lunedì 29 aprile 2013

Poeti dimenticati: Giorgio Umani


Giorgio Umani nacque a Cupramontana nel 1892 e morì a Falconara nel 1965. Fu avvocato e famoso entomologo, ma scrisse anche versi che pubblicò in varie raccolte. Alla radice della sua poesia sta una religiosità intensa che si estrinseca in versi semplici e, nello stesso tempo complessi, pieni di un panteismo che lo porta a trovare la presenza di Dio in ogni fatto, persona, animale o cosa.



Opere poetiche

"Parabole gnostiche" La lucerna, Ancona 1926.
"Il volto nemico", La lucerna, Ancona 1928.
"A segno di stella", La lucerna, Ancona 1930.
"Il libro scarlatto", L'Eroica, Milano 1933.
"L'ineffabile orgasmo", Kursaal, Fienze 1953.
"L'ora degli ultimi", Il Gauguin, Firenze 1962.







Presenze in antologie

"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 364-369).
"Antologia della Poesia Italiana Cattolica del Novecento", a cura di Mario Nanteli, UPSCI, Roma 1959 (pp. 224-226).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 3, pp. 278-279.).




Testi

PRESENTIMENTO

Lassù dove serpeggia quel sentiero
che dalla spiaggia sale alla montagna,
aveva nido una lucertoletta
innamorata come me del Sole,
malata, come me, di Cielo e Mare.
La vedevo ogni giorno: dalla tana
guardava il mondo immobile e rapita
così che non pareva s'avvedesse
di chi, passando, quasi la sfiorava.
Ed io pensavo, proseguendo innanzi,
come attristato da un presentimento:
Dove potrà condurci il nostro amore
di ciò ch'è inafferrabile?
Son tornato stamane e l'ho trovata
schiacciata sotto un sasso
morta sotto il ciglione della via.
Dal fianco aperto fuoriusciva il cuore
che si tendeva ancora verso il Sole.

(Da "Parabole gnostiche")

giovedì 25 aprile 2013

Due brani letterari in occasione del 25 aprile


In occasione del 25 aprile, giorno in cui in Italia si ricorda l'anniversario della liberazione dal nazifascismo, vorrei porre l'attenzione su due frammenti di letteratura italiana del dopoguerra che trattano il tema della Resistenza. Il primo è di Mario Tobino (1910 - 1991), scrittore e psichiatra toscano che ebbe successo con alcuni romanzi sul tema della follia (fu direttore per anni di un ospedale psichiatrico) come Le libere donne di Magliano (1953) e Per le antiche scale (1972). Tobino partecipò anche alla lotta partigiana e compose dei versi che testimoniano il periodo della Resistenza o "periodo clandestino" come recita il titolo di una sua poesia; la lirica di cui riporto il testo s'intitola Il Pasi ed è dedicata a Mario Pasi (1913 - 1945), medico e partigiano italiano che fu ucciso barbaramente dai nazisti. Il componimento poetico, scritto con parole semplicissime, ben riflette i sinceri ed intensi sentimenti di Tobino nei confronti del compagno, il quale viene ricordato con grande nostalgia e con una percepibile commozione da chi ha vissuto con lui un periodo eroico eppur dolorosissimo:


IL PASI

Il Pasi era un giovanotto
veniva dalla Romagna,
insieme eravamo giovani,
si camminava muovendo le spalle,
le donne avean per noi debolezza.
Lui lo impiccarono i tedeschi
dopo sevizie che non ho piacere si sappiano,
io ho un cappotto di anni,
ma, o Pasi, sei stato
il più bell'italiano di mezzo secolo.

(da "L'asso di picche. Veleno e amore secondo", Mondadori, Milano 1974, p. 106).






