domenica 17 marzo 2024

Il decennio 1960-1969 in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Come sembrano già così lontani i “mitici” anni ’60… Io, in questo decennio ci nacqui, ma, certamente per motivi d’età, non ricordo nulla o quasi di quel periodo decisamente felice per la nostra nazione; pure, in un non lontanissimo passato, ho visto tanti documentari, servizi giornalistici e film che ne parlavano spesso in modo entusiastico; inoltre amo la musica pop che, in questo preciso decennio, si diffuse in modo abnorme, grazie alla proliferazione dei dischi in vinile (a 33 e a 45 giri), che era possibile ascoltare in casa comperando un giradischi: elettrodomestico di piccole dimensioni e alla portata di tutti, che si avvaleva di un piatto girevole su cui veniva posizionato il disco, e un braccio alla cui estremità si trovava una puntina. Anche i miei genitori mi parlavano spesso e sempre in modo positivo degli anni ‘60, poiché entrambi, proprio all’inizio del settimo decennio del Novecento, trovarono un posto di lavoro adeguatamente retribuito e stabile, che gli permise di vivere senza troppi problemi economici per il resto della loro vita. In effetti, il periodo compreso tra il 1960 ed il 1969 ha rappresentato una svolta decisiva per l’Italia, che, soprattutto nei primissimi anni di questo decennio, beneficiò del cosiddetto “boom”: una sorta di miracolo economico che consentì ad una larga fascia della popolazione di uscire da uno stato di povertà in cui si era ritrovato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Poi ci fu il ’68: l’anno in cui iniziò la contestazione giovanile (fenomeno che coinvolse altri paesi europei come Francia e Germania Ovest) e che, ahimè, nel nostro paese sfociò nel terrorismo degli anni ’70. E gli anni ’60 finirono per diventare qualcosa di favoloso anche per me, che praticamente non li ho vissuti. Ma, come ho già detto all’inizio, oggi questo decennio così importante per la nostra nazione, sembra già dimenticato; e diventa sempre più raro sentirne parlare, anche perché le generazioni che lo hanno attraversato e analizzato o sono già scomparse, o non vengono più interpellate al riguardo. Ho voluto così rievocarli pubblicando 10 poesie di 10 poeti italiani in cui essi sono protagonisti diretti o indiretti. Ma in questi versi quasi mai c’è entusiasmo; piuttosto si punta l’attenzione su determinati eventi accaduti proprio in quel decennio, alcuni dei quali drammatici o tragici; oppure si esterna una seria preoccupazione per il graduale diffondersi di un capitalismo sempre più selvaggio. In altri casi, vengono ricordate delle date memorabili per la popolazione mondiale (come quella del 21 luglio 1969, quando l’uomo, per la prima volta riuscì a toccare il suolo lunare). Unica eccezione è la prosa poetica di David Maria Turoldo, che conferma l’impressione estremamente positiva da lui avuta in quel contesto storico, che vide l’ascesa al potere di alcuni personaggi straordinari, apparentemente in grado di cambiare il mondo. Poi, però, con amarezza ammette che si trattò soltanto di una mera illusione.

 

 

IL DECENNIO 1960-1969 IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

2 NOVEMBRE 1962

di Fernando Bandini (1931-2013)

 

I puteli notturni

hanno sorvolato

(cavalcando le folaghe)

La base della Nato.

 

Luccicavano appena

tra nuvole di perla

e i rami dondolavano

nel tempo che s’inverna.

 

Armi qua e là

Puntate verso il cielo!

I puteli fuggivano

Al prossimo sfacelo.

 

E l’àlbera tremava

nei miei occhi e nel cuore.

Aver trent’anni e tanta

Paura e disamore! 

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2018, pp. 46-47)

 

 

 

 

25 LUGLIO ‘67

di Ferruccio Benzoni (1949-1997)

 

Stentorea

in un visibilio di luce

che pare scolpita

la voce,

il lembo d’un prendisole…

È quanto di lei rimane

Tra il paesaggio marino e me

Immobili nel ricordo.

(Si sollevasse una brezza

un alito

e un poco di verde tremasse

cautamente

dalla cima delle piante alla punta

delle mie dita)

 

(da “Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000”, Einaudi, Torino 2005, p. 368)

 

 

 

 

VERSI SCRITTI IL GIORNO DELLA MORTE DI J. F. KENNEDY

di Attilio Bertolucci (1911-2000)

 

Amica America America primo amore

non potevamo più pronunciare quei titoli amati

e neppure America amara che ne era il rovescio

giudizioso e perfido forse accettabile

sempre giocati su quella vocale femmina di lunghe gambe

le lunghe dure gambe americane fatte per grandi spazi.

 

Non potevamo più controtipare dal fondo

semidistrutto della nostra memoria

di Douglas Fairbanks

gattescamente librato

sulla pellicola rigata i salti

con accompagnamento al piano di Alexander ragtime Band

perché eravamo rimasti senza udienza.

