venerdì 30 giugno 2017

"Il sol meridiano spietato percorre la terra": l'estate in venti poesie italiane pubblicate tra il 1880 ed il 1899

Sarebbe bello tornare indietro nel tempo e vivere un'estate di fine Ottocento: senza automobili, inquinamento, cementificazione selvaggia e tutto ciò che ha fatto arrivare il nostro tempo al limite della tollerabilità. Ecco allora venti poesie che parlano delle estati di oltre cento anni fa. Ecco le calde notti luminose che spingono perfino i morti a resuscitare per vivere un incanto fuori dal normale; ecco le partenze verso isole lontanissime, sconosciute e incontaminate, dove vivere una vita da sogno; ecco le tempeste estive che non fanno paura, ma portano, una volta passate, un quanto mai gradevole refrigerio; ecco altre notti limpide e fresche, col cielo pieno di stelle e una luna fantastica, che invita i giovani ad amarsi; ecco spiagge di una bellezza unica, quasi deserte, popolate soltanto dalle famiglie dei pescatori; ecco un mondo che non c'è più né tornerà, fotografato dai versi dei poeti che vissero quell'età remota e meravigliosa (ma non manca l'altro lato della medaglia, che fa risaltare la sofferenza umana dovuta all'eccessiva calura estiva; d'altronde, l'umanità ha sempre sofferto sia in inverno che in estate per il troppo freddo o per il troppo caldo: eventi naturali inevitabili che però, oggi, sembra che stiano peggiorando per colpa di certe abitudini umane).



NOTTE D'ESTATE
di Corrado Ricci (1858-1934)

Per l'aria bruna
viandante nero,
il piede lento
come la luna,
sì come il vento
presto il pensiero,
   insino a giorno
a la sua lieta
casa d'intorno,
fosco poeta
   io vagherò.

   E forse dorme
quella gentile.
Il tenue lino
mostra le forme
del suo divino
corpo sottile
   e sovra un bianco
braccio riposa
il capo stanco
come una rosa
   che il sol baciò.

   Veglia? — Di luce
un filo d'oro
dal suo balcone
vivo traluce.
O mia passione,
o mio tesoro,
   cos'hai nel core?
Forse i miei canti
pieni d' amore,
stelle filanti,
   onde del mar?

   Forse ammalata
di febbre lenta
gemi nel letto?
La tosse ingrata,
il bianco petto,
dì, ti tormenta?
   Deh, m'assicura
l'ave-maria
mi fa paura;
d'un'agonia
   il suon mi par!

   O mio tesoro,
o mia passione;
sul ciel d'argento
le nubi d'oro
vagano al vento.
Vieni al balcone
   che splende il giorno
e a la tua lieta
casa d'intorno
fosco poeta
   m'aggiro ancor.

   Vieni; la via
deserta è ancora;
senti passione
de l'alma mia,
il tuo balcone
già si colora;
   de l'alba l'ore
sono fugaci...
torna al mio core,
torna ai miei baci,
   torna al mio amor.

(da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)




CANDIDA NOX
di Remigio Zena (1850-1917)

Candida notte luminosa e strana!
Il cielo pare uscito di bucato
          per man degli angioli.
Volando se ne vanno in carovana
nella nube del peplo immacolato
          le sante vergini.

La bella notte fra le notti belle!
Versa la luna il latte de' suoi raggi
          a perpendicolo.
In tanta luce muoiono le stelle
ed albeggia là in fondo sui villaggi
          quasi un crepuscolo.

Pare una nevicata. È tutta argento
del cimitero l'erba vittoriosa;
          le stesse lapidi
sono più bianche, tremolano al vento
innaffiati dell'onda luminosa
          i mirti e i salici.

Sulle ardesie del tetto la cappella
ha il suo lenzuolo anch'essa, giganteschi
          vi si riflettono
i cipressi che fanno sentinella,
del campanile gli strani rabeschi
          e i geroglifici.

Ed i corvi che aleggian sulle tombe
mutano nel virgineo luccichio
          le pénne d'ebano,
si fanno bianchi e sembrano colombe,
sembran colombe mandate da Dio
          sui freschi tumuli.