Il secondo estratto proviene dal romanzo Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio (1922 - 1963); pubblicato postumo nel 1968, è probabilmente il migliore tra quelli italiani che trattano il tema della Resistenza; la storia è quella del giovane studente Johnny che, a seguito dell'otto settembre 1943, decide di unirsi ai partigiani per combattere l'invasore nazifascista. Nel romanzo di Fenoglio emerge tutta la durezza del periodo di lotta che Johnny ed i suoi compagni si trovarono ad affrontare. Il frammento che segue descrive un momento di piacevole rilassamento che vive Johnny proprio dopo le molte sofferenze che ha provato a causa di una vita particolarmente difficile, come era quella dei partigiani al tempo della seconda guerra mondiale. Le allettanti proposte che gli vengono presentate, mentre lui sta mangiando dopo un lungo periodo di digiuno un piatto di minestra, fanno balenare nella mente di Johnny la possibilità di scendere a compromessi per interrompere l'ardua lotta densa di difficoltà e oltretutto assai rischiosa:


«Johnny era in assoluta vacuità mentale, praticamente sordo, tutto stemperato in quell’alta temperatura e nell’aroma di quella ricca minestra. "Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo.E tu, Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami, non è vero? Tu stesso ammetti d’aver avuto fortuna sino ad oggi ma la fortuna si consuma, e sarà certamente consumata avanti il 31 gennaio. Perché dunque stare ancora in giro, in divisa e con le armi, digiunando e battendo i denti? Sembrerebbe che tu lo voglia, che tu ti ci prepari a quel loro colpo di caccia ". Giunse compostamente le sue potenti mani. " Da’ retta a me, Johnny. La tua parte l’hai fatta e la tua coscienza è senz’altro a posto. Dunque smetti tutto e scendi in pianura. Non per consegnarti, Dio vieti, e poi è troppo tardi. Ma scendi e un ragazzo come te avrà certamente parenti e amici che lo nascondano. Un nascondiglio dove stare fino a guerra finita, soltanto mangiare e dormire e godersi il calduccio e... — ridacchiò e abbassò la voce: — e ricevere la visita ogni tanto di qualche tua amica di fiducia, l’unica a conoscere il tuo indirizzo".»


Ma Johnny è un ragazzo che, oltre ad avere un coraggio da leoni, possiede ideali libertari ben saldi e radicati in lui e sa che la lotta in cui si è gettato senza indugi è, seppur difficilissima, sacrosanta, quindi, a costo di rimanere l'ultimo "passero sul ramo", decide stoicamente di continuarla e conseguentemente di rifiutare ogni lusinghevole offerta:


«Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir sì" "No che non lo è!" — gridò il mugnaio. "Lo è, lo è una maniera di dir di sì."
[...] Un vento polare dai rittani di sinistra spazzava la sua strada, obbligandolo a resistere con ogni sua forza per non essere rovesciato nel fosso a destra. Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. –Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero!»

(da "Il partigiano Johnny", Einaudi, Torino 1994, pp. 459-460)




lunedì 22 aprile 2013

"Canto fermo" di Giorgio Vigolo




"Canto fermo" che uscì nel 1931, è il secondo libro di prose di Giorgio Vigolo. Si tratta di un libro notevole, dove lo scrittore romano dimostra, già agli inizi, tutto il suo talento manifestando la sua evidente propensione alla visionarietà e alla contemplazione estasiata della natura; è più che mai evidente poi tutto il suo immenso amore per la città di Roma, che è anche la sua città, e della quale ha scritto pagine indimenticabili sia in prosa che in versi.
Già alla prima pagina di Canto fermo si nota una passo degno di nota che parla delle nuvole:

«La bellezza delle nuvole sorge oggi silenziosa e ispirata sulla terra come una lucente famiglia di dei. Di dietro le scure masse dei monti salgono quasi danzando queste improvvise immagini dell'ignoto e tutte gonfie di luce sospendono sul cielo delle città gli emblemi dei miti e della poesia perduta». (Da Nuvole e pietre, p. 23)

Oppure si può apprezzare in quest'altro frammento la percepibile nostalgia dell'infanzia che Vigolo esprime dissertando delle luci che illuminano la sera della città:

«Con quanto diversa discrezione si accendevano i fanali a olio nelle sere della mia infanzia sul finire dell'ottocento! Questi stessi viali, queste medesime strade avevano da poco preso il posto degli orti e delle vigne...» (Da Te lucis ante, p. 26)