 

Né - udite - litaniare Poe Hawthorne Melville Dickinson Whitman -

né Stephen Crane più a misura d'uomo -

di quei semidei che orme gigantesche

stamparono sulla terra e scomparvero

senza eredi - Stephen

e più tardi Ernest e Francis Scott

che ci diedero in prosa una musica umile

degna dei versi più splendenti.

 

Ora potremo grazie a te. Così sia.

 

(da "Verso le sorgenti del Cinghio", Garzanti, Milano 1993, pp. 25-26)

 

 

 

 

SETTEMBRE 1968

di Franco Fortini (1917-1994)

 

Quest’anno ne ripete molti altri. La venuta

del caldo, per esempio. Il grande caldo

si è tutto sfogato nella prima quindicina di luglio.

 

Gli studenti, le riunioni.Torino. Parigi. Berlino. I colpi

a Dutschke, sotto Pasqua. I giorni di maggio. La lotta

a Shanghai. Ieri i russi a Praga; o è da quindici

giorni, già da trenta giorni.

 

Stenta la coscienza a seguire questo volo profondo.

L’azzurro è profondo. Il viola è denso e il verde

Sulla dorsale di pini e cipressi.

Dove la dorsale del poggio va in ombra è molta ombra.

Poco fiato leva le piume bianche

Dei cardi ed esse in processione

Senza pena vanno senza peso

Sempre più nell’aria lasciano l’ombra

Entrano nella luce rosa.

 

Stringo nella tasca una lettera di stamani.

 

(da “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 2015, p. 416)

 

 

 

 

NINNA-NANNA PER IL 21 LUGLIO 1969

di Luciana Frezza (1926-1992)

 

Va a letto, bambina curiosa,

prendi il tuo piccolo tranquillante

verde prato e riposa

in un’amaca di raggi d’argento.

 

Ma mille fili

Mille segnali

Mille richiami

Attraversano il baldacchino

Del tuo sonno di cellophane.

Sta certa

Ti sveglieremo

All’ora che aspetti, di questa

Notte d’epifania lunare.

 

(da "Comunione di fuoco. Opera poetica", Editori Riuniti, Roma 2013, p. 276)

 

 

 

 

Da "TELEGIORNALE (1963-1964)”

di Gino Gerola (1923-2006)

 

5

È subito silenzio

nel bar. Lo speaker turba la sua voce,

un attimo s’affaccia

sullo schermo. Un ronzo cupo

è nell’aria: - La vallata del Piave

è un cimitero: brandelli di abitazioni,

i morti nudi che dormono

in un mare angosciato. I superstiti

raspano tra le macerie,

i soldati che scavano muti

riportano nel giorno

solo la morte -. Sul video nereggiano

figure in una luce

spettrale, la gola del Vajont

s’apre contro la diga

tra le montagne a picco. Qui nella penombra

la piccola folla

ha un solo sguardo, teso. Una cascata

impazzita è il rombo delle macchine

per le strade d’intorno.

 

[da "La valle e periferia (1943-1995)", Edizioni Osiride, Rovereto 2001, p. 96]

 

 

 

 

FU LA SERA IMPROVVISA...

di Margherita Guidacci (1921-1992)

 

Fu la sera improvvisa, non nel corso del tempo.

E non ebbe corteggio di gloria occidentale

Né bandiere di fiamma che ondeggiassero

Sui confini del cielo

Nel lento addio, promessa del ritorno.

 

Fu come se il pugnale di un sicario

Trafiggesse alle spalle il sole inconsapevole.

L'empio tramonto nell'oriente

(Luce mutata in pietra, foglie mutate in piombo,

Acque abbrunate in un immenso lutto)

D'ogni creatura fece statua silente

E dell'aria cinerea

L'opaco specchio del mortale orrore.

 

(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 150)

 

 

 

 

IN TANTO SPRECO DI RESPIRO UMANO

di Nelo Risi (1920-2015)

 

In tanto spreco di respiro umano

in tanti mattoni per gli ultimi piani

in tanta neve spazzata ogni tanto e con tutta la merce

portata dai camion nelle notti di gelo

gli uomini, dentro, resistono bene.

Lavorano dietro i tavoli su sedie di paglia

o affondati in poltrone, hanno anche un orario

qualcosa di caldo per colazione e magari

la macchina poi che li porti a casa.

Tutti hanno un letto. Sono due modi però

di lavorare nella stessa città.

 

[da "Di certe cose (poesie 1953-2005)", Mondadori, Milano 2006, pp. 55-56]

 

 

 

 

GIOVANNA E I BEATLES

di Vittorio Sereni (1913-1983)

 

Nel mutismo domestico nella quiete

pensandosi inascoltata e sola

ridà fiato a quei redivivi.

Lungo una striscia di polvere lasciando

dietro sé schegge di suono

tra pareti stupefatte se ne vanno

in uno sfrigolìo

i beneamati Scarafaggi.

 

Passato col loro il suo momento già?

 

Più volte agli incroci agli scambi della vita

risalito dal niente sotto specie di musica

a sorpresa rispunta un diavolo sottile

un infiltrato portatore di brividi

- e riavvampa di verde una collina

si movimenta un mare -

seduttore immancabile sin quando

non lo sopraffanno e noi con lui altre musiche.