Candida notte! non ne vidi alcuna
mai come questa somigliante al giorno,
          silente e mistica.
Uscite, o morti, al bacio della luna
che i suoi tesori va spargendo intorno
          per i cadaveri.

Lì, dove siete non c'è alcun che pianga
la vostra sorte, regna sotto terra
          freddo e caligine.
Non temete d'uscir - giace la vanga
del becchin che cantando vi rinserra;
          ei dorme - io v'evoco!

Uscite, uscite! il buio è nella fossa
ma qui piovono i raggi a larga falda
          Come al meriggio.
Uscite, uscite a ritemprarvi l'ossa
nel benefico latte, in questa calda
aria di luglio.

(da "Poesie grigie", Tip. de' Sordo-Muti, Genova 1880)




AFA
di Augusto E. Berta (1855-1923)

Il sol meridiano spietato percorre la terra,
non un soffio di vento commuove a l'intorno le piante,
che immobilmente stanno, coperti di polvere i rami,
con le foglie appassite, pendenti da l'aride frondi,
in un rorido sogno assorte di fresche rugiade,
come colubri immani scaldanti a la sferza del sole
i lor gelidi corpi, si volgono a spire le strade;
s'abbandonano lunghe, serpeggiano, avvinghiansi ai fianchi 
delle montagne, svelte s'aggrappano ai cigli scoscesi,
e con aridi balzi, audaci s'avventano al cielo,
il cielo è un ampio stagno di plumbei vapori biancastri,
che a torrenti infuocati rovesciansi sovra la terra.
E la terra risponde con vampe rabbiose di foco.
Tutto è un vasto silenzio. - I bovi meriggiano inerti,
assorbendo la vita con lunghi, con larghi respiri.
Trafelato, ansimante il cane abbandonasi al suolo.
Non àn gridi gli augelli, che appiattansi nelle boscaglie,
nelle fonde boscaglie, opache di densi fogliami.
Di qui, delle persiane protetto dal verde riparo,
nella stanza raccolta, io sento nel cranio il sollione:
sento il pensier languire, nel sangue affocato mi sento
fluir l'accidioso desio del nulla infinito.
Come in sogno assopito fantastico assurde chimere.
Oppresso... estenuato ascolto il ristagno di vita
che domina a l'intorno, ascolto il silenzio universo.
Unico qui mi giunge un suono d'incudin percossa
con faticoso ritmo dal fabbro là giù nel villaggio.
Triste nota di vita! - Però ch'io penso quel fabbro
anelante, sudato, in faccia a l'ardente fucina,
per l'amor de' suoi figli, chiedenti affamati del pane,
duellante col ferro, a colpi di maglio sonanti
di metallici squilli, in un'atmosfera di fumo 
e di scintille densa... intanto che noi domandiamo,
con gioia epicurea, a suono di birra gelata,
al vellutato amplesso d'un molle divano profondo,
alla penombra mite d'un fresco e tranquillo studiolo,
domandiamo ristoro dall'afa che il petto ci opprime!

(da "Cadenze", Casanova, Torino 1883)




MEZZOGIORNO
della Contessa Lara (1849-1896)

È colma estate. Piegasi
languente ogni corolla.
Mezzodì. La canicola
da le infocate vie caccia la folla.

De ’l tuo veron le seriche
tende, o mia bella, chiudi;
sciogli le chiome, e scendano
qual bruno vel su i bianchi omeri nudi.

Poi blandamente m’agita....
La tua fronte pensosa
io sfiorerò, qual tremula
farfalla intorno ad un bocciuòl di rosa.

E le dipinte imagini
che ti porto davanti,
come per incantesimo
a poco a poco si faran giganti.

De l’oriente a l’isole
fra la luce e i profumi
ti condurranno: è l’oasi
vagheggiata da’l sol, da vati e numi.

Là vagherai su pallidi
laghi, entro una barchetta
da le vele di porpora;
poi di negra montagna in su la vetta.

Ti siederai su mobili
d’avorio e di corallo,
passeggerai co’ sandali
sotto un gran parasole azzurro e giallo.

