sabato 31 dicembre 2011

Fola

In una notte di luna nuova, sulla torre alta alta del castello antico, comparve una donna di nero vestita, il suo viso era orribile, bianco, di cera; qualcuno la vide e, terrorizzato, immediatamente urlò, ma la donna subitamente scomparve; l'unico testimone raccontò a tutti della sua spaventosa visione ma non fu creduto, così, dopo venti lunghi anni di pazzia, morì disperato. L'alba del giorno dopo c'era una nebbia fitta fitta. Improvvisamente, sulla torre del castello antico la bruma scomparve e la figura dal volto cereo riapparì; chi la vide non ne parlò con alcuno.



Fin da quando ero bambino mi hanno sempre affascinato i castelli e tutto ciò che orbitava in torno a queste fortezze medioevali, come i cavalieri, le loro armature, le loro sfide e, soprattutto, i fantasmi che di notte si aggiravano – secondo le molteplici leggende – all’interno delle stanze dei castelli. Proprio dalla lettura di alcuni di questi terribili e fantasiosi racconti, nacque la prosa poetica intitolata Fola. L’ho pensata in una sera estiva, guardando da fuori il Castello di Giulio II, che è poi il castello di Ostia Antica, ovvero del borgo dove ho sempre vissuto.


mercoledì 28 dicembre 2011

Quello di cui parlo

Quello di cui parlo è un mondo lontano lontano, difficile da raggiungere: laggiù ascolti le campane celesti e rimani estasiato; laggiù osservi la grigia pioggia con malinconia; laggiù senti nell'aria profumi dolcissimi, e respiri la luce; laggiù parli con i cari morti, quanti che non hai più visto!; laggiù ti accorgi di aver ritrovato qualcosa che avevi perduto per sempre, e mai pensavi che ciò accadesse; laggiù ti incammini in un sentiero erboso, vai e vai, poi ti fermi e ti siedi a parlare con gli amici cantori. Laggiù non ci sono mostri, non c'è il dolore né la guerra e nemmeno la morte.
Laggiù, in questo mondo così lontano...

martedì 27 dicembre 2011

Immagini

...Ecco ora io dico quello che sento e non è niente di vero, è il vento che muove le foglie degli alberi, la nuvola che passa, il buio della notte, un rumore indefinito. La mente vola tra i colori: rosso, bianco, viola, lilla, verde... La ragione non esiste più, ha perso, è una macchia in terra e il cavallo ha ali bianche, si dirige verso il sole che lo acceca, ma lui sa che non può tornare indietro.



Questa mia breve prosa poetica, altro non è che un meraviglioso sogno che, come tanti, non ha alcun senso, ma si compone di una serie di immagini diverse fra loro e a volte contraddittorie. Quando mi svegliai, ricordavo soltanto alcuni particolari del sogno meraviglioso che si interruppe improvvisamente, e volli scriverli subito su carta perché non svanissero più dalla mia mente.


lunedì 12 dicembre 2011

Meditazioni

1

Voi che siete già partiti
per un viaggio dal quale
nessuno è più tornato,
dove siete?
è possibile che in qualche modo
possiate essere ancora vivi?
che il vostro vivere
il vostro morire
abbiano un senso, un riscatto?
Il silenzio, solo il silenzio
domina la scena del mondo.
Non ci sono risposte
né mai ci saranno.
Il gorgo inghiottirà chiunque
e mai sapremo il motivo
del nostro esistere.
 
 
 
2

La luce scema lentamente,
presto è sera
e un altro giorno se n'è andato
per sempre;
né mai tornerà.
Il tempo passa quasi
impercettibilmente
e ciò che appariva come
un'eternità
si sgretola inesorabilmente:
diviene polvere.
 
 
 
3

Tornare sui banchi di scuola
a recitar preghiere che dicano:
«Padre nostro che sei nei cieli...»
Ritrovare le illusioni,
le speranze
e i sogni
di un'età lontana.
Ora che l'anima
appare disseccata
come una zolla
d'argilla.
 


