIVINI
di Libero De Libero (1906-1981)

Con l'alba giungevi e me vecchio
d'attesa in giovane amore mutavi,
tanto orgoglio era d'intorno
quasi l'ombra d'un albero grande.
Erano giorni divini, e noi anche
divini per dolce consenso
dei prati davamo ragione
di canto alla gente. Ma il tempo
geloso di noi rapida sabbia
versò nel deserto crescente.

(Da "Romanzo", 1965)




COME È FORTE IL RUMORE DELL'ALBA
di Sandro Penna (1906-1977)

Come è forte il rumore dell'alba! 
Fatto di cose più che di persone. 
Lo precede talvolta un fischio breve, 
una voce che lieta sfida il giorno. 
Ma poi nella città tutto è sommerso. 
E la mia stella è quella stella scialba 
mia lenta morte senza disperazione. 

(Da "Poesie", 1957)




L'ALBA AI VETRI
di Giorgio Bassani (1916-2000)

L'alba ai vetri, e la musica d'un piffero e un tamburo
udivo, là, la sua opaca, un po' ebbra allegria.
Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia, 
tu che sopravvenivi, innocente futuro.

«Empio evo venuto che premi alle porte»
dicevo io, con lacrime più soavi che amare,
«dimentica il mio nome! Dicevo. E la tua, morte,
ebbra ancor m'assonnava melodia militare.

(Da "L'alba ai vetri", 1964)

sabato 9 agosto 2014

Antologie: "Poesia italiana del Novecento" (Krumm - Rossi)




"Poesia italiana del Novecento" è il titolo di un'antologia a cura di Ermanno Krumm e Tiziano Rossi, pubblicata dall'editore Skira in Milano nel 1995. È un'opera eccellente, che si avvale di una interessante prefazione del grande poeta italiano Mario Luzi, e, per ciò che riguarda ogni poeta antologizzato, di presentazioni molto appropriate, scritte, per la maggior parte, da poeti (tra i quali sono compresi i curatori del volume). I nomi selezionati sono tanti ma non tantissimi, in modo da poter affermare che, a parte alcuni poeti futuristi, non ci sono grandi esclusioni. C'è poi da sottolineare il fatto che la scelta dei poeti e delle raccolte si prolunga fino agli anni che segnano il limite del XX secolo, sì da dare un quadro completo della poesia italiana novecentesca. Viene così alla luce la netta differenza di valore tra i poeti della prima metà del secolo da poco terminato, e quelli della seconda parte: un cinquantennio quest'ultimo in cui hanno dominato nuove mode e nuovi sperimentalismi dietro ai quali spesso si nascondeva una scarsa vena poetica; a mio parere tale argomento andrebbe allargato anche ad altri settori artistici della storia del Novecento non soltanto italiano. In chiusura ecco, diviso per sezioni, l'elenco dei poeti che compaiono in "Poesia italiana del Novecento".



GLI INIZI

Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, Guido Gozzano, Arturo Onofri, Luciano Folgore, Clemente Rebora, Dino Campana, Virgilio Giotti, Camillo Sbarbaro, Ardengo Soffici, Piero Jahier, Giovanni Boine.




FRA LE DUE GUERRE

Umberto Saba, Diego Valeri, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Biagio Marin, Attilio Bertolucci, Salvatore Quasimodo, Delio Tessa, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Sergio Solmi, Libero De Libero, Giorgio Vigolo, Mario Luzi, Cesare Pavese, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari.



IL CUORE DEL SECOLO

Pier Paolo Pasolini, Giorgio Orelli, Franco Fortini, Tonino Guerra, Nelo Risi, Gaetano Arcangeli, Andrea Zanzotto, Luciano Erba, Bartolo Cattafi, Umberto Bellintani, Alda Merini, Giovanni Giudici, Elio Pagliarani, Paolo Volponi, Lucio Piccolo, Giacomo Noventa, Edoardo Sanguineti, Camillo Pennati, Giorgio Cesarano, Giancarlo Majorino, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Lorenzo Calogero, Fernando Bandini, Roberto Roversi, Amelia Rosselli, Daria Menicanti, Agostino Richelmy, Giovanni Testori, Adriano Spatola.