E sempre a proposito di città e in particolare di Roma si possono leggere le bellissime prose intitolate Chiese d'estateIl viso d'argento e Il macello; di quest'ultima ecco un breve estratto che descrive un suggestivo e mistico luogo che presenta alcune particolarità antitetiche e sinistre:

«È un macello, ancora con la luce dentro a quest'ora; non ha imposte, ma un grosso cancello di ferro che lascia intravedere l'interno della bottega dove arde una lampada davanti alla Madonna. La fiammella guizza di continuo, facendo scattare da tutti gli angoli grosse ombre che salgono e scendono sui quarti vermigli delle carni appese». (Da Il macello, p. 35)

Spesso, in queste prose di Vigolo, c'è una ricerca della solitudine, che premette allo scrittore romano una immedesimazione nella natura più segreta e affascinante. Questa caratteristica è possibile rintracciarla in Prisma, in Invisibile amico, in La notte dei tempi e soprattutto in Adamo o della solitudine, da cui estraggo questo frammento che ben riflette la voglia di provare, da parte dello scrittore romano, sensazioni primordiali, di riscoprire mondi intatti, incantati e celati chissà dove:

«È perfetto silenzio: io solo, sperso in fondo all'imbuto, sento il mio piccolo cuore che batte nel centro di questa scena immensa e silenziosa.
Solamente due note di flauto oscillano di quando in quando nell'aria come un lungo pendolo che, nella chiusa valle, divide il silenzio in due nette battute.
È un cuculo, lassù.
...
Io non ho più un'idea, un moto, un ricordo. Questa chiostra ha per lago l'anima mia e non vi si riflette che lo scroscio silenzioso del verde e la fiumana pallida del cielo».

Si è già accennato alla visionarietà come elemento portante delle prose di questo libro, ebbene c'è un brano che appartiene a Invisibile amico in cui Vigolo spiega magistralmente la straordinarietà di quei momenti in cui gli occhi divengono la parte più importante del nostro corpo, permettendoci di provare emozioni uniche e irripetibili:

«Felici della più limpida felicità terrena posson dirsi quei momenti nei quali, dimentichi del corpo, noi non siamo che occhi e tutto il nostro vivere si riduce a un puro vedere. Di tutti gli organi del corpo i meno soggetti al male, quelli che pur nella delicatissima complessione loro meno conoscono il dolore, che meno partecipano della comune miseria delle membra, che più si emancipano dalla radice penosa dell'esistenza: gli occhi».

Di una bellezza rara, molto vicina alla migliore poesia di sempre, sono gli incipit di alcune prose. Ecco alcuni esempi:

«Le città d'inferno in agosto. Nelle pianure basse senz'aria, questi forni di pietra, dove la carne accasciata degli uomini si deprava nel calore». ( Da Chiese d'estate, p. 29)
«I rossi ruderi, le arcate degli acquedotti son qui d'attorno come scogli irruginiti: fermi, tetragoni - basati sull'eternità». (Da Banchi di corallo, p. 62)
«Un immenso idolo ingombra il cielo annottato, come una massiccia basilica; e il capo gli s'impiglia fra gli spini delle stelle». (Da L'idolo, p. 87)
«In una sera d'autunno - non so più se della mia infanzia o di un sogno di ieri - mi ritrovai, senza famiglia, senza ricordi e senza nome - a mezzacosta di un monte che tra le fiamme del vespro già scolpiva i suoi blocchi di carbone violetto» (Da Serale, p. 105)

Chiudono il libro, in appendice, diciassette poesie che Vigolo in parte trasferirà quattro anni dopo nella sua prima raccolta poetica: Conclave dei sogni; tra di esse ve ne sono alcune molto belle come la sognante Il ritorno di seraL'impronta (che nasce da un indizio comprovante il passaggio di una presenza ultraterrena) e Notturnale, in cui Vigolo, ancora una volta, ritorna a parlare della sua Roma notturna, così onirica, misteriosa e inquietante.

venerdì 19 aprile 2013

Il crisantemo nella poesia italiana decadente e simbolista


Il crisantemo in genere ha una simbologia simile a quella del cipresso, legata all'aldilà, all'eternità ed all'ascensione dell'anima verso il cielo; come il cipresso è diffusamente presente nei cimiteri e in particolare sopra le tombe, da ciò l'associazione diretta di tale fiore ai morti ed al mese in cui si celebra il giorno dei defunti: novembre, nonché della stagione in cui i crisantemi fioriscono: l'autunno.