Accanto a ’l ciglio pingerti
saprai la linea bruna
che fa l’occhio più languido:
nuvola in cerchio a la fulgente luna.

Vedrai fior, frutta ed alberi
nuovi, con mostri e nani,
e draghi alati ed idoli,
armi ricche di gemme e uccelli strani.

M’agita ancora, m’agita....
È de l’alma un bisogno
questo d’una fantastica
ora d’oblio, di voluttà, di sogno.

Chi sa, che l’ali afforzino
in quel dolce far niente
gli angeli ascosi e i demoni
che popolan de gli uomini la mente.

(da "Versi", Sommaruga, Roma 1883)




CHARITAS
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Da la febbre consunto, a la cocente
vampa di luglio, senza pan né tetto,
dal suo signor, da l'ospital rejetto,
su la via cade il mietitor morente.

Fra le labbra riarse, in su le spente
pupille ronza l'importuno insetto,
mentre, qual sega in sordo asse stridente,
scote il rantolo il giallo, ossoso petto.

La cucciola di Zoe passando rigna
impaurita; con gentil costume
l'adesca a sé la vaga donna, e ghigna.

Ma la ribelle animaletta intanto
si fa core, s'accosta a quel cenciume,
e stille schizza che non son di pianto.

(Da "Giustizia", Giannotta, Catania 1883)




SOGNO
di Edoardo Giacomo Boner (1864-1908)

Io sogno, amica, un bel giorno d'estate
un lido verde, uno splendido mar;
io m'abbandono a quell'onde odorate
e vo lontano lontano a sognar.

Sull'isolette ridenti all'aurora
è un bisbiglio di perenni verzier;
il molle flutto ne freme, n'odora,
e in calma olente s'addorme il pensier.

Io sogno; e ad onde una musica viene
larga dal mondo remoto laggiù,
da mille genti che cantan serene
alla natura, e non soffrono più.

Io sogno; e un'aura di pace che mai
godetti al mondo, mi penetra il cor;
ché un sogno i fiori, e le musiche, e' rai,
e un sogno, un sogno d'estate è l'amor.

(da "Novilunio", Quadrio, Milano 1884) 




TEMPESTA ESTIVA
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

Ruggon le nuvole giù nel ponente
torve su l'onde,
di lampi avvampano ciel, lago e sponda
tutto in un bianco baglior dispare,
in un corrente, fumante mare

che vien mugghiando con alto pianto,
che a furia avanti
si caccia i verdi fiotti spumanti,
giunge, ci è sopra. Qui tutto tace,
aspettan gli alberi tremando, giace

deserto il lago. Vetri ed imposte
chiuder perché,
o donna timida? Ira non è
che sul tuo tetto scroscia, che fugge
lungo le mura, che a pie' vi rugge.

Furor di vita, furor d'amore
urta ed inverte
la terra e l'acque cupide, aperte,
con lati fremiti dal grembo anelo
a l'irruente desìo del cielo.

Apri, contempla. La tetra piova
fugge in levante
del sole al terso splendor davante,
la terra odora, le foglie brillano,
pel ciel le rondini in giro strillano,

e lenta, eguale su i lidi tuona
l'onda pacata,
tuttor superba, tuttor beata
del divin turbine che su vi corse,
vi urlò, vi rise, la strinse e morse.

(da "Valsolda", Casanova, Torino 1886)




È COSÌ CHE CONTEMPLO...
di Pompeo Bettini (1862-1896)

È così che contemplo questo bel cielo d'estate. 
Non son triste, ma volli punire il mio desir:
colla mano sul cuore, colle ciglia calate,
ho pensato al futuro, ho pensato al morir.

Io non tento di piangere, so che il raggio del sole
scioglie nelle mie lagrime i suoi sette color;
so che il sol ride sempre, anche se il destin vuole
ch'io presto chiuda gli occhi che vi bevon l'amor.

So che la terra ignora cosa le nasce in grembo
e protegge le vite che senza duol creò;
essa tien le radici delle piante se il nembo
scoppia, e ancor vi si attacca se il nembo le strappò.