DAGLI ANNI '70 AD OGGI


Renzo Paris, Carolus L. Cergoly, Ottiero Ottieri, Giuliano Gramigna, Dario Bellezza, Franco Loi, Cesare Viviani, Valentino Zeichen, Patrizia Cavalli, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giampiero Neri, Tomaso Kemeny, Raffaello Baldini, Angelo Lumelli, Giuseppe Conte, Cesare Greppi, Valerio Magrelli, Vivian Lamarque, Iolanda Insana, Patrizia Valduga.  

domenica 3 agosto 2014

I poeti suicidi

La passione personale per la poesia italiana dell'Ottocento e del Novecento ha fatto sì che notassi, leggendo la biografia dei poeti compresi nei secoli citati, la cospicua presenza di suicidi. Ogniqualvolta venivo a conoscenza della morte per suicidio di un determinato poeta, nasceva in me la voglia di approfondire le informazioni sulla sua vita e aumentava l'interesse personale per i suoi versi. Tutto ciò per un motivo semplice: perchè era molto probabile che codesto poeta non fosse un mentore, non un falso, ma che le sue poesie nascessero da una esigenza interiore e quindi fossero, ancor che belle, sincere. Questo non vuol dire affatto, naturalmente, che i poeti non suicidi abbiano scritto dei versi insinceri, tutt'altro; ma è certamente innegabile che la poesia "vera" molte volte nasce da situazioni, pensieri e stati d'animo colmi di disperazione. Nel secolo XIX togliersi la vita spesso rappresentava un gesto estremo di protesta nei confronti della società, oppure, ultimo atto di un romanticismo esasperato, poteva scaturire dal folle amore per una donna o una ragazza che non aveva compreso o ricambiato il sentimento provato dal poeta. Ma già duecento anni fa, pare certo che esistesse il cosiddetto mal de vivre, cioè una sorta di depressione che porta una persona a vedere la vita come una cosa totalmente inutile, priva di qualsiasi significato e, di conseguenza, a preferire la morte. Nel Novecento si nota di più quest'ultima tendenza, soprattutto in anime particolarmente sensibili e indifese quali sono quelle di molti poeti, costretti a vivere in una società sempre più spietata e indifferente, incapace totalmente o quasi di apprezzare la poesia così come altre forme artistiche nate da una profonda spiritualità; una società dove si presta attenzione soltanto al denaro, al piacere fisico e alle cose superficiali: in sostanza una società pregna di capitalismo e, di conseguenza, materialista. Ecco quindi un folto gruppo di poeti suicidi che avevano un'idea diversa dell'esistenza rispetto alla stragrande maggioranza degli uomini, e per tal motivo, non potendo e non riuscendo a vivere, decisero di morire.



I POETI SUICIDI


GIULIO UBERTI. Nacque a Brescia nel 1806; dopo la laurea in legge iniziò a insegnare materie letterarie e musica fino a quando fu costretto all'esilio per aver partecipato ai moti del 1848. Tornato in Italia, si stabilì a Milano fino a settant'anni, quando, già anziano, decise di porre fine alla sua vita gettandosi da una finestra a causa di un amore calunniato.

GIOVANI CAMERANA. Nacque a Casale Monferrato nel 1845. Dopo gli studi fatti a Pavia fu per un periodo a Milano e qui entrò in contatto con alcuni scrittori della scapigliatura tra i quali Arrigo Boito e Emilio Praga. Si interessò di pittura, frequentando a Torino lo studio dell'artista Fontanesi, di cui in pratica divenne discepolo; anche in questo ambiente ebbe modo di stringere amicizie con alcuni pittori (Lorenzo Delleani) e alcuni scultori (Leonardo Bistolfi) i quali in seguito ispirarono i suoi versi migliori. Divenuto magistrato decide di astenersi, per rigore professionale, dal pubblicare le sue poesie. Scrisse versi praticamente per tutta la vita, cioè fino a quando, nel 1905, si uccise con un colpo di rivoltella.