Poesie sull'argomento

Rosario Altomonte: "Poema floreale. I crisantemi" in «La Stella e L'Aurora Milanese», novembre 1902.
Vittorio Betteloni: "Crisantemi" in "Crisantemi" (1903).
Francesco Cazzamini Mussi: "Crisantemi" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Enrico Fondi: "I crisantemi", da «Poesia», agosto 1905.
Arturo Graf: "Crisantemi" in "Morgana" (1901).
Marco Lessona: "Grisantemi" in "Ritmi" (1902).
Arturo Onofri: "Crisantemi" in "Orchestrine" (1917).
Giovanni Pascoli: "Crisantemi" in "Odi e Inni" (1906).
Giovanni Pascoli: "Che fanno là, presso la muta altana" in "Canti di Castelvecchio" (1907).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Il crisantemo" in "Sillabe ed Ombre" (1925).
Domenico Tumiati: "La Donna dei Crisantemi" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Mario Venditti: "Le pàlpebre che non debbono chiudersi" in "Il cuore al trapezio" (1921).




Testi

I CRISANTEMI
di Enrico Fondi

«Bianco era il volto e a bruno era vestita -
lo stornello piangea nella pineta -
«E una bara vestiva il suo poeta.
«Fiore di morto non è fior di vita».

Sempre che l'occhio sopra voi si posi
dentro a' giardini o dentro a' cimiteri,
un ritmo melanconico pervade
ogni mia fibra, e penso dolorosi
occhi e campane a morto e ardenti ceri
e gravi salmodie: poi per le strade
vorrei fingermi fresche di rugiade
le feminee gote dell'Aurora.
Vano, a le orecchie mi rimpiange ancora:
«Fiore di morto non è fior di vita».

(Dalla rivista «Poesia»)

mercoledì 17 aprile 2013

Le rondini in 10 poesie di dieci poeti italiani del XX secolo


"Bei cerchi della vita", "piccole croci nere nere", "frecce avvelenate della primavera": così sono state fantasiosamente definite dai poeti le rondini, questi simpatici pennuti che in primavera, puntualmente, ogni anno tornano a farci compagnia popolando i nostri cieli. E sono ritornate anche quest'anno, sono tornate malgrado l'indifferenza degli uomini, immersi nei loro bassi, sporchi e vuoti affari quotidiani, gettati nelle loro stupide e vacue scorribande per le strade cittadine. Gli uomini, che stanno rendendo questo pianeta invivibile, col loro egoismo, la loro brama di ricchezza, spinti dalla presunzione di sostituirsi a Dio, di possedere la Terra.
...Eppure esse ritornano, ogni anno, basta guardare il cielo per accorgersene, per capire che, nonostante la assurda e inutile presenza dell'umanità, la vita sulla Terra continua, con tenacia, come accade da secoli e secoli, come accadrà fino alla fine dei tempi (malgrado l'uomo).



RONDINI
di Corrado Govoni (1884-1965)

«Son tornate le rondini al lor nido
sotto la gronda de la tua finestra...»
Dunque è vero ch'io sono dal mio nido
così lontano, da la mia finestra!

Dunque è vero ch'io ancora mi confido
de la speranza che mi sequestra
da te lontano, ed i miei giorni affido
del destino a l'instabile balestra!

Le rondinelle àn fatto già ritorno
al loro nido placido e sicuro
sotto il mio cornicione logorato...