4

Quando superi la boa
il confine il limite
della mezza età
ti accorgi che la vita
non ti offrirà più
di quello (poco o molto)
che ti ha già dato.
Eppure prosegui il cammino
con l'inconscia speranza
di trovare qualcosa
lungo il resto della strada:
un tesoro,
una chimera,
un'illusuione,
una passione,
un ideale,
qualcosa d'imprevisto
e di meraviglioso.
Ma dentro di te
già avverti una voce
che sembra dirti:
«Quel che doveva essere
è stato...
Ora è giunto il tuo autunno,
sei quasi vecchio,
rassegnati».

domenica 11 dicembre 2011

Sonetto grigio


Le nebbie de la nordica regione
incombono su 'l mare desolato:
geme il vento con funebre ululato,
silenzioso vola l'alcione.

Tristezza de l'umana passione
che, perenne, ci rode il cuor malato;
oh vanità del corpo inanimato
che mormora la pallida canzone!

Palpita ne li abissi il cuore. Al vento
la Nave erra in balia de la fortuna:
l'Anima parla de le cose morte.

E la grigia marea pare d'argento
su da la riva, al chiaro de la luna:
corre la Nave mia verso la Morte.
 
 




"Sonetto grigio" è la quindicesima poesia della sezione "Sonetti della rosa", ultima di "Cesellature", volume poetico d'esordio di Tito Marrone (1882-1967), poeta siciliano che ingiustamente è caduto nell'oblio e che va considerato come l'anticipatore per eccellenza del crepuscolarismo. Quest'ultima affermazione è comprovata anche dalla poesia sopra riportata, dove, un Marrone ancora diciassettenne, si dimostra già totalmente inserito nelle maggiori correnti poetiche europee dell'epoca (siamo nel 1899), ovvero il decadentismo e il simbolismo; oltre a ciò si possono già notare alcuni indizi della poesia crepuscolare a partire dal "grigio" del titolo, e poi in parole come "mare desolato", "cuor malato" e "cose morte". Ma nella stessa raccolta esistono altre poesie che dimostrano il crepuscolarismo ante litteram di Marrone, come ad esempio "Desolazione" e "Serenata nuziale", di quest'ultima ecco due emblematiche quartine: «Madonna, voi siete bianca / come la neve del monte, / io su la candida fronte / riposi la mano stanca, / / mormori le dolci cose / che Vi fanno beata: / ma la mia voce è malata / e son cadute le rose».

venerdì 9 dicembre 2011

Canzonetta nostalgica


Ho raccolto la pioggia nelle mani
per bere come al filtro dell'oblio:
pioggia di cieli immobili, lontani...
Ho ripensato il mio lontano addio,
ho ripensato e sono morto un po'...

Ho chiesto la tua casa a un poverello,
cui forse è meno pane ma più fede...
un ramingo m'ha schiuso il tuo cancello,
ho ripensato chi piange e nulla chiede,
ho ripensato e sono morto un po'...

Ho chiamato più volte alla tua porta,
se mai tu, forse, mi persuadessi;
ho ripensato una pupilla assorta,
ed un sorriso perch'io non piangessi...
Ho ripensato e sono morto un po'...

Ho raccolto le foglie presso d'ogni
casa, n'ho fatto un rogo sulla via,
tristemente, per l'ultimo dei sogni,
ho spento in cuore l'ultima agonia,
non ho chiamato alla tua porta più...