GIULIO PINCHETTI. Nato a Como nel 1845, compì i suoi studi in un collegio comasco per poi trasferirsi a Pavia, dove si laureò in legge. Presto cominciò a provare profondo dolore morale sia per la perdita del padre (1864) che per quella della donna amata, conosciuta nel 1865 (tale Luisa) e morta dopo nemmeno un anno. Fece vari tentativi professionali ma poi si indirizzò verso l'attività giornalistica e iniziò a scrivere versi, pubblicando l'unico volume ufficiale nel 1868. Trasferitosi a Milano, dovette fronteggiare altri avvenimenti tragici quali la morte della madre e quella del suo caro amico Ariodante Botta. Ossessionato dall'idea del suicidio, provò a togliersi la vita ingerendo del veleno e gettandosi da un treno in corsa; fu però al terzo tentativo che perì, dopo essersi sparato due colpi di rivoltella a soli venticinque anni.

GIACINTO RICCI SIGNORINI. Nacque a Massalombarda nel 1861; dopo il Ginnasio frequentò la facoltà di Lettere dell'Università di Bologna dove ebbe come maestro Giosuè Carducci. Laureatosi iniziò l'attività d'insegnante di liceo; per lavoro si trasferì prima a Campobasso e quindi a Catanzaro. Ritornò nel 1887 nella sua regione di nascita, dove insegnò (a Cesena) presso il Liceo regio «Vincenzo Monti»; l'anno seguente pubblicò il suo primo volume di "Rime" e iniziò a collaborare al giornale "Il Cittadino". Sempre più tormentato dai lutti che lo colpirono e dalla netta sensazione di essere un fallito si uccise nella sua abitazione di Cesena a soli trentadue anni, poco dopo avere pubblicato la sua quarta raccolta poetica "Elegie di Romagna".

MARIO GIOBBE. Nacque a Napoli nel 1863; si distinse quale precoce talento laureandosi appena diciottenne in giurisprudenza, ma all'avvocatura preferì la professione giornalistica cominciando a collaborare, coi suoi particolarissimi articoli, a varie testate italiane, tra le quali si citano: «Il Piccolo» e «Il Corriere di Napoli». Ben presto maturò in lui l'interesse per la poesia che si tramutò in traduzioni ottime di opere di autori famosi e in versi suoi che raccolse in due volumi: "I primi versi" (1889) e "Gli amori" (1891) che mettono in rilievo la sua simpatia per la poesia di Olindo Guerrini e di Gabriele D'Annunzio. Dopo il matrimonio si manifestò in lui una crisi depressiva che cogli anni peggiorò, fino al suicidio avvenuto nell'ottobre del 1906.

MARIO MALFETTANI. Tra le poche cose che si conoscono di lui si sa che nacque a Genova nel 1875, che si laureò in legge e che in gioventù frequentò un cenacolo poetico creatosi nel capoluogo ligure di cui facevan parte anche Alessandro Giribaldi e Alessandro Varaldo, coi quali pubblicò un volume di versi: "Il 1° libro dei trittici" (1897); alcuni anni dopo uscì la sua ultima opera poetica: "Fiori vermigli" (1906). In seguito si allontanò decisamente dagli ambienti letterari abbracciando la politica socialista. Morì suicida nel 1911.

FRANCESCO GAETA (1879-1927). Visse sempre a Napoli dove, finito il liceo, frequentò l'Università ma non giunse mai alla laurea. Si impose come giornalista letterario collaborando a riviste quali «La Tribuna», «Il Gionale d'Italia» e «I Mattaccini», fondato quest'ultimo da lui e dal suo amico Alfredo Catapano; ebbe buona fama anche come poeta grazie agli apprezzamenti di Benedetto Croce che considerò i suoi versi come i migliori tra quelli in circolazione all'inizio del Novecento. La sua fine, avvenuta nel 1927, fu inaspettata: tornato dal cimitero dove aveva assistito alla sepoltura della madre, scrisse una lettera con le seguenti parole: «Mia dolce mamma, ti seguo» e quindi si uccise. La sua opera poetica fu pubblicata postuma dal grande critico letterario nonché suo estimatore Benedetto Croce.

ALFREDO CATAPANO (1881-1927). Napoletano, si laureò in Legge professando poi l'avvocatura. Cominciò a scrivere versi ancora giovanissimo e pubblicò alcune raccolte poetiche che furono considerate anche da insigni critici. Morì suicida poco tempo dopo il suo amico Francesco Gaeta. Di lui disse il critico Giuseppe Antonio Borgese: «Ci rimane nel ricordo, più che altro, come un'astratta immagine di gloria, che sì e no prende color di carne... Perciò il Catapano tacque quasi subito: poeta di limbo, che prima ancora di prender piede nella realtà scivolava verso l'assoluto».