O mamma, mamma, quando verrà il giorno
che gettandomi al tuo collo puro
potrò gridarti: - anch'io son tornato! -

(Da "Le fiale", Lumachi, Firenze 1903)





LA BUONA NOTTE DELLE RONDINI
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Quando muore il dì perduto
dietro qualche oscura vetta,
quando il buio occupa muto
ogni vuota erbosa via,
una strana frenesia
tra le rondini scoppietta.

Come bimbi sopra l'aia
giocan elle con giulive
grida intorno alla grondaia,
e poi su nel cielo rosa
vanno vanno senza posa
dove Iddio soletto vive.

Gaie arrivano in presenza
del buon Dio che tutte accoglie;
una bella riverenza
fa ciascuna, e poi dice:
- Sia la notte tua felice! - 

Scioglie il volo, e giù si china
con un poco di tremore
per la lieve aria turchina;
e ritrova le sue orme,
trova il nido, e ci si addorme
col capino sopra il cuore.

(Da "Il Cestello", Treves, Milano 1910)





RONDINI
di Diego Valeri (1887-1976)

Rondini allegre, rondini leggere,
in giro in giro, vorticosamente:
ma nello specchio del mio cuor dolente
tante piccole croci nere nere...

(Da "Crisalide", Taddei, Ferrara 1919)





LA FINE DELLE RONDINI
di Mario Venditti (1889-1964)

S'eran levate con un frullo tale
che avea mutato il volo repentino
in una tarantella a concertino
e in nacchera ciascuna coppia d'ale.

Ma, quando il cielo non fu più turchino,
allora il ritmo diventò ineguale:
ora speranza d'albero ospitale,
or nostalgia di nido non vicino.

Una ferrata antenna, animatrice
d'incudini, le filiformi braccia
tese allo sciame come salvatrice.

Ma, a pena tocca, folgorò con fiamma
occulta: e offerse alla funerea marcia
del turbine un orrendo pentagramma.

(Da "Il cuore al trapezio", Taddei , Ferrara 1921)





RONDINE
di Augusto Garsia (1889-1956)

Quando annotta e le strade son deserte,
nell'ultima aria chiara, ne la molle
tranquillità de le tacite offerte,
dal silenzio una rondine s'estolle.

Nell'aria greve de l'olezzo inerte
ch'effondono invisibili corolle,
tra raggi estremi ed ombre già più certe,
guizza trillando una rondine folle.

Sol essa non ha pace, e in questa breve
stasi d'incanto nel mio cuor profondo
urge malinconia per tanto lieve

esistere che trepida errabondo,
dall'ale nere e dal petto di neve,
imagin de l'occulta ansia del mondo.

(Da "Voci del mio silenzio", Campitelli, Foligno 1927)





LE RONDINI
di Farfa (1879-1964)

in deliziose cappe di raso nero
dattilografavano il risveglio
dettàto dall'aurora

(Da "Noi miliardario della fantasia, La Prora, Milano 1933)





ALLE RONDINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)

  O rondinelle, a vedervi tornare
l'anima s'empie dell'odor del mare.
E sogna in alto le sottili antenne,
le melodie che fa l'onda perenne,
e il cuor ventenne cui sol piace amare.

  O rondinelle d'amore maestre,
fatemi preste il vostro incanto in cuore,
ch'io mi ricordi almeno
ciò che si sente quando albeggio in seno
la giornata d'amore.

  O rondinelle maestre di canto,
fatemi in mezzo al cuore un po' d'incanto,
che almeno io mi ricordi
ciò che si sente quando il cuore è pieno
d'armoniosi accordi.

  O rondinelle maestre di volo,
fatemi in mezzo al cuor vostra magia,
onde l'anima mia
ricordi almeno quanto forte sia
la gioia di volare.

  O rondinelle, a vedervi tornare
l'anima s'empie dell'odor del mare.

(Da "Il gonfalon selvaggio", 1934)





QUEST'ANNO...
di Umberto Saba (1883-1957)

Quest'anno la partenza delle rondini
mi stringerà per un pensiero il cuore.

