giovedì 15 agosto 2013

Poeti dimenticati: Giuliano Donati Pétteni

Giuliano Donati Pétteni nacque a Bergamo nel 1894 e vi morì nel 1930. Precocissimo fu il suo esordio poetico che avvenne nel 1910 con la raccolta "Alba". Appena finito il liceo partì per la prima guerra mondiale dove si fece onore ma si procurò anche alcune ferite che col tempo si dimostreranno letali. Tornato dal fronte si laureò in lettere e, successivamente, professò l'insegnamento in alcuni licei della penisola italiana. Collaborò a vari giornali e riviste leterarie tra cui «Il Secolo» di Milano; pubblicò volumi di saggi e di poesie. I suoi versi attingono spesso dal materiale tematico dei crepuscolari e quindi mettono in luce l'animo profondamente malinconico dell'autore.



Opere poetiche

"Alba", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Primo vere", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Versi dorati", Tip. Conti, Bergamo 1916.
"Intimità", Zanichelli, Bologna 1926.







Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 358-359).
"Novissima antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, Quaderni di «Il Pensiero», Bergamo 1929 (pp. 141-143).



Testi

VENGO DA STRANE LONTANANZE...

Vengo da strane lontananze e ancora
riprenderò domani il mio cammino.
Da dove, verso dove? Ecco è vicino
forse il mio giorno e l'anima l'ignora.

Ma tu mi dici: "Della primavera
cogli le rose, è voluttà d'un fiore
la vita, ed abbandonati all'amore
poichè langue nei cuori una chimera.

Sorridi. La speranza un nuovo giorno
dischiude, credi al sogno che s'implora;
l'amor accogli quando fa ritorno:
nulla è perduto e non passata è l'ora."

Ma tace in me placato ogni desio,
e guardo, là, sul fiume della vita,
in disparte, pel mare dell'oblio
degli uomini la triste dipartita.

E nulla chiedo. Al cuore non bisogna
più nulla. In me s'è spenta la passione
e dolce m'è questa rassegnazione
d'anima che non piange e che non sogna.

(Da "Intimità")

sabato 10 agosto 2013

Il disfacimento nella poesia italiana decadente e simbolista

Si può ben dire che il decadentismo si fondi sull'idea di un graduale e inesorabile disfacimento della civiltà; Paul Verlaine mise in versi questo concetto in una poesia intitolata Langueur (pubblicata su una rivista letteraria nel 1883):

Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole.
L'anima solitaria soffre di un denso tedio.
Laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Oh, non potervi, così debole nei miei lenti desideri,
oh, non volervi fiorire un po' quest'esistenza!
Oh, non volervi, non potervi un po' morire!
Ah, tutto è bevuto! Batillo, hai finito di ridere?
Ah, tutto bevuto, tutto mangiato! Più nulla da dire!
Solo, una poesia un po' sciocca da gettare nel fuoco,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi trascura, solo,
una noia di chissà cosa che vi affligge!