 




 
È questa una delle poesie comprese nella raccolta "Poesie provinciali", pubblicata nel 1910 da Fausto Maria Martini, e che, insieme ad altre due raccolte ("Sogno e ironia" di Carlo Chiaves e "Poesie scritte col lapis" di Marino Moretti) uscite nel medesimo anno, attirò l'attenzione del critico letterario Giuseppe Antonio Borgese; fu proprio quest'ultimo, in un famoso articolo scritto nel 1910, che coniò l'aggettivo "crepuscolare" riferendosi alle tre raccolte in questione, ma lo stesso allargò la cerchia dei poeti così definiti aggiungendo i nomi di Sergio Corazzini e di Guido Gozzano. Il Martini va inquadrato come uno dei membri più importanti di quel cenacolo romano che nacque e si sviluppò attorno alla carismatica figura di Sergio Corazzini. La poesia sopra riportata mostra tutta l'influenza che esercitò Corazzini nelle composizioni poetiche di Fausto Maria Martini, lo si nota soprattutto nell'ultimo verso della prima strofa, verso che si ripete anche nelle due successive strofe e che molto somiglia a quel "morire un poco ogni giorno" che è un pensiero ricorrente nei versi corazziniani. Ma oltre a Corazzini, Martini ebbe presenti anche altri poeti, a cominciare da Gabriele D'Annunzio (ma fondamentalmente quello del "Poeme paradisiaco") per proseguire con Enrico Panzacchi, arrivando fino a Francis Jammes, poeta tardo-romantico francese i cui influssi risultano chiari in molte poesie del Martini, tra le quali va inclusa anche questa "Canzonetta nostalgica". La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Gozzano e i crepuscolari", a cura di Cecilia Ghelli, Garzanti, Milano 1983.

giovedì 8 dicembre 2011

Le fanciulle bianche


La gente cammina pian piano
sull'erta che mena alla chiesa.
È un lungo viale fra grandi cipressi,
la chiesa è la cima del monte.
La gente cammina pian piano.
A mezzo dell'erta, a sinistra,
è il breve cancello che chiude un giardino.
Là dentro passeggiano al sole
le fanciulle bianche.
Passeggiano adagio pel grande giardino,
non hanno un sorriso.
La gente passando si ferma a guardare.

 





Questa breve poesia fa parte della prima raccolta di Aldo Palazzeschi: "I cavalli bianchi", uscita nel 1905 in Firenze a spese dell'autore. Presenta molte caratteristiche tipiche del primissimo fare poetico palazzeschiano, infatti, già nel verso iniziale si parla di una non ben definita "gente", di un viale, di cipressi, di un cancello e di un giardino: tutti elementi spesso ricorrenti in altre poesie della raccolta, che probabilmente rappresentano dei simboli arcani; le stesse fanciulle bianche, che la gente passando osserva attonita, nascondono un significato misterioso, indecifrabile (sono suore?, educande?). Oltre che nei contenuti, la grande novità dei versi di Aldo Palazzeschi va rintracciata anche nell'uso del verso libero, che nel 1905 era assolutamente inusuale; in questo contesto è bene ricordare che, tra i poeti crepuscolari, precedettero Palazzeschi soltanto Corrado Govoni e Sergio Corazzini. La foto che segue il testo poetico è tratta dal volume "I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi", Empirìa, Roma 1996.

mercoledì 7 dicembre 2011

Sommario



L'annata lava con la pioggia il suo cadavere.
Il tempo à un abito da povero.
L'anima mia è un orto senza chiave.
I miei pensieri sono come gigli in un ricovero.

De l'edifizio verde
de la speranza più non resta una pietra.
Lo scudo contro i colpi spietati del male perde
la tempera. La via dell'avvenire è tetra.

Oh come è triste questo sommario!
Ed è forse ancora lontano
l'invocato calvario.
E tutto sembra vano, e tutto è vano...

Il vento a le porte
urta insistentemente;
ed il mio cuore si sente
pieno di foglie morte.