Poi stornelli faranno alto clamore
sugli alberi al ritrovo del viale
XX settembre. Poi al lungo male
dell'inverno compagni avrò qui solo
quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.

Alla mia solitudine le rondini
mancheranno, e ai miei dì tardi l'amore.

(Da "Uccelli", Ed. dello Zibaldone, Trieste 1950)





LA RONDINE
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

In un paese sospeso a mezza costa,
in giorni neutri di un'estate incerta,
rondini imprevedute a lungo stettero
a conversare fitto, appese a fili,
o a buttarsi in voli radenti
sull'asfalto, se minacciava pioggia...

Enigmatiche e audaci mi sfioravano,
instancabili d'ali e di bisbigli
che mi provavo a cogliere e ad intendere;
poi, disperando, spiavo le nuvole,
se mai, da esse, il segno di una sorte,
in squarci di foschia, mi trasparisse...

Ma un giorno, inavvertite, via migrarono.
E a quei monti a me migrasti tu,
bruna rondine tesa e solitaria.

(Da "L'Appennino e nuove poesie", Mondadori, Milano 1963)





LE RONDINI
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Le rondini, bei cerchi della vita,
intatti e non vissuti,
senza che il tempo azzurro li soverchi,
son tempi in cui non vige una misura
sommersi dentro un suono di campane
che li innalza e li abbassa,
che forano e trapassano,
per ritornare fertili di vita
e privi di ricordi, a l'onda antica.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984)

domenica 14 aprile 2013

Il passato


Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:
un sorriso mi sembra ora quel pianto.
Rivedo i luoghi, dove ho già sorriso...
Oh! come lacrimoso quel sorriso!






Giovanni Pascoli inserì questa quartina nella 4° edizione (1897) della sua opera poetica più celebrata: Myricae; trattasi di una meditazione apparentemente contraddittoria sui luoghi e gli stati d'animo che hanno a che vedere col passato. I primi due versi, di sapore leopardiano, sintetizzano il pensiero secondo il quale anche il ricordo di momenti tristi o poco piacevoli col tempo diviene gradevole in quanto tali momenti fanno parte di un periodo, quello dell'infanzia o della gioventù, in cui si ha ancora tutta la vita davanti. Risulta invece più doloroso il ricordo dei momenti di felicità e di allegria, soprattutto per chi è consapevole che quegli istanti sono passati per sempre e non ritorneranno.





sabato 13 aprile 2013

Sognai...


Sognai. L'orrido sogno ho in mente impresso
In un avel calati eram per gioco...
Scende il coperchio immane a poco a poco,
Ci chiude. Eternità siede sovr'esso.






Una lirica che in pochi versi ben rappresenta la classica poetica di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869) e della scapigliatura. Fa parte di Disjecta, unica opera in versi dello scrittore lombardo, pubblicata l'anno stesso in cui morì. L'incipit è ben chiaro: si tratta di un sogno lugubre, orrendo, praticamente un incubo; il tutto nasce da un gioco tra amici, che consiste nel porsi all'interno di una tomba, fingendo probabilmente di essere morti; ma proprio nel momento in cui sono entrati nell'avello ecco che un coperchio lentamente si cala sugli sventurati che rimangono intrappolati nella tomba da vivi. Sopra al sarcofago il Tarchetti forse s'immagina di vedere in forma umana l'Eternità, ovvero colei che ha ordito questo tremendo scherzo e che vuole significare l'assoluto pessimismo del poeta, il quale vede la vita come un gioco assurdo che termina con una morte beffarda senza possibilità di ritorno.





domenica 7 aprile 2013

La Domenica in Albis in versi


La "Domenica in Albis" o "Ottava di Pasqua" è la prima domenica che giunge dopo la Santa Pasqua. È così chiamata per via di una tradizione esistente ai tempi del Regno della Chiesa, quando si usava celebrare il sacramento del battesimo nella notte di Pasqua; i battezzandi durante la cerimonia indossavano delle tuniche bianche che avrebbero usato per tutta la settimana successiva all'evento, compresa la domenica, dopo la quale potevano deporre le vesti. Da qui il nome latino scelto per questa festa: "domenica in albis depositis" che si traduce: "domenica in cui si depongono le bianche vesti".
Ecco infine tre poesie di tre grandi poeti del Novecento italiano che hanno dedicato dei versi a questa poco conosciuta ricorrenza religiosa.