So che nei mari azzurri, nella campagna verde,
nel biancheggiare stanco delle grandi città,
l'opera dei mortali è un rumor che si perde
e che poco ne giunge alle future età.

Poiché so di morire la mia scienza è compita:
nulla è per me il futuro e nulla quel che fu.
Quale speranza debbo domandare alla vita?
Quale mortal bellezza posso amare qua giù?

(da "Versi e acquerelli", Quadrio, Milano 1887)




DAVANTI UNA CATTEDRALE
di Giosue Carducci (1835-1907)

Trionfa il sole, e inonda
la terra a lui devota:
ignea ne l’aria immota
l’estate immensa sta.

Laghi di fiamma sotto
i dòmi azzurri inerte 
paiono le deserte
piazze de la città.

Là spunta una sudata
fronte, ed è orribil cosa:
la luce vaporosa
la ingialla di pallor.

Dite: fa fresco a l’ombra
de le navate oscure,
ne l’urne bianche e pure,
o teschi de i maggior?

(da "Rime nuove", Zanichelli, Bologna 1887)




NOTTE D'ESTATE
di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937)

Su 'l talamo seduta ella abbandona
dietro il collo di lui le bianche braccia:
ei la cinge tremando alla persona
e da lei pende con accesa faccia.

Limpida in ciel sorge la luna, e versa
un molle albor tra le cortine alzate:
dorme la strada nel silenzio immersa;
ma la vasta armonia susurra: - Amate.

Dalla finestra vien la brezza, e 'l petto
scopre superbo della donna bianca:
ella dolce sorride al giovinetto,
ch'a' piedi suoi di desiderio manca.

Corron le nubi candide a occidente
orlate d'un chiaror diffuso e biondo,
e le torme de' sogni ondeggian lente
con un rumore fievole e profondo.

Gonfio il cor di dolcezza, ella rimira
il suo diletto, e 'l nero crin gli tocca;
poi, felice e anelante, a sé l'attira
e, folle di piacere, lo bacia in bocca.

Silenziose trasvolando l'ore
via per la notte tiepida d'estate,
piovon sensi di calma e di sopore;
ma la vasta armonia susurra: - Amate.

(da "Le Occidentali", Triverio, Torino 1887)




SPIAGGIA ADRIATICA
di Armando Perotti (1865-1924)

Venti casette bianche, addormentate
nel meriggio d'agosto: il mar le culla,
e veglia intorno la scogliera brulla,
arsa dallo scirocco e dalla state.

Due povere vecchiette accovacciate
rattoppano le reti; una fanciulla,
come può meglio, canta e si trastulla
fra le mobili dune arroventate.

Viene dal largo intanto una paranza
spinta a forza di remi, e via sull'onde
echeggia una canzon marinaresca;

una canzon che parla di speranza,
di mari ignoti, di lontane sponde,
di donne belle e d'amore e di pesca.

(da "Il libro dei canti", Vecchi, Trani 1890)




TEMPESTA
di Raffaele Salustri (1846-1892)

L'afa opprime: tormentano
l'aria le cupe
battaglie de' venti:
le nubi s'accavallano
intorno a la rupe.

  Mi chiami fra il turbine
o notte tempestosa?
O sol con la bronzea
voce de' tuoni
m'imponi
silenzio?
Notte gigante, investimi:
ti conosce il gagliardo
contemplator mio sguardo;
quanta armonia
fra me e la tua tenebra
piena di lampi,
fra il tuo muggito altisono
e l'anima mia,
che mai non riposa!
L'afa opprime: com'è lento
l'uragano!
Goccie gravi, calde stillano
fra gli alberi. Un istante
ancora; e contro al ciel s'avventerà
l'abisso ribelle;
e ululando, ruggendo
cozzeran ne lo spazio gl'invisibili
geni de le procelle.

  L'orecchio io tendo,
parmi, o là giù pe' campi,
di lontano,
s'ode un suon di passi rapidi,
come un accorrere di moltitudini,
ansanti, furibonde,
che s'avanzan ne l'ombre profonde?

  Ò sognato. È la pioggia,
che stride su la polvere.
Balena la folgore,
e non illumina
che solitudini.