 




 
Questi versi sono tratti dalla seconda opera poetica di Corrado Govoni (1884-1965), intitolata "Armonia in grigio et in silenzio" e pubblicata nel 1903 (nel medesimo anno, pochi mesi prima di questa, il poeta emiliano aveva dato alle stampe la sua opera in versi d'esordio: "Le fiale"). Questo libro è considerato come il primo esempio di poesia crepuscolare, ovvero una poesia dai toni dimessi, dalle sfumature malinconiche, tutta intenta alla descrizione ed alla elencazione delle "piccole cose" e dei "poveri sentimenti"; una poesia che si veniva a porre in deciso contrasto con quella dannunziana, lontana anni luce dalle tematiche dei crepuscolari. Govoni fu l'apripista di questa nuova poetica, ma i suoi versi non possono certo definirsi totalmente innovativi, in quanto Govoni nel comporre queste poesie tenne ben presente alcuni scrittori francesi e belgi che sono stati etichettati come tardo-simbolisti e corrispondo ai nomi di Jules Lafourge, Albert Samain, Maurice Maeterlinck e Georges Rodenbach, in particolare quest'ultimo fu fondamentale per Govoni, in quanto cantore del grigiore e della tristezza di alcune città del Belgio, come ad esempio Bruges (e Rodenbach è l'autore del romanzo "Bruges la morta", opera basilare per molti poeti crepuscolari che da lì attinsero per creare i loro versi più ispirati); Govoni, che nel periodo in cui pubblicò questo volume viveva a Ferrara, trasformò la città emiliana in una Bruges italiana.
"Sommario" è la ventunesima lirica della prima sezione del libro di Govoni, intitolata "Canto fermo", ed a me sembra anche una delle più belle, soprattutto l'ultima quartina ha un fascino ed una originalità particolarmente alti. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969. 

martedì 6 dicembre 2011

Desolazione del povero poeta sentimentale



I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
 
 
II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
 
 
III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
 
 
IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l'aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
 
 
V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
 
 
VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
 
 
VII

Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
 
 
VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.




 

È la poesia più famosa di Sergio Corazzini (1886-1907), poeta italiano scomparso a soli ventun'anni. I versi sopra riportati costituiscono un testamento e una sincera confessione che è rarissimo ritrovare in altri componimenti poetici. Corazzini afferma di non essere un poeta perché inadeguato, non all'altezza del ruolo che in quel periodo era divenuto insopportabilmente superbo e presuntuoso, ben rappresentato da Gabriele D'Annunzio che poteva definirsi la personificazione del mito nietzchiano del superuomo, così in voga all'inizio del XX secolo, e così colmo di atteggiamenti non lontani da una cieca superficialità unita ad una stupidità che sconfinava spesso nell'idiozia pura. Corazzini, assumendo un pensiero contro corrente, nel titolo si definisce "povero poeta sentimentale", ma poi, nel testo, dichiara immediatamente la sua inadeguatezza a ricoprire quel ruolo, anche fosse svilito, ridotto e ridicolizzato; dice: «io non so che morire» il che equivale a dire: «non son capace di vivere» dove vivere è inteso nel senso della super-esistenza di cui già detto. Ma nella frase di Corazzini c'è anche una triste verità, infatti il poeta romano sarebbe deceduto un anno dopo aver scritto questi versi a causa della tisi.
"Desolazione del povero poeta sentimentale" fu pubblicata da Sergio Corazzini nel 1906 in un volumetto intitolato "Piccolo libro inutile", il quale comprendeva poche poesie sue e del suo fraterno amico Alberto Tarchiani. La foto che segue il testo poetico è tratta dall'antologia "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969. 

lunedì 5 dicembre 2011

Cocotte


I.

Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...


 
II.

«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»

Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.

Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!

«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità...

«Una cocotte!...»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d'ovo e di gallina...

Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l'Isole Felici...
Co-co-tte... le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate...
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
 


III.

Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!...»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.
 


IV.

Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent'anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?

Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l'ultimo amante disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d'un bacio e d'un confetto,
dopo vent'anni, oggi ti ritrova

in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino dell'infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t'aspetta, o creatura!

Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!

Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state... Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!

Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia...
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa ch'io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò; rifiorirà, nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.

Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.
 


 

 
È questa, una delle poesie più famose (ed anche più belle) della raccolta "I colloqui", pubblicata da Guido Gozzano nel 1911. Il poeta parlò della lirica già nel 1907, in una lettera indirizzata all'amica Amalia Guglielminetti, di cui riporto un passo: «Ho abbozzato una poesia, in endecasillabi e sestine; la poesia è bella, i versi sono brutti. È un richiamo d'una cocotte che conobbi a Cornigliano Ligure, quasi vent'anni fa [...]. Era nostra vicina di casa, perché affittava pei bagni la metà della villa che si affittava a noi. Ma il giardino nostro e il suo erano divisi da una cancellata: e fu attraverso le sbarre che mi abbracciò qualche volta, dicendomi: "Mon petit chéri!" con un sorriso che ricordo ancora, un sorriso dove piangeva tutta la nostalgia della sua maternità insoddisfatta. Poi i miei se ne avvidero, ne parlarono a tavola, sentii da mia madre la parola cocotte... Da quell'anno non ho più rivista la mia amica francese, la cattiva Signorina. Ho rivisto Cornigliano invece, la settimana scorsa, e il giardino dei vent'anni prima e ho sentito il bisogno di lei». Questa poesia fu pubblicata per la prima volta sulla rivista La Lettura del giugno 1909, col titolo Il richiamo (vedi foto sopra).

domenica 4 dicembre 2011

La domenica della pioggerella



Chinar la testa che vale?
e che vai nova fermezza?
io sento in me la stanchezza
del giorno domenicale;

del giorno un po' lacrimoso
che dà i pensieri più tetri
e fa cercare oltre i vetri
ignote vie di riposo.

Dall'alto della sua gruccia
il pappagallo mi guarda,
e la sua voce beffarda
m'entra nel cuore e mi cruccia;

da una cornice, spavalda,
Carmen si strugge per me
ed io, tremante José,
sogno la carne sua calda;

ma, presso a Carmen, continua
un oriolo il suo metro
e l'ammonimento tetro
fino nel cuor mi s'insinua!

E intanto, intanto di fuori
continua a piangere il cielo,
continua a stendere un velo
grigio sugli ultimi fiori,

e una remota campana
continua i lenti rintocchi
solo perchè dai nostri occhi
scenda una lacrima vana.

Città che amai, che nell'ore
più sante della mia vita
deste una brama infinita
al mio trepidante cuore,

città divine ove fu
più forte il desìo d'amare,
mi pare, adesso, mi pare
che non dobbiate esser più,

che questo grigio v'asconda
per sempre agli occhi mortali
o vi faccia tutte uguali
questa tristezza profonda!




 

Le domeniche raccontate dai versi di Marino Moretti (1885-1979), il più crepuscolare tra i poeti che in tal modo furono definiti, hanno alcune peculiarità costanti: la noia, la tristezza, la solitudine, la nostalgia per il passato e la malinconia. Oltre alla poesia sopra riportata se ne possono leggere altre simili come "La domenica di Bruggia", "La domenica dell'orso che balla", "La domenica della signora Lalla", tutte riunite nella sezione "Domeniche" che è compresa nel libro più importante (parlando di opere poetiche) di Moretti: "Poesie scritte col lapis", uscito per la prima volta nel 1910 e più volte ristampato con aggiunte e varianti. Nei versi di "La domenica della pioggerella" il poeta descrive una domenica uggiosa di fine autunno, trascorsa in casa a guardare fuori dai vetri la pioggia che cade sulla città, il cielo grigio e la penombra che avvolge l'interno delle stanze; il tutto determina uno stato d'animo che oggi si potrebbe definire "depressivo", così il poeta comincia a pensare che quel grigio, quella pioggia e quella tetraggine non termineranno più fino alla fine dei suoi giorni e che entreranno anche dentro la sua triste, sconsolata anima.