CARLO MICHELSTAEDTER. Nacque a Gorizia nel 1887; mostrò precocemente il suo talento per alcune discipline quali il disegno e la musica. Frequentò per un periodo la facoltà di Matematica dell'Università di Vienna per poi trasferirsi a Firenze dove iniziò  e completò i suoi studi filosofici. Nel contempo, a partire dalla giovanissima età, si dedicò alla scrittura di versi che non pubblicò mai. A soli ventitre anni, dopo un diverbio con la madre, impugnò una pistola e si uccise. Le sue poesie, insieme ai suoi trattati filosofici, uscirono postume nel 1912.

CARLO STUPARICH. Fratello minore del celebre scrittore Giani, nato a Trieste nel 1894, dopo il Ginnasio frequentò la facoltà di Lettere all'Università di Firenze; qui venne in contatto con alcuni scrittori che collaborarono alla famosa rivista "La Voce". Irredentista, si arruolò all'inizio della prima Guerra Mondiale e partì per il fronte. Dopo un'azione, nel maggio del 1916, essendo rimasto solo ed avendo la certezza di cadere nelle mani del nemico austriaco, decise di uccidersi. Tre anni dopo la sua morte uscirono in un volume i suoi scritti che si compongono di poesie, prose e lettere in cui emerge il carattere romantico dello scrittore triestino.
 
AGOSTINO RICHELMY. Nacque a Torino nel 1900 da una famiglia celebre e benestante. Svolse l'attività di traduttore con ottimi risultati (di grande valore sono le sue traduzioni da Musset, Virgilio, Fedro e Voltaire). Coltivò simultaneamente una grande passione per la poesia scrivendo versi già in giovane età che cominciò a pubblicare molto in là cogli anni (la sua prima raccolta di versi è del 1965). Le sue poesie dimostrano una propensione per i classici italiani (Petrarca, Leopardi, Pascoli e Saba) e una particolare attenzione alle bellezze della natura. Tragica fu la sua scomparsa, avvenuta nella sua casa di Collegno nel 1991, qui fu infatti ritrovato già morto insieme alla moglie; entrambi si suicidarono ingerendo del veleno.

ENRICO FRACASSI. Nacque a Roma nel 1902 e morì suicida a soli ventidue anni a Marano de' Marsi. Poco prima di uccidersi mise in salvo alcuni versi e alcune brevi prose poetiche che furono pubblicate grazie al critico Enrico Falqui nel 1948. Leggendo le poesie di Fracassi si intuisce la sua simpatia per lo stile dei cosiddetti frammentisti della "Voce", e in particolare per Vincenzo Cardarelli.

CESARE PAVESE. Nacque a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, nel 1908 e visse quasi sempre a Torino. Giovanissimo cominciò a frequentare il gruppo di intellettuali piemontesi che si opponevano al regime fascista; per antifascismo subì il carcere e poi il confino. Collaborò a varie riviste con saggi, traduzioni e poesie; pubblicò romanzi, racconti e versi; tra questi ultimi risultano fondamentali nella storia della poesia italiana novecentesca: "Lavorare stanca" (1943) e "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (postuma, 1951). Leggendo le sue opere ci si accorge che Pavese ha avuto sempre in mente il suicidio, unica soluzione per risolvere quello stato di sofferenza permanente causatogli da un senso di esclusione totale dalla vita collettiva. La morte se la procurò in una stanza di un albergo romano ingerendo molte bustine di sonnifero. Non aveva compiuto quarantadue anni. 

AUGUSTO CARDILE. Nato a Taranto nel 1909, ben presto dovette affrontare con coraggio alcune situazioni drammatiche che coinvolsero la sua famiglia. Stabilitosi a Firenze, nel capoluogo toscano sembrò trovare una tranquillità che in vero durò poco, visto che nel 1937 decise di togliersi la vita. I suoi versi, mai pubblicati in volume, uscirono nella rivista "Letteratura" nel 1938, arricchiti da una struggente testimonianza del critico Oreste Macrì.  