(da "Poesie", Artero, Roma 1891)




AFA
di Ada Negri (1870-1945)

Il sole sta. Sta l'aura
d'atomi d'or cosparsa.
L'erma pianura immobile,
tutta di foco e polve,
Nella luce si avvolve
                   Arsa.

L'afa morta, implacabile,
pesantemente piomba.
Ne la tristezza flammea
posa la terra stanca,
come un'immane e bianca
                   tomba.

.... Pace — Sognante vergine
assetata d'amore,
chino il riarso calice
sotto la vampa afosa,
un'appassita rosa
                   muore.

Rugiade invoca e pioggie
quell'agonia pel suolo;
la dolcezza d'un bacio,
la voluttà d'un'ora,
per chi soffre e lavora
                   solo.

Ma tutto brucia e sfolgora,
tutto è riposo e oblìo;
nell'alidor terribile
sopra la terra ignava
solennemente grava
                   Dio.

(da "Fatalità", Treves, Milano 1892)




SOGNO D’UNA NOTTE D’ESTATE
di Arturo Graf (1848-1913)

Si distende la notte alta e tranquilla
sovra i liguri poggi e sul tirreno
addormentato mar: vibra e sfavilla
d’infinite fiammelle il ciel sereno.

Io dormo, e sogno, e veggo a poco a poco
schiudere il grembo e coronar lo stelo,
accesa in dolce ed amoroso foco,
una gran rosa nel profondo cielo.

Il suo lume le quete ombre dirada,
e sulle foglie tenere e novelle,
come gocce di limpida rugiada
per l’azzurro seren piovon le stelle.

E pel seren, dall’inesausto grembo
del mar fremente di secreti amori,
tumultuando, turbinando, un nembo
sale di vaghi e coloriti fiori.

Sale dall’onde a mo’ di fluttuosa
nube che pel diffuso etra si spanda,
e ruota, e intorno a quell’eccelsa rosa
forma di vive gemme una ghirlanda.

E nel cor della rosa, ove più chiare
ridon le grazie del vermiglio riso,
simile a un astro sfolgorante appare,
Cara adorata, il tuo giocondo viso.

(da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)




NELL'OMBRA ESTIVA...
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Nell'ombra estiva e nel vasto silenzio
par che vigili un glauco occhio amoroso
sovra il mio capo. Erran serene imagini,
persuadendo a' miei sensi il riposo,
   come ai fior la pacata ala del vespero.

Sei tu! Dolci parole e voci inconscie
la bocca semichiusa a te sussurra;
e parmi d'affondar la testa languida
in un fresco guancial di seta azzurra
   pieno di fior di pesco e fior di mandorlo.

(da "Alma natura", Zanichelli, Bologna 1894)




ROMANZA DEL MERIGGIO D'ESTATE
di Lucio D'Ambra (1877-1939)

Ne'l bosco insonnolito
cantavan le cicale;
il mare sotto il sole
era un grido trionfale:

e un alito di vento
sorrideva da 'l mare
a 'l folto bosco intento
ne 'l sol canicolare.

Fervea ne la campagna
la buona opra de 'l pane;
ed oravano i Vecchi
ne 'l mietere. (Lontane

strideano le cicale)
Ricordate, signora?
Su l'opra liberale
calda pesava l'ora.

Gloriosa cavaliera
voi passaste ne 'l sole:
io perseguii la candida
imagine ne 'l sole.

Ricordate, Signora,
quel meriggio infocato?
Io vi rivedo ancora
superba su 'l ferrato

polledro - il viso volto
verso il mare fulgente...)
Su 'l limite de 'l bosco
vi guardavo ridente.

Il bel cavallo bianco,
cadde su l'erba verde;
- forse era troppo stanco! -
Ricordo ancora: perde

la staffa il vostro piede;
e cadete riversa
su la verde erba fresca.
Voi vi vedeste persa.

Io venni a Voi: ricordo
il gesto de le mani,
Io venni a Voi; ricordo
i desideri insani

che mi presero a 'l grido
di piacer che le labra
mandaron ne 'l vedermi.
Oh, quelle vostre labra!