AMEN PER LA DOMENICA IN ALBIS
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Non m'hai tradito, Signore: 
d'ogni dolore
son fatto primo nato. 

(Da "Oboe sommerso", 1932)





DOMENICA IN ALBIS
di Luciano Erba (1922-2010)

Questo è un regno di pioggia, un mondo vizzo
di fantesche accordate ai music halls
di bambini sospesi a un palloncino
color lampone, vicino fuma il padre
ha le guance screziate dal rasoio.
Questo è un giorno di festa che ti esilia
alla soglia d'amore e dell'addio
a due mani di donna che tu hai visto
indugiare un istante tra le perle
di una breve collana
sembravan dire
per noi la vita è sempre mañana.

(Da "Il male minore", 1960)





DOMENICHE IN ALBIS
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Giorni d'azzurro vivo
e di tegole rosse,
e il mondo è come fosse
un infinito abbrivo
d'anima su quei colori
fin dov'esso s'estenua

questi sono i miei amori

la mia persiana verde
da cui schiusa si perde
la veduta, con l'anima,
perché l'anima vede
sempre ciò ch'essa crede
nei suoi bianchi fulgori.

(Da "L'estate di San Martino", 1961)

lunedì 1 aprile 2013

Aprile in 10 poesie di dieci poeti italiani del XX secolo


DISSOLVIMENTO
di Enrico Thovez (1869-1925)

Oh senza amore più! senza speranza! Nella miseria, 
disfatto come un cadavere! E attorno nuvole azzurre, 
mattine chiare di aprile, rumori allegri di carri. 
La mia superbia è caduta: mi striscio abbietto pei muri, 
non vive più del mio sogno nemmeno in me la memoria. 
Oh premer corpi flessuosi! cercar le forme dei seni, 
lisciare carni di rosa, morder con bocche anelanti, 
ghermir con avide mani, stordirsi sino alla morte! 
Ma non quest'ebete vita! questo rimpianto che rode, 
questo ronzare di gente che non discerno, e mi opprime! 
O vita! è tardi, io ti cerco con occhi già quasi spenti! 
Chi canta, suona? Mi scuote. Pare un lamento mortale... 
Qualcosa in me d'ineffabile, d'eroico gonfia dal cuore: 
è un coro, è un organo, è Wagner. Io canto i miei funerali 
dentro il mio cuore, ascoltando, mi intenerisco e mi esalto: 
sento che qualche gran cosa freme e trapassa con me. 

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)





APRILE
di Giovanni Lanzalone (1852-1936)

Ritorni, o amabile madre dei fiori,
con rosee nuvole, con erbe tenere,
madre dei teneri fecondi amori?

Ahi! ma a chi gli aurei doni di Venere
rechi? a chi il reduce riso dei fiori?
Per tutto è incendio mina e cenere.

D'innumerabili lutti e d'orrori
ulula e sanguina la terra immensa,
di pianto e d'odio son gonfi i cuori.

Tu calma, o placida, l'empia bufera:
tu giusta ai popoli pace dispensa:
sii tu dei secoli la Primavera !

(Da "Speranze umane", Guidetti, Reggio Emilia 1919)





APRILE 
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Per la strada fiorita 
Tornano al caro monte 
La greggia ed il pastore…

Alla svolta, sul ponte, 
Ti rivedrò, bel fiore, 
Cantando all’apparita.

(Da "Canti del salto e della tanca", Il Nuraghe, Cagliari 1924)





APRILE
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

È oggi la prima volta
Che le può aprire gli occhi,
L'adolescente.

Esiti, o sole?