ANTONIA POZZI. Nacque nel 1912 a Milano da famiglia benestante, nel capoluogo lombardo frequentò il liceo e poi l'università (facoltà di filologia) dove conobbe Vittorio Sereni e Luciano Anceschi. Nel frattempo andava coltivando la passione per la poesia riempiendo di versi quaderni su quaderni che non toccò più dopo la sera del 3 dicembre 1938, quando in preda ad una "disperazione mortale" (come scrisse in una lettera) si tolse la vita ingerendo dei barbiturici. Le sue poesie furono pubblicate postume a partire dal 1939.

PRIMO LEVI. Nacque a Torino nel 1919 da una famiglia di origini ebraiche, sempre a Torino studiò fino alla laurea in Chimica raggiunta nel 1941. Partigiano e antifascista fu catturato dai tedeschi e deportato ad Auschwitz; lì rimase dal febbraio del 1944 al gennaio del 1945. Tornato dal lager cominciò a scrivere romanzi che raccontassero la sua esperienza nel campo di concentramento; nel contempo scrisse anche delle poesie che pubblicò nel volume definitivo "Ad ora incerta" (1984). Primo Levi morì nell'aprile del 1987; il suo cadavere fu trovato alla base della tromba delle scale di casa sua. Ancora non si sa se la sua morte sia stata causata da una caduta accidentale o da suicidio.

GIORGIO CESARANO. Nacque nel 1928 a Milano da famiglia aristocratica. Aderì al fascismo e poi, dopo il 1945, al comunismo. Scrisse volumi di versi tra il 1959 ed il 1966 entrando in contatto con alcuni intellettuali milanesi tra i quali Franco Fortini. Lavorò come traduttore ed autore televisivo. Si uccise con un colpo di pistola al cuore a Milano nel 1975.

AMELIA ROSSELLI. Figlia di Carlo Rosselli, antifascista e teorico del socialismo liberale, nacque a Parigi nel 1930. Trasferitasi, a causa dell'assassinio del padre, in Svizzera e quindi negli Stati Uniti, studiò in modo irregolare. Lavorò inizialmente come traduttrice continuando a coltivare i suoi interessi per la musica, la letteratura e la filosofia. Conobbe quindi vari intellettuali che la spinsero a pubblicare i suoi versi su alcune riviste. Pubblicò la sua prima raccolta di versi ("Variazioni belliche") nel 1964 attirando l'attenzione di molti critici e poeti illustri. Insieme a ulteriori raccolte poetiche diede alle stampe anche racconti e saggi. La sua fine giunse in seguito ad un esaurimento nervoso causatogli dalla morte della madre e da malattie croniche mai accettate. Si suicidò nella sua abitazione romana l'11 febbraio del 1996.

EROS ALESI. Nato a Ciampino nel 1951, dopo varie vicende sfortunate e spiacevoli come la prematura morte del padre e la decisiva esperienza della droga che lo portò alla morte a soli venti anni. Pur scrivendo versi profondi, strazianti e, per certi versi scioccanti, non pubblicò mai libri. Fu inserito però da Giuseppe Pontiggia nel volume collettivo "L'Almanacco dello specchio" del 1973. Di lì a poco sarebbe stato inserito in varie antologie importanti sulla poesia italiana degli anni '70.

BEPPE SALVIA. Nacque a Potenza nel 1954. Appassionato della poesia, collaborò coi suoi versi a riviste tra le quali si ricordano "Nuovi Argomenti", "Prato pagano" e "Braci" (di quest'ultima fu il cofondatore). La sua morte arrivò improvvisa il 6 aprile del 1985, giorno in cui Salvia si gettò nel vuoto dalla finestra della sua casa romana lasciando stupefatti i suoi amici ed i suoi conoscenti. Le poesie di Salvia uscirono in volume postume; "Un solitario amore" è il titolo della raccolta che contiene gran parte della sua opera in versi.


REMO PAGNANELLI. Nacque a Macerata nel 1955. Studiò in modo regolare e si laureò in Lettere moderne nel 1978. Fu critico letterario e poeta pubblicando vari volumi di saggistica e di versi. Morì suicidandosi a soli 32 anni nella sua città natale. Tra le sue raccolte poetiche più significative si ricordano: "Dopo" (1982), "Musica da viaggio" (1984) e "Atelier d'inverno" (1985).