Il poeta si identifica con l'impero romano nel momento della sua fine, che avviene in modo lento, stancamente; tutto ciò riflette il modo di pensare diffuso in quel determinato periodo (all'incirca l'ultimo quarto di secolo dell'Ottocento). C'era, allora, l'impressione che tutta una civiltà fosse o stesse per giungere al suo capolinea; da questa idea, i cosiddetti decadentisti posero le basi della loro attività letteraria, tutta pregna di un senso di disfacimento descritto e assaporato con sorprendente compiacimento. Tale situazione nasceva dal convincimento che, così come avvenne alla fine dell'impero romano, quando una civiltà è sul punto di scomparire si esprime al suo massimo in eleganza e in raffinatezza. Ecco allora spiegata la presenza di numerosissimi paesaggi, personaggi, luoghi e situazioni i quali, sia in versi che in prosa, vogliono rappresentare quel famoso disfacimento. In Italia tale tendenza si sviluppò con qualche decennio di ritardo, e fu esaltata soprattutto dai poeti crepuscolari.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "La siesta", "Il liuto vano", "L'ultima ghirlanda", "Disperata" e "L'ultimo dono" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inverno" in "Poesie complete" (1912).
Diego Angeli: "Minacce" e "Lamento di una sera di decembre" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Carlo Basilici: "Il Convito" in «La Vita Letteraria», gennaio 1905.
Umberto Bottone: "La povera gioia" in "Corde ai fianchi" (1910).
Giovanni Camerana: "È tardi, è tardi: l'ombra è intensa..." in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Il gesto" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "A mia sorella" in "In umbra" (1899).
Carlo Chiaves: "Invernale" in "Tutte le poesie edite e inedite" (1971).
Guelfo Civinini: "Motivo stanco" in "L'urna" (1900).
Sergio Corazzini: "Chiesa abbandonata" in "Dolcezze" (1904).
Sergio Corazzini: "Rime dell'inverno" in «Marforio», novembre 1904.
Corrado Corradino: "Hora mala" in "Su pe 'l calvario" (1889).
Adolfo De Bosis: "Ala caduca" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La caduta del campanile" in "Voci" (1903).
Luigi Donati. "La fine" in "Poesia di passione" (1928).
Giuliano Donati Pétteni: "L'Estate defunta" in "Intimità" (1926).
Vincenzo Fago: "Addio!" in "Discordanze" (1905).
Diego Garoglio: "La veglia" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Verso le morte cose" e "Il funerale" in «Nuova Antologia», luglio 1906.
Corrado Govoni: "Rassegnazione angosciosa" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni "Aegri somnia" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Nirvana" in "Medusa" (1890).
Achille Leto: "Naufragio" in "Piccole ali" (1914).
Giuseppe Lipparini: "Paolina" e "Il frutteto" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "La Ballata delle Dame della Foglia" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Remo Mannoni: "Sonetto simbolico" in «La Stella e L'Aurora Italiana», aprile 1905.
Tito Marrone: "Desolazione" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Speranza" in «Rolando», ottobre 1907.
Fausto Maria Martini: "Meditazione" in "Le piccole morte" (1906).
Pietro Mastri: "Addio" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Guido Milelli: "Canzonetta disadorna" in "Settimana Artistica Letteraria", febbraio 1908.
Mario Morasso: "Del giorno estremo della terra" in "Sinfonie luminose" (1893).
Nicola Moscardelli: "In nero" in "Abbeveratoio" (1915).
Pier Ludovico Occhini: "Sans trite" in "Biscuits de Sèvres" (1897).
Luigi Orsini: "Ultima estate" e "Una fine" da "Canti delle stagioni" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Vittoria" in "Poemi" (1909).
Francesco Pastonchi: "Canzone antica e nuova" in "Il pilota dorme" (1913).
Yosto Randaccio: "Crepuscolo di cielo e d'anima" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Vesperi latini" in "Le fiaccole" (1905).
Emanuele Sella: "Fuor della vita" in "Monteluce" (1909).
Giovanni Tecchio: "Moriente octobre" in "Mysterium" (1894).
Diego Valeri: "Pagina di diario" e "Lied" in "Umana" (1916).
Remigio Zena: "La pace" in "Olympia" (1905).



Testi

VERSO LE MORTE COSE
di Cosimo Giorgieri Contri

Vidi l'ultime rose
fiorir l'ultimo clivo;
lento, assorto, io salivo
verso le morte cose.

L'odore, a quando a quando,
m'inviava un addio:
indugiava il mio
cuore, rammemorando.

Pure, io pensavo: Affretta;
ogni olezzo è fugace,
è nell'alto la pace:
ascendi: ella ti aspetta!

Io salivo, io salivo
verso le morte cose:
e più rade le rose
si facean sul declivo.

L'anima si chetava
in silenzio. Ogni vano
sogno era già lontano:
ogni desìo passava

sul mio capo, con volo
d'uccel che migra al norte:
verso le cose morte
io salivo: ero solo.

(Da «Nuova Antologia», 1° luglio 1906)

sabato 3 agosto 2013

Agosto in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Agosto, ottavo mese dell'anno, rappresenta l'estate ai suo massimi livelli di caldo. In tali giorni molte persone smettono di lavorare e vanno in ferie. Tra queste, la gran parte abbandona per un periodo che può essere più o meno breve, la sua abitazione e i luoghi che frequenta per il resto dell'anno, cercando in un luogo ospitale, incantevole e lontano, un relax ed un benessere di cui non può godere rimanendo a casa. In queste dieci poesie, però, si parla d'altro: emergono ricordi precisi, sensazioni e meditazioni che scaturiscono dal trascorrere dei giorni di questo mese estivo, che nei suoi ultimi giorni mostra già qualche traccia dell'autunno prossimo a venire, ormai tutt'altro che lontano. Segna in tal modo la massima espansione della calda stagione ed anche il suo imminente declino.