Ed io ricordo il gesto
de le mani minute;
anche rivedo il mesto
viso; anche le volute

gaiezze de 'l bel viso,
più bianco d'ogni bianco;
(piovevano viole
sotto il bell'occhio stanco).

E ben ricordo i primi
moti de 'l vostro labro;
e non ricordo i primi
bagliori de 'l cinabro

sparso su la rotonda
gota; e non i sorrisi
vostri; ma non mi scordo
li sguardi su me fisi.

Voi parlavate: intento
bevevo le parole;
(ora ne 'l cielo spento
cadevano viole)

Io non vi dissi: v'amo?
Ricordo il vostro riso;
non udii la risposta,
non vidi che il sorriso.

Oh, bel fiore di serra!
Ricordate, signora?
pesava su la terra
pomeridiana l'ora.

(da "Le sottili pene", Tip. De Andreis, Alatri 1896)




PATRIA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Sogno d’un dì d’estate.

Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.

Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate

in tutto il ciel turchino.

Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbïatrice,
l’angelus argentino...

dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.

(da "Myricae", Giusti, Livorno 1897)




SERA GRIGIA
di Marino Marin (1860-1951)

Come or, mai non compresi, o grigia sera
di luglio, il pianto e il tedio de le cose:
mi par che con le tristi ultime rose
tue manchi la mia triste primavera

ultima. Oh crepitii di foglie rôse,
lo so lo sento: è larva di ciò ch'era
speranza il vacuo sogno a chi dispera:
crea l'estro: il senno poi fa le sue chiose.

E pure amano i sogni ne l'estive
sere affacciarsi all'anima che pensa:
co' suoi morti la stanca anima vive;

stolta, ché il sano amor, la forte intensa
vita oblìa tra oziose ombre lascive;
e nebbia intorno al picciol core addensa.

(da "Voci lontane", Barboni, Castrocaro 1898)




IDILLIO ESTIVO
di Angiolo Orvieto (1869-1968)

Fioriscon rose come a primavera,
come d'autunno cadono le foglie;
l'anima il gran silenzio estivo accoglie:
io sogno sempre da mattina a sera.

Sogna ella pur, da me poco lontana,
e a sera, quando schiude le finestre,
giunge a lei, come a me, nella campestre
pace un leggero tocco di campana.

Io sogno gloria e amore, quando ascolto
quel suono, ed ella sogna amore e amore;
scorrono a noi così placide l'ore
e la serenità ci splende in volto.

Quand'io mi sveglio in sul fresco mattino,
so che il mio nome le fiorisce in bocca
e che, senza pensare a me, non tocca
pur un fiore del suo vago giardino;

e ch'ella prega: "O Dio che a' freschi fiori
rinnovelli col sol luce e profumi,
concedi che giammai non si consumi
questo soave amor nei nostri cuori."

E a notte, quando all'aure leni estive
mi corico del dì stanco e contento,
non una volta sola m'addormento
senza pensare a lei che per me vive.

(da "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya", Treves, Milano 1898)




da AFRODITE ETÀIRA
di Mario Mazzolani (1877-1944)

Liquida sotto il cielo incandescente
la Burlamacca si stendeva accesa
come una rara fiorita gigliale,
e gravati parean da 'l luglio ardente
due crisòliti illustri ne l'opale
il monte dei Ceracci e quel di Quièsa.
Le forme, attorno, s'agguagliavan, lente,
penetrate da l'ora immateriale;

traboccavan le pòlle in indefesso
chioccolìo; pe i trifogli a la vallea
propagavasi un crepito sommesso:
tendean le orecchie i capri da 'l pianoro,
attoniti ne 'l sole che tessea
fra i boschi immoti la gran tela d'oro.