Con brama schiva la bendi d'affanni

(Da "Sentimento del Tempo", Vallecchi, Firenze 1933)





APRILE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Quante parole stanche
mi vengono alla mente
in questo giorno piovoso d’aprile
che l’aria è come nube che si spappola
o fior che si disfiora.
Dentro un velo di pioggia
tutto è vestito a nuovo.
L’umida terra
mi punge e mi discioglie.
Se gli occhi tuoi son paludosi e neri
come l'inferno,
il mio dolore è fresco
come un ruscello.

(Da "Giorni in piena", Novissima, Roma 1934)





APRILE
di Olinto Dini (1873-1951)

Ecco: tra cori di rondini,
aprile, ritorni
inghirlandato di rose e di mammole
e di fioretti di pesco e di albaspina,
e, sorridendo agli antichi soggiorni,
voli per questa serena mattina;
e amore t'è insieme;
e la terra a voi freme.

Malinconia
gelida ho in cuore;
ma tu la soffi via
con baci di tepido odore.
O Aprile ridarello
che sei d'amore fratello
e nemico di tristezza,
ridammi giovinezza
di poesia.

(Da "Voci della mia sera", L'Eroica, Milano 1937)





APRILE IN RUGABELLA
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Quando a guardare l'orizzonte
Era il suono d'una tromba
La mia voglia di gridare,
Sentivo che la pietra
Era il mio cuore il sole
Rumoroso sulla guancia.
Più caro alla mia vita ora
Pensarmi solo a soffrire:
Più tardi quest'illusione
Passerà. A gran pena
Dispero della mia felicità,
Un giorno come questo ricco
Di squilli forti, un'ora
Piena di carità.

(Da "Vidi le Muse", Mondadori, Milano 1943)





APRILE-AMORE
di Mario Luzi (1914-2005)

Il pensiero della morte m'accompagna
tra i due muri di questa via che sale
e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo
di primavera irrita i colori, 
stranisce l'erba, il glicine, fa aspra
la selce; sotto cappe ed impermeabili
punge le mani secche, mette un brivido.

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo
che in un turbine chiaro porta fiori
misti a crudeli apparizioni, e ognuna 
mentre ti chiedi cos'è sparisce
rapida nella polvere e nel vento.

Il cammino è per luoghi noti
se non che fatti irreali
prefigurano l'esilio e la morte.
Tu che sei, io che sono divenuto
che m'aggiro in così ventoso spazio,
uomo dietro una traccia fine e debole!

È incredibile che io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo riconoscerci.
Ma è ancora un'età, la mia,
che s'aspetta dagli altri
quello che è in noi oppure non esiste.

L'amore aiuta a vivere, a durare,
l'amore annulla e dà principio. E quando
chi soffre o langue o spera, se anche spera,
che un soccorso s'annunci da lontano,
è in lui, un soffio basta a suscitarlo.
Questo ho imparato e dimenticato mille volte,
ora da te mi torna fatto chiaro,
ora prende vivezza e verità.

La mia pena è durare oltre quest'attimo.

(Da "Primizie del deserto", Schwarz, Milano 1952)





APRILE
di Adriano Grande (1897-1972)

Aprile: oh, rischiararsi
tanto atteso del tempo! Fuga alterna
d'ali nel cielo; sopra i vetri, e dentro
le stanze chiuse, gioco
continuo di riflessi
limpidi e caldi. In me, segretamente,
dacché son reso schiavo
della grigia vecchiezza,
non vivo che di questi
alimenti incorporei, gratuiti
e senza peso. Invento un'esistenza
tutta di madreperla che di luce
solamente si nutra.
                             E duri eterna.

[Da "Poesie (1929-1969)", Mursia, Milano 1970]





APRILE
di Umberto Bellintani (1914-1999)

Tu vivi il tempo di grazia dell'aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d'ali di quell'anatra smarrita,
un piccol sasso, un'inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m'allieta,
di come il male della vita qui s'apposta; 
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l'anima contrita,
se per l'azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l'upupa rara.

(Da "Nella grande pianura", Mondadori, Milano 1998)