PIOGGIA D'AGOSTO
di Guido Gozzano (1883-1916)

Nel mio giardino triste ulula il vento,
cade l’acquata a rade goccie, poscia
più precipite giù crepita scroscia
a fili interminabili d’argento...
Guardo la Terra abbeverata e sento
ad ora ad ora un fremito d’angoscia...

Soffro la pena di colui che sa
la sua tristezza vana e senza mete;
l’acqua tessuta dall’immensità
chiude il mio sogno come in una rete,
e non so quali voci esili inquiete
sorgano dalla mia perplessità.

«La tua perplessità mediti l’ale
verso meta più vasta e più remota!
È tempo che una fede alta ti scuota,
ti levi sopra te, nell’Ideale!
Guarda gli amici. Ognun palpita quale
demagogo, credente, patriota...

Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? l’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!...

Lotte brutali d’appetiti avversi
dove l’anima putre e non s’appaga...
Chiedi al responso dell’antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l’indaga!»

Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichène ed il macigno
essa parla del suo fine benigno...
Nata di sé medesima, assoluta,
unica verità non convenuta,
dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone
la giovinezza mia squallida e sola;
e l’achenio del cardo che s’invola,
la selce, l’orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personæ,
hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s’acqueta
in visïoni pallide fugaci,
per altre fonti va, per altra meta...
O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

(Da "I colloqui", Treves, Milano 1911)





SERA D'AGOSTO
di Giovanni Descalzo (1902-1951)

Stanno alla fonda le barche
leggere su l'acqua ondulante;
ferve di un solo riflesso
giallo-arancione il Tigullio!
Non è più giorno,
non è ancor sera,
l'indugiar della luce ora sembra
l'ampia scia del sole scomparso.
Oh incerto chiarore
del lento giorno d'estate;
oh senza tumulti di fiamme
tramonto d'agosto!
Beatitudine nuova s'effonde
dalla tua calma sapida
di fervidi succhi vitali,
che fanno del sangue
un dolce rivo tepido:
alimento di sogni perenni.
D'ogni figura
che in questa luce s'intaglia,
non scorgi che un nero profilo,
e due pescatori sul bordo
di una barca che oscilla nel golfo
paion viventi polene.
Nella quiete perfetta
tutto si fonde e si placa.
Soltanto l'anima emigra
e vaneggia nell'ansia,
essa che già precorre
turbandosi, il domani.

(Da "Risacca", All'insegna della Tarasca, Genova 1933)





FINE D'AGOSTO
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Dal sentiero
dove si apparta
dal mare aperto
la ritrosa campagna,
vedo al tramonto
vaghi colori
di brevi incanti terreni
sui monti violacei lontani.
Echi di clàcson
(perché mai così dolci)
si striano nell'aria
e vi affondano morbidi,
echi rispondono
dal cuore che pronto si desta
dall'arido sonno
del giorno,
e già si son tese nel cielo
gracili braccia,
bianche vene,
certo amorose
nel trasalire dell'ora.
Dall'arcaica campagna
del remoto sentiero
dov'è solo arsa verdura,
il tramonto che, appena
acceso, in cenere spegne
il fasto delle sue luci,
è un cupo fiore selvatico
che prova il ritegno
di spandere un suo
a cuto e raro profumo.

(Da "Dal vivere", Testa, Bologna 1939)





28 AGOSTO...
di Arnaldo Beccaria (?-?)

Bianco qual cigno il vaporetto doppia
il breve molo. Il velo
che agitava l'estremo tuo saluto
anche è scomparso.
E questa colma rigogliosa luce
che allacciò i nostri slanci, e li assumeva
alle dorate aree del sogno,
ora m'è vuota, estranea come quella
di un silenzioso fiordo.

(Da "Adamo", Edizioni della Cometa, Roma 1942)





LUNA D'AGOSTO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Al di là delle gialle colline c'è il mare,
al di là delle nubi. Ma giornate tremende
di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo
si frammettono prima del mare. Quassù c'è l'ulivo 
con la pozza d'acqua che non basta a specchiarsi,
e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.

