giovedì 29 gennaio 2015

Poeti dimenticati: Mario Vugliano

Nacque a Vestignè, in Piemonte, il 9 marzo del 1883. Laureatosi in legge, si interessò di giornalismo e di letteratura; divenne redattore-capo del quotidiano La Perseveranza e pubblicò suoi scritti su varie riviste di inizio Novecento. Scrisse qualche romanzo, un libretto d'operetta e, in collaborazione con Egidio Possenti, anche un'opera teatrale. Non pubblicò mai in volume le sue poesie, seppure la rivista Riviera Ligure, nell'ottobre del 1904, avesse annunciato a breve l'uscita di un libro intitolato: Prima del sole. Morì nel 1964.


Testi

LA CAMPANA

Fievole or sì, or no, mi reca il vento
nell'ombra vespertina una lontana
soave e mesta voce di campana
singhiozzante in un tremito d'argento.

Dan, dan, dan... forse vien da un convento:
la suona un frate nella chiesa vana;
forse romba sui monti qualche frana,
nel mondo giacque qualche umano spento.

Dan, don, dan, don..., pietà, pietà, Signore,
per quei che cadde vinto nella guerra,
pace, pietà per quei che nasce o muore.

Tutto il divino bene che rinserra
soavemente l'urna del tuo cuore,
sparga, o Signore, sopra questa terra.

(Dalla rivista: "La Riviera Ligure", ottobre 1904)

mercoledì 28 gennaio 2015

La poesia ironica e malinconica di Pompeo Bettini

È certamente da annoverare tra i migliori poeti del secondo Ottocento italiano, il nome di Pompeo Bettini, nato a Verona nel 1862 e vissuto quasi sempre a Milano, dove è morto nel 1896. Povero, malato fin dall'adolescenza e senza affetti per buona parte della sua esistenza, lavorò come correttore di bozze presso l'editore Sonzogno. Si interessò di politica e aderì al socialismo. Pubblicò i suoi versi in un volume uscito nel 1887, in collaborazione con l'artista Attilio Pusterla. Altri versi ancora, alcuni dei quali erano usciti su riviste dell'epoca, furono stampati in un libro edito l'anno successivo alla sua morte. Bettini fu anche egregio prosatore, drammaturgo e traduttore, ma è indubbio che come poeta egli diede il meglio di sè; ciò è dimostrato pure dal fatto che alcuni illustri intellettuali italiani si interessarono alla sua opera in versi: Benedetto Croce per esempio, che mezzo secolo dopo la sua dipartita pubblicò un volume che raccogliesse tutte le sue poesie. Considerato da alcuni quale prosecutore della poetica scapigliata, da altri anticipatore di certo crepuscolarismo, Bettini fu sicuramente poeta ironico, a volte malinconico e contemplativo; più raramente polemico e impegnato. Forse i suoi versi migliori sono proprio quelli in cui emerge una sincera disperazione, dovuta sia alle precarie condizioni fisiche, sia ad una tendenza spontanea verso la tristezza (in questo preciso contesto indimenticabili sono le sue Liriche di primavera)Chiudo riportando, dapprima l'elenco delle opere poetiche di Bettini, quindi un elenco di antologie che comprendono i suoi versi, infine tre liriche fra le mie predilette.    



Opere poetiche

"Versi e acquerelli", Quadrio, Milano 1887.
"Poesie", Brigola, Milano 1897.
"Le poesie", Laterza, Milano 1942.
"Poesie e prose", Cappelli, Bologna 1970.





Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 268-269)."Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. I, pp. 93-101).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 169-171).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 47-49).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp.1009-1025).
"Poeti della scapigliatura", a cura di Mario Petrucciani e Neuro Bonifazi, Argalia, Urbino 1962 (pp. 273-281).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 105-113).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 743-752).
"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (volume secondo, pp. 1927-1940).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp.1152-1160).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 26-27)
"Dio borghese", a cura di Adolfo Zavaroni, Mazzotta, Milano 1978 (pp. 125; 218-219).
"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1978 (pp. 281-289).
"Poeti italiani dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 465-471).
"Poeti del riflusso", a cura di Rina Gagliardi, Savelli, Roma 1979 (pp. 57-58; pp. 67-68).
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 303-318).
"Dagli scapigliati ai crepuscolari", a cura di Gabriella Palli Baroni, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000 (pp. 338-380).