 

(da "Il grande amico. Poesie 1935-1981", Rizzoli, Milano 1990, p. 160)

 

 

 

 

Da "AI TEMPI DI PAPA GIOVANNI"

di David Maria Turoldo (Giuseppe Turoldo, 1916-1992)

 

Sì, io ho creduto fino al punto di ritirarmi nel suo paese, di mettermi a vivere qui, a camminare per queste mulattiere, in mezzo ai suoi vigneti; a guardare dal monte gli spazi e il cielo che lui si era portato con sé per le strade dell'oriente e dell'occidente, fin dalla sua infanzia; qui in mezzo alla sua gente.

  Vivevo allora da solo e dormivo in una torre di mille anni. E da quelle finestrelle guardavo giù tutta la pianura. E dovevo entrare da una porticina piccolissima, cosicché dovevo curvarmi, e ogni volta che uscivo avevo la sensazione di inchinarmi di fronte alla creazione. E godevo di tutte le più piccole cose; e della mia vocazione, e della volontà di donarmi; godevo specialmente a stare con gli umili e coi fanciulli. E ho creduto veramente nella possibilità di un mondo nuovo, o comunque diverso. Speravo che la storia dovesse cambiare. Era il tempo di Kennedy, il tempo di Krusciev. Non so che tempi fossero. Ora mi sembrano una favola. Oppure ci siamo tutti sbagliati?

 

(da "O sensi miei... Poesie 1948-1988", Rizzoli, Milano 2002, p. 359) 

 



domenica 10 marzo 2024

Riviste: "Il Convito"

 Il Convito è il titolo di una preminente rivista letteraria fondata a Roma nel 1895 dal poeta Adolfo De Bosis, che ne fu anche il direttore. Sulle pagine della rivista romana si susseguirono saggi, articoli di vario genere e scritti in prosa o versi di autorevoli intellettuali italiani, tra cui Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Edoardo Scarfoglio, Giulio Aristide Sartorio e Enrico Panzacchi. Il XII ed ultimo libro del Convito fu pubblicato nel 1907. Ecco, infine, due testi poetici usciti per la prima volta sulla celebre rivista romana. Il primo, si compone di due sonetti dal titolo I notturni, scritti dal fondatore nonché direttore del Convito: Adolfo De Bosis (Ancona 1863 – ivi 1924); nel secondo si riporta il capitolo V del poema Rapsodia lirica di Enrico Nencioni (Firenze 1837 – Ardenza 1896).

 

 


 

 

I NOTTURNI

di Adolfo De Bosis

 

I

Il Tramonto disfiora

sue magiche ghirlande,

lento; e una dolce spande

malinconia per l'ora.

 

Nuotano i Sogni, ancora

naufraghi, a elisie lande?

Ma l'Alma il puro e grande

tuo bacio, o Notte, implora.

 

Ben tu venga, o possente

Notte! L'augusta calma

piovi a le cose, ed elle

 

bevan l'oblio fluente

dal sen tuo vasto, e l'Alma

vigili, con le stelle.

 

II

Quali rive quiete

la nostra anima corse

placida? O questa è forse

la pigra acqua d'un lete?

 

Quali or dunque segrete

virtù piovver da l'Orse

fatali? O chi mai porse

l'onda a l'oscura sete?

 

Notte, ahi me, che improvviso

brivido fuor da l'urna

gelida effondi! e in lente

 

spire l'antico riso

tenue, o Taciturna,

dai lacrimosamente.

 

(da «Il Convito», gennaio 1895)

 

 

 

 

Da "RAPSODIA LIRICA"

di Enrico Nencioni

 

V

Poi dai campi luminosi

scendi a un mistico giardino.

Su la soglia sta la Morte

di cipresso incoronata:

 

sta la Morte che con gelide

immortali mani accoglie

i fantasmi, le memorie

di sepolti odi ed amori;

 

sogni vani, amor defunti,

germi uccisi dalle nevi,

foglie morte, di purpuree

tristi macchie insanguinate;

 

bianche, lievi, ultime rose;

gigli morti tra i capelli

o sul petto a bionde vergini

di sudore estremo madide.

 

Essa a noi le sue marmoree

braccia stende, e al cuor ci chiude:

noi perdiam coscienza ed essere,

noi siam morti nella Morte.

 

Ma sognamo. Come in fondo

all'oceano le verdi alighe,

o le rame dei coralli,

noi sognamo – ma siam morti.

 

Noi sentiamo su le palpebre

sigillate eternamente,

sui due cuor che più non battono,

lievi errar l'ombre dei baci.

 

Noi sognamo ardenti cantici

di purpurei rosignoli,

lune più dei soli splendide,

mari d'oro, e fior di luce.

 

Noi sognamo l'impossibile,

il divino, l'ineffabile,

il gran sogno dei poeti

noi sognamo... ma siam morti!

 

(da «Il Convito», aprile-giugno 1896)