E si leva la luna. Il marito è disteso
in un campo, col cranio spaccato dal sole
- una sposa non può trascinare un cadavere 
come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po' d'ombra
sotto i rami contorti. La donna nell'ombra
leva un ghigno atterrito al faccione di sangue
che coagula e inonda ogni piega dei colli.
Non si muove il cadavere disteso nei campi
né la donna nell'ombra. Pure l'occhio di sangue
pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.

Vengono brividi lunghi per le nude colline
di lontano, e la donna se li sente alle spalle,
come quando correvano il mare del grano.
Anche invadono i rami dell'ulivo sperduto
in quel mare di luna, e già l'ombra dell'albero
pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.

Si precipita fuori, nell'orrore lunare,
e la segue il fruscìo della brezza sui sassi
e una sagoma tenue che le morde le piante,
e la doglia nel grembo. Rientra curva nell'ombra
e si butta sui sassi e si morde la bocca.
Sotto, scura la terra si bagna di sangue.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





UN 30 AGOSTO
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Si vide subito che si metteva bene:
eventi macroscopici nessuno,
il sole ad un passo da settembre
diede la prima razione
alle isole di fronte,
il mare mandò lampi di freschezza,
il caldo soltanto fra tre ore,
un immenso celeste, ancora un giorno
per l'uva e gli altri frutti di stagione,
tra i pochi rumori di paese
l'ossigeno sibilando disse
di non farcela più con quel suo cuore.
Di primo mattino la morte di mia madre.

(Da "Qualcosa di preciso", Scheiwiller, Milano 1961)





FERRAGOSTO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca vola e va 
dal bambino rimasto in città.
Chi va al mare ha vita serena 
e fa i castelli con la rena,
chi va ai monti fa le scalate 
e prende la doccia alle cascate… 

E chi quattrini non ne ha? 
Solo solo resta in città:
si sdrai al sole sul marciapide,
se non c’è un vigile che lo vede,
e i suoi battelli sottomarini
fanno vela nei tombini.

Quando divento Presidente
faccio un decreto a tutta la gente;
«Ordinanza numero uno:
in città non resta nessuno;
ordinanza che viene poi,
tutti al mare, paghiamo noi,
inoltre le Alpi e gli Appennini
sono donati a tutti i bambini.

Chi non rispetta il decretato
va in prigione difilato».

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1961)





LA STRADA FUORI PORTA
di Lucio Piccolo (1901-1969)

La strada fuori porta,
e ogni anno agosto
alza fanali d'afa, e accende
la festa sui portali della chiesa
in archi, in pali, le luminarie gialle,
verdi, blu, agita nacchere, trombette
di cartone, dondola barconi
di rosse frutta ferite... poi cadono
dai balconi fiori di carta, l'ultimo
palco rimbomba al martello
che lo disfà a tratti,
già sono le foglie inquiete;
ogni anno fa ritorno
la festa, e la stagione tarda
in zone di svanito rosa,
ai margini del giorno
ferma siepi di bruno viola.
Ma nella chiesa, se scendo
tre gradini, sopra lastre di tombe
dove non giunge l'esitare dei ceri
ognuna ne l'informe
papavero confitta,
vedo l'anime in fuoco:
distorti volti, braccia
levate verso nuvole e colombe...
                                 nel profondo
del tempo e dei tramonti
lo sguardo si fermò sul fuoco
estremo, poi altrove si volse;
ma dove andava, brune
macchie, seguivano le vespertine
figure di brace e d'angoscia...

(Da "Plumelia", All'insegna del pesce d'oro, Milano 1967)





AGOSTO SFONDA L'ORIZZONTE
di Nico Orengo (1944-2009)

Agosto sfonda l'orizzonte.
E fa male guardare il volo
indeciso del rondone:
lo riporta in terra l'odore
bianco del fico, una rete che
imbriglia la sua sete di andare
là, dove il mare si appresta a curvare.

(Da "Cartoline di mare", Einaudi, Torino 1984)





SERA D'AGOSTO
di Giuseppe Raimondi (1898-1985)

Erano queste le ore.
Nessuno parlava. Ero
uscito per camminare
nel cortiletto. Rientravo
nella stanza. Mi riempiva
il tuo respiro. Non
udivo altro suono.
Si contavano i minuti.
Qualcuno disse: Sono
le nove. Poi il silenzio
di ogni cosa. Rimase
il mio gelsomino
nelle tue mani.

(Da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1999)