Testi

I. NELLA VALLE SONORA MANCA IL GIORNO

Nella valle sonora manca il giorno,
giran le nubi per le cime intorno.
Io salgo al cimitero.

Coi bracci aperti disperatamente
le croci chiaman nell'ombra crescente
al loro amplesso fiero.

Saltan gli insetti per il cupo verde,
fischia un convoglio, e nel sasso si perde:
la nebbia stende il velo.

Io guardo ai monti che mi dicon forte:
Ama d'un sol amor fino alla morte,
e guarda spesso in cielo.


Porta la data: Wassen, agosto 1885 e fu quindi scritta nella località svizzera dove il poeta stava trascorrendo le vacanze estive. Riguardo al verso 8, ecco cosa scrisse il grande critico Luigi Baldacci nell'antologia Poeti minori dell'Ottocento: Wassen è un villaggio del cantone di Uri nel cui territorio corrono le gallerie elicoidali della ferrovia del Gottardo.





II. A UN TRATTO LE CAMPANE

A un tratto le campane
che annuncian mezzodì
mi dan voglia di piangere.
Quando le udii cosi?

Stamane m'ero alzato
con la mente serena,
ma poi sempre il passato
idee tristi rimena.

Oh che pensiero amaro
è quello di morire!
T'amo come un avaro,
o mio corto avvenire!


Questa è la settima delle dieci Liriche di primavera uscite per la prima volta sulla rivista Vita moderna nel marzo del 1892. Furono poi ristampate in Poesie, Brigola, Milano 1897 e in tutte le successive raccolte poetiche di Bettini.  È uno dei componimenti in cui si ravvisa di più la poetica dei crepuscolari; c'è una percezione della morte prossima a verificarsi, che in qualche modo ricorda certi versi di Guido Gozzano.





III. LE MIE BRACCIA SON GREVI

Le mie braccia son grevi
come rami coperti dalle nevi,
la mia faccia è severa
e fisso gli occhi nella primavera.

Cammino a passo lento,
guardo le cose ad una ad una, e sento
invadermi un languore
ch'è senza oggetto, ma sarebbe amore.

Il vento soffia e rade
i viali e le strade;
i fiori delle piante, fecondati,
lascian cadere i petali sui prati,

e nuvole grandiose,
senza tinte scherzose,
viaggiano nel cielo a somma altezza,
sospese in una frigida purezza.


È l'ottava Lirica di primavera in cui si palesa sia un amore fortissimo nei confronti della natura, sia una fatica di vivere, sottolineata già nei primi versi da una pesantezza corporea e una predisposizione dell'animo alla rigorosità (quest'ultimo concetto è evidenziato dal verso 3: la mia faccia è severa), sia una velata consapevolezza di vivere in una realtà indifferente e distante (come dimostra l'ultimo verso in cui le nuvole sono viste sospese in una frigida purezza). 

domenica 25 gennaio 2015

Due poesie di Paolo Buzzi

Accanto al più conosciuto Paolo Buzzi: poeta impetuoso, ribelle e propenso agli esperimenti, ve n'è un altro ben diverso, quasi contrastante col primo. È un uomo meditativo, che sembra a volte rattristarsi per ciò che non è successo e che poteva succedere; altre volte i suoi versi evidenziano un rimorso per dei comportamenti istintivi sbagliati, che lo hanno posto ai margini della società. Certamente Buzzi non è stato mai vicino alla poetica dei crepuscolari, come successe invece ad altri futuristi, ma esistono anche nei suoi versi delle tristezze e delle malinconie che qua e là affiorano, ed è quindi facile metterle in evidenza, come ho fatto riportando queste due poesie. La prima proviene dalla raccolta Aeroplani, del 1909, ed è uno dei volumi poetici più importanti del movimento futurista; la seconda appartiene al Poema dei quarantanni (1922), che è una sorta di autobiografia in versi di eccezionale valore. Sono due poesie bellissime, che meritano nuova attenzione, così come la merita il poeta, troppo sbrigativamente etichettato e considerato soltanto nell'ambito del movimento futurista.


Paolo Buzzi (Milano 1874 - ivi, 1956)



I BIMBI

Quasi più non vivo coi bimbi.
Quasi, li ignoro.
E quelli ch'erano bimbi con me
perdon le chiome o imbiancano, han già le lunghe barbe.
E molti bimbi fecero.
Io, bimbi, no. I miei fratelli, pure,
son orfani di figli. Stagna il mio sangue
come gora fra sassi alti, nel continuo torrente della vita.