(da "La via trita", Soc. Ed. Lombarda, Milano 1899)




Plinio Nomellini, "Mezzogiorno"

sabato 24 giugno 2017

Poeti dimenticati: Raoul Dal Molin Ferenzona

Nacque a Firenze nel 1879 e morì a Milano nel 1946. Artista a tutto tondo (fu pittore, scultore, disegnatore, poeta e prosatore), lo stesso anno della sua nascita vide la scomparsa, per omicidio, del padre. Dopo una breve frequentazione dell'Accademia Militare di Modena, Dal Molin Ferenzona cominciò a spostarsi, per brevi periodi, in varie città italiane, approfondendo i suoi studi artistici. A Firenze conobbe il pittore Domenico Baccarini divenendone amico. A Roma, si avvicinò alla cerchia poetica di Sergio Corazzini. Nel contempo cominciò ad esporre e pubblicare i suoi lavori artistici (soprattutto disegni); si dedicò, quindi, anche alla scrittura e in particolare alla poesia, pubblicando un primo volume (versi e prose) nel 1912. Verso il 1918 entrò in una sorta di crisi mistica che lo spinse verso l'esoterismo; ciò è dimostrato anche da alcune opere di questo periodo in cui sono presenti sia poesie che disegni. Questa tendenza verso l'occultismo andò ad aumentare cogli anni; nel frattempo iniziarono a peggiorare le sue condizioni di salute (fu ricoverato in un ospedale psichiatrico di Roma). Negli ultimi anni della sua vita continuò a vagabondare da un luogo all'altro, fino alla morte.
Le sue poesie e le sue prose poetiche si possono dividere in due fasi ben distinte: la prima mostra la vicinanza dell'artista toscano al crepuscolarismo e al simbolismo; la seconda è invece esclusivamente mistico-esoterica, con riferimenti continui alla dottrina dei Rosa Croce e ad altre religioni.



Opere poetiche

"La ghirlanda di stelle", Concordia, Roma 1912.
"Zodiacale", Ausonia, Roma 1919.
"A ô B (Enchiridion notturno)", Bottega d'Arte, Livorno 1923.
"Ave Maria!", Tip. Scuola Professionale Orfani di Guerra, Firenze 1929.
"Asha. Decade aurea", Società «Universa», Roma 1921.




Presenze in antologie
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 3, pp. 83-84).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (Tomo I, pp. 269-276).



Testi

GLI ULTIMI GIGLI

Ecco, la mia stanza
À l'aria di non respirar più
È senza speranza
Come una tisica gioventù!
Nella mia stanza non vi son più fiori
La sorte è sempre dura
Colei che li portava con tanta premura
Ogni dì le belle braccia ricolme come cornucopie d'avorio
È partita!
E per «addio» non m'à lasciato
Che un bouquet di gigli in agonia
Un bouquet disperato! L'ultimo!
E dove? dove a sera
Come in una preghiera
Affonderò la fronte, gli occhi, le labbra
Velati di cipria??
Non avrò più i miei gigli per la mia purificazione!
Ella è partita!! Bisogna convincersi!
Non più purificazione!
Va bene: stanotte porterò il mio cuore sulla
Riva del fiume e lo lascerò cadere in fondo
All'acqua nel fango! E da domani sarò libero
Anche di questo bisogno infantile di purificazione!

(da "La ghirlanda di stelle")



LIBRAQUE. ORAZIONE

  I miei piatti si bilanciano, o Altissimo: su quello di argento siede la Notte di cupo smeraldo, su quello di rame il Giorno mette la briglia al vitello paziente. Su quello d'argento un Angiolo de le Dominazioni pose le rose luminose del Mattino, su quello di Rame, un Angiolo dei Principati pose il mirto ombroso della Sera.
  Sull'uno il Cigno si raccoglie nel suo quieto candore, sull'altro il Corvo apre l'occhio de la sua interiore vitalità.
  Tra i girasoli alti e robusti gaie danze s'intrecciano nell'isola di Cipro ove Venere seminò con gesto musicale il primo arancio.
  Una società giusta e sapiente inadatta al lavoro fisico, ma dotata di maravigliose intuizioni, vive in positiva e sensitiva armonia di cordialità. Le loro labbra alte al bacio sono piene di grazia e ne l'opera artistica le loro belle mani esplicano un talento fine, modesto e impersonale.
  Essi t'inviano le loro preghiere di gratitudine poiché Tu ài concesso loro il privilegio de l'Armonia, ne l'analogia dei contrari, e la conoscenza percettiva e sensitiva ne la virtù di Vedanâ
  Con un fremito di ardore religioso io ti offro con simultaneo dono, o Pieno e Inafferrabile Archetipo, la cornucopia de le Promesse e quella ugualmente pesante de le Minaccie onde Tu voglia concedere agli uomini la Virtù Suprema dell'equilibrio.