Amo, senza invidiarli, i bimbi.

Io non so se m'amino. Uno s'appressa
al pianoforte ov'io suono Danze Macabre sovente.
E mi guarda come si guarderebbe un Dio. Un'altra
(bella come l'amore che non s'incontra)
mi siede sulle ginocchia, quando scrivo,
e mi domanda - Tu scrivi alla Madonna?

Innocenze. Son figli

di stranieri. Nulla so
de' lor sangui, de' lor sogni: donde vengano,
chi li aspetti.
Entrano dalla mia porta aperta sempre.
E se ne vanno con qualche chicca in bocca.
Certo han le madri giovani. Ed io le fuggo
per non dar loro fratelli adulterini.
Lui m'ha chiamato - Zio! - ieri.
Lei, domani, può chiamarmi - Nonno! -
Sentono che son vecchio.
E, in fondo, già mi burlano
per tale. Se mi vedessero cadere nel fango, in istrada,
sarebbe un'altra risata, come pel vecchio Parini.
Ed io m'avrei quel tema per un'altra Ode.
Tutto ciò è un poco triste.
Ma non bisogna uccidersi, per questo. Anche i bimbi
diventano vecchi, a giorno a giorno.

(da "Aeroplani", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1909, pp. 159-160)





MISANTROPIA

Non amo gli uomini.
Nessun male profondo mi fecero
ché nessun male, pur lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia mia è di sfuggirli.
Pagherò questo capriccio da sultano.
Morrò senza due righe di commento alle gazzette
assai simile all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno delle meraviglie,
io che veramente avrò vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi nei cantoni. Il buio
in solitudine mai m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte, ai testi. Per ciò
credo alla futura e eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli uomini dimenticati.

(da "Poema dei quarantanni", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1922, pp. 346-347) 

martedì 20 gennaio 2015

Chiamò il mio cuore...

Chiamò il mio cuore, una mattina chiara,
con profumo di gelsomino, il vento.

- In cambio di questo aroma,
tutto l'aroma delle tue rose voglio.
- Non ho rose; fiori
nel mio giardino non ne ho più: sono tutti morti.

Porterò via il lamento delle fonti,
le foglie gialle e i petali appassiti.
Fuggì il vento... Il cuore sanguinava...
Anima mia, che hai fatto al tuo povero orto?




COMMENTO

Poesia di Antonio Machado (1875-1939) che possiede caratteristiche prettamente crepuscolari. In una bella mattina luminosa il poeta, che probabilmente si trova nel suo giardino, percepisce l'arrivo improvviso del vento che porta con sé un gradevole odore di gelsomino. Quindi, sorprendentemente e segretamente, il vento comincia a parlare rivolgendosi all'anima (il cuore) del poeta e gli propone una sorta di baratto: in cambio del suo aroma vorrebbe il piacevolissimo odore delle rose del suo giardino. Ma il poeta confida al vento l'impossibilità di un simile scambio, essendo il suo giardino completamente arido e, quindi, senza alcun fiore profumato. Si ripropone però di portare via le foglie ingiallite e i petali appassiti che coprono il suolo. Però il vento non prende in alcuna considerazione il tentativo del poeta e se ne va, lasciando quest'ultimo nella più completa desolazione (il cuore sanguinante). L'ultimo verso, che ne ricorda un altro famosissimo di Paul Verlaine, è insieme una domanda ed una triste constatazione: il poeta infatti chiede alla propria anima il motivo del suo inaridimento, il perché di una situazione esistenziale che non trova più alcun motivo per sperare e gioire, rimanendo assolutamente indifferente e inerte a qualsiasi spinta vitale.    

Morire...

Morire... Cadere, goccia
di mare, nel mare immenso?

O essere chi non fui mai:
privo dell’ombra e del sogno,
un solitario che avanza
senza una via, senza specchio.



COMMENTO

Pochi versi nudi e crudi del grande poeta spagnolo Antonio Machado (1875-1939). Da quanto scrive, l'autore sembra si trovi ad un bivio esistenziale che non lasci alcuno scampo: scegliere la morte o la vita. Ma ambedue le scelte sono dolorose e non portano a nulla di buono: la morte perché rappresenterebbe la fine di tutto e l'inizio di un vuoto, un nulla paragonato ad una goccia d'acqua che cade nel mare. La vita perché continuerebbe ad essere qualcosa di falso e di desolante, come il fare una lunga strada senza compagnia e senza speranza, che, come è naturale, porterebbe, dopo lunga fatica ed agonia, alla morte.

domenica 18 gennaio 2015

"Il purosangue" di Massimo Bontempelli



È cosa certa che, nella illustre carriera letteraria di Massimo Bontempelli (Como, 1878 - Roma, 1960) la poesia ha una importanza marginale. Eppure i suoi esordi dimostrano un interesse quasi esclusivo per la lirica, anche se poi Bontempelli ripudiò le numerose opere in versi che pubblicò nei primissimi anni del XX secolo, le quali, pure se non posseggono grandi qualità, influenzarono in parte qualche poesia dell'amico Guido Gozzano. L'unico volume di versi "salvato" da Bontempelli è Il purosangue. L'ubriaco, uscito nel 1919, in un periodo in cui lo scrittore lombardo si era da poco stabilizzato a Milano e aveva trovato il modo di avvicinarsi alquanto al futurismo. L'opera, come si evince dal titolo, è divisa in due sezioni: la prima vede la presenza di poesie molto vicine alla corrente letteraria fondata da Marinetti, ma non lontane da certo surrealismo e, come hanno indicato alcuni illustri critici, dalla metafisica (che è una scuola prettamente pittorica). La seconda parte vede delle poesie il cui argomento è la Grande Guerra, alla quale Bontempelli partecipò; l'aria che vi si respira è però del tutto differente da quella dei versi ungarettiani che uscirono negli stessi anni; in L'ubriaco (e il titolo parla da solo) l'autore sembra sdrammatizzare e addirittura ridicolizzare l'evento bellico e persino la sofferenza del soldato che vi partecipa.
La prima edizione de Il purosangue. L'ubriaco uscì presso l'editore Facchi di Milano nel 1919. Una prima ristampa del volume si ebbe nel 1933 (La Prora, Milano). Infine, nel 1987, è stato l'editore Scheiwiller in Milano a riproporre nuovamente i versi di Bontempelli.
Ingiustamente poco ricordata da critici, saggisti e autori di antologie poetiche del '900, l'opera poetica di Bontempelli fu premiata da Pier Vincenzo Mengaldo, che la inserì nella severa selezione della famosa antologia Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978.


giovedì 15 gennaio 2015

Antologie: "Le notti chiare erano tutte un'alba"



Penso che l'antologia Le notti chiare erano tutte un'alba, curata da Andrea Cortellessa e pubblicata da Bruno Mondadori nel 1998, sia un'opera unica nella sua fattispecie; vi sono selezionate e raccolte infatti le poesie italiane che hanno come tema la "Grande Guerra", ovvero il primo conflitto mondiale del XX secolo che ci vide coinvolti direttamente. A quanto ne so, erano già state pubblicate antologie che avevano come argomento portante la guerra, o che mettevano in risalto gli scritti di poeti morti in un evento bellico, ma nessuna di esse può essere equiparata a questa. Qui si possono leggere sia i famosissimi versi di poeti importanti come Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Umberto Saba ed altri ancora, sia quelli di scrittori oggi dimenticati (Vittorio Locchi, Carlo Stuparich, Vann'Antò, Manlio Dazzi per citarne alcuni), che però, negli anni successivi alla fine del conflitto, ebbero il loro momento di notorietà. Da notare che, famosi o sconosciuti, quasi tutti questi poeti furono coinvolti direttamente nella guerra di trincea e in parte vittime del fuoco nemico. L'antologia si avvale di una prefazione di Mario Isnenghi ed è divisa nelle seguenti sezioni (tutte presentate e commentate):

Antefatto - La guerra attesa
La guerra-festa
La guerra-cerimonia
La guerra-comunione
La guerra-percezione
La guerra-riflessione
La guerra lontana
La guerra-follia
La guerra-tragedia
La guerra-lutto
La guerra ricordata
Post factum - La guerra postuma

Come si può capire dai titoli delle sezioni presenti, il curatore ha voluto inserire separatamente, in modo più cospicuo ed efficace possibile, le emozioni, le speranze, i sentimenti, le sensazioni, le meditazioni, i rimpianti, le rabbie, i dolori e i ricordi provati direttamente o indirettamente dai poeti che combatterono o videro combattere la Grande Guerra. Fa eccezione l'ultima poesia (di Andrea Zanzotto) il cui contenuto spiega come possa sentirsi e quali pensieri possa avere chi, dopo molti anni dalla fine del conflitto, visita i luoghi dove si svolse la 1° Guerra Mondiale e osserva le sepolture dei soldati caduti.
Ecco infine i nomi dei poeti che sono presenti in questa originale antologia.