(da "Zodiacale")

giovedì 8 giugno 2017

Fucilazione

Un bambino faceva le bolle di sapone
dalla finestra quando mi fucilarono
sulla piazza piantata di alberi senza nome,
una mattina deserta con poco sole
tra i rami secchi che non trattenevano le voci,
tra quinte grige d'imposte sprangate
oscillavano effimere formazioni, grappoli
subito disfatti in acini trasparenti.
Un bimbo, solo una tenera macchia viva
in un rettangolo nero,
c'era un vasetto rosso sul davanzale,
la sola cosa rossa di quel giorno tutto grigio,
io non potevo vedere i suoi occhi
sentivo la sua anima appendersi dondolando
in cima alla cannuccia di paglia,
staccarsi con un brivido, volare in silenzio,
trattenere il fiato per pregare il vento,
attraversare il poco sole in punta di piedi,
rapita in una smorfia di felicità.
I miei carnefici gli voltavano le spalle,
nessuno di loro poté vedere le sue mani
in adorazione, quando una bolla
più gonfia, la più bella di tutte,
partì dal davanzale come un pianeta di cristallo,
e prima di scendere salì verso il tetto
come una preghiera, come una favola
piena d’ogni dolcezza che non si può perdere,
intatta e vera per il suo tempo giusto,
non ci sono abbastanza plotoni di esecuzione
in questo mondo e ogni altro
per fucilare tutte le bolle di sapone.



Fucilazione è la ventesima poesia della sezione Materia prima appartenente al volumetto intitolato Il cavallo saggio. Poesie Epigrafi Esercizi (Editori Riuniti, Roma 1990), che raccoglie trentasei testi poetici di Gianni Rodari (Omegna 1920 - Roma 1980). L'autore, famoso scrittore per l'infanzia, quando uscì questo libriccino era già scomparso da dieci anni; in realtà, tutte le poesie dello stesso erano già state pubblicate sulla rivista Il Caffè, tra il 1961 ed il 1980. Sono, praticamente, quasi tutti i versi che Rodari ha dedicato al pubblico degli adulti. Nella bella prefazione al libro, Edoardo Sanguineti parla di influenze surrealiste, di parola che giuoca e di inclinazione favoleggiante. Leggendo queste poesie non si può negare che tutto ciò sia vero ed anche l'accostamento, sempre di Sanguineti, dello scrittore piemontese a Palazzeschi e a Lear mi pare indiscutibile.
La poesia qui riportata, come dice il titolo, ha come argomento una fucilazione e chi parla è colui che l'ha subita. L'uomo ricorda alcuni particolari di quella tragica mattina: la piazza dove è avvenuta l'esecuzione, gli alberi spogli, la scarsa luminosità, le imposte tutte sprangate, un grigiore diffuso su tutto l'ambiente circostante e l'assenza di persone, a parte quella di un bambino, affacciato ad una finestra di una casa poco distante dalla piazza, intento a fare delle bolle di sapone. Soltanto il condannato poteva vedere il piccolo (i soldati erano di spalle) estasiato da quelle sferiche formazioni che a grappoli volavano e quindi si disfacevano; quell'immagine rappresenta l'unica cosa lieta di quel drammatico momento. Tornando alla prefazione di Sanguineti, egli cita gli ultimi, indimenticabili tre versi di questa poesia e dice:


[...] le «bolle di sapone» sono, ad un tempo, emblema della vita che si innalza, con la sua splendida e inesauribile fragilità, e della favola, intanto, che la rispecchia con la sua iridescente leggerezza.

A ciò si potrebbe aggiungere che le bolle di sapone possono anche simboleggiare la fantasia umana, i cui voli troppo spesso infastidiscono determinate persone che detengono il potere; per tale motivo esse, non di rado, fanno di tutto per annientarla.