LE NOTTI CHIARE ERANO TUTTE UN'ALBA

Corrado Alvaro, Bruno Aschieri, Giulio Barni, Carlo Betocchi, Ugo Betti, Bino, Binazzi, Giovanni Boine, Massimo Bontempelli, Giuseppe Bottai, Paolo Buzzi, Ferdinando Caioli, Dino Campana, Francesco Cangiullo, Mario Carli, Carlo Carrà, Giovanni Comisso, Primo Conti, Silvio Cremonesi, Auro d'Alba, Gabriele D'Annunzio, Manlio Dazzi, Lionello Fiumi, Luciano Folgore, Carlo Emilio Gadda, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Piero Jahier, Vittorio Locchi, Curzio Malaparte, Biagio Marin, Filippo Tommaso Marinetti, Fausto Maria Martini, Armando Mazza, Francesco Meriano, Eugenio Montale, Nicola Moscardelli, Luciano Nicastro, Giacomo Noventa, Arturo Onofri, Nino Oxilia, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Clemente Rèbora, Umberto Saba, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro, Ettore Serra, Ardengo Soffici, Sergio Solmi, Carlo Stuparich, Enrico Thovez, Trilussa, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Vann'Antò, Andrea Zanzotto.




venerdì 9 gennaio 2015

I fantocci nella poesia italiana simbolista e decadente

Fantocci, manichini, burattini e marionette sono personaggi usuali soprattutto nei versi dei poeti crepuscolari; in genere vogliono significare una totale assenza, da parte dei corpi umani, di un'anima, uno spirito vitale che li distingua dai semplici oggetti. Come dice Camillo Sbarbaro nella sua prosa poetica Ai fantoccini meccanici, essi rappresentano e sono la "vita" che, composta soltanto da esseri inanimati, vuoti e ridotti a cose, perde qualsiasi significato, viene svilita, ridotta a pura meccanicità in tutte le sue espressioni.



Poesie sull'argomento

Massimo Bontempelli: "Attaca, bimbo, quattro fili" in "Il purosangue. L'ubriaco" (1919).
Gustavo Brigante-Colonna: "Come mi sento allocco" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).
Enrico Cavacchioli: "Tragedia di burattini" in "Cavalcando il sole" (1914).
Sergio Corazzini: "Dialogo di Marionette" in "Libro per la sera della domenica" (1906).
Federico De Maria: "Fantocci" in "La Ritornata" (1932).
Marco Lessona: "Chiamata" in "Versi liberi" (1920).
Tito Marrone: "Il manichino" in «Vita letteraria», marzo 1907.
Nicola Moscardelli: "Burattinata sentimentale" e "La lettera del burattino" in "Abbeveratoio" (1915).
Aldo Palazzeschi: "Il castello dei fantocci" in "I cavalli bianchi" (1905).
Guido Pereyra: "Canto Sesto" in "Il Libro del Collare" (1920).
Camillo Sbarbaro. "Ai fantoccini meccanici" in "Trucioli" (1920).
Aurelio Ugolini: "Marcia funebre d'una marionetta" in "Viburna" (1905).



Testi

ATTACCA, BIMBO, QUATTRO FILI
di Massimo Bontempelli

Attacca, bimbo, quattro fili
agli estremi d'un'anima sensitiva.

Così. Tira un filo poi l'altro:
vedi alza un piede poi l'altro
si drizza si muove va.

Cammina impettita - scatta.
Quanti angoli - acuti
ottusi - puntuti.
Anima matta.

Allenta quel filo: si china.
Spingila in mezzo, pigia:
apre le braccia come se fosse in croce.

Le giunture scricchiolano
ma l'anima va imperterrita
i membri si stirano
i pezzi si contorcono
ha fatto un giro come un acrobata.

S'è un po' schiantata? non importa
sembrava vera.
                             O vedi vedi gli occhi
piange? ma è vera?
non importa è solo d'anima

su bambino, via i giocattoli
e a letto, se no non si cresce.

(Da "Il purosangue. L'ubriaco")