domenica 29 novembre 2020

"Medusa" di Arturo Graf

 

Non considerando, per la marginalità che la caratterizza, una sua raccolta giovanile, si può benissimo affermare che Medusa sia la prima e più importante opera poetica di Arturo Graf (Atene 1848 - Torino 1913). Uscì per la prima volta nel 1880, presso l'editore Loescher di Torino; ebbe una seconda edizione l'anno dopo, e una definitiva pubblicazione nel 1890 - sempre grazie al medesimo editore - che si arricchisce di molti testi poetici e di alcuni disegni dell'artista Carlo Chessa.

A proposito di questa raccolta, che personalmente ritengo sia la migliore del Graf, ecco un frammento pertinente scritto dall'illustre critico Luigi Baldacci, all'interno dell'antologia Poeti minori dell'Ottocento:

 

[...] Si è detto che le fonti del Graf devono essere individuate nei romantici tedeschi e in Leopardi: già per questo il suo esempio doveva restare isolato nell'ambito del proprio tempo e di conseguenza mal compreso. Ma l'accusa crociana di riflessione¹ è sproporzionata alla natura del Graf, e il suo stesso leopardismo, anziché ragionato nel segno del mito o dell'incatenante sillogismo, ci appare piuttosto filtrato attraverso le esperienze del Parnasse: cioè tragicamente intuito, anziché razionalmente dimostrato, e soprattutto affidato all'evidenza di una pittura immaginifica e talora scenografica (Baudelaire, Leconte de Lisle). Così al mito si sostituisce il simbolo, secondo una variazione decadentistica di quelle che potevano anche essere remote autorizzazioni leopardiane².

 

Ciò che emerge nei versi di Medusa è, quindi, un leopardismo contaminato dall'irrazionalità e dall'istintività propri di determinate correnti letterarie come il simbolismo e il decadentismo. E proprio a proposito di queste ultime, in un altro frammento significativo di Anna Dolfi, ovvero della curatrice della più recente riedizione di Medusa pubblicata cento anni dopo la definitiva (Mucchi, Modena 1990), dopo aver dimostrato che l'acuta disperazione esistenziale del poeta è attenuata soltanto da un'intima introspezione, si mette in risalto una delle caratteristiche fondamentali dei versi di questa raccolta: l'assidua presenza dell'acqua:

 

[...] Si arricchiva così, in questa possibilità, sia pur unica di salvezza, anche il topos dell'acqua, certo acqua nera dell'ultimo viaggio sul mare, ma anche acqua bianca di lago, acqua non solo della dispersione ma dell'effettuato o sognato annegamento, quasi acqua del primo specchio cui avevano teso Ofelia e Narciso nel tentativo vano di riappropriarsi di sé. L'acqua non sarà allora solcata soltanto da imbarcazioni mortuarie (il viaggio grafiano, d'altronde, è spesso, più che una simbolizzazione della morte, un'allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale), da navi guidate da vecchi marinai che ripetono senza sosta il mito dell'eterno non ritorno; sarà anche l'acqua/specchio/vetro capace di riportare alle origini attraverso le immagini catottriche che enigmaticamente risvegliano il passato trasmettendone i lontani lamenti. Sia pur facendo di quel passato di nuovo un regno di morti, ridestato attimalmente alla vita nell'«acqua cheta» di antiche specchiere («Come un'acqua cheta si riflette la stanza: / Sembra ogni cosa diafana e leggera, / vision di sogno, baglior di rimembranza») e riconsegnato al nulla dopo la ritessitura momentanea degli arazzi, la ricomposizione dei colori trecenteschi delle cacce disperate, coinvolgenti anche dame e cavalieri³.

 

Medusa è composta da un totale di 163 poesie; a parte le prime due, tutte le altre sono racchiuse in tre sezioni: LIBRO PRIMO (1876-1879); LIBRO SECONDO (1880-1881); LIBRO TERZO (1882-1889). Concludo riportando tre fra le migliori poesie di questa formidabile raccolta, estratte dalla riedizione di trent'anni fa (vedi foto sotto).

 

 


 

ACQUA CHIARA...

 

Picciol lago, che in mezzo

a questa valle e a questi sassi enormi,

d’ignota vena ti raccogli e dormi

dell’alte querce e de’ grand’olmi al rezzo;

 

sul margin tuo che in giro

tutto verdeggia solitario io seggo;

la stanca fronte con la man mi reggo,

lo specchio di tue pure acque rimiro.

 

Primaticce vïole

e verde timo fan l’aria fragrante:

in te la bianca nuvoletta errante,

e dall’alto del ciel si guarda il sole.

 

Intorno a te nereggia

silenzïoso il bosco; dalla frasca

la secca foglia vagolando casca,

e lieve sulla cupa onda galleggia.

 

Tra ’l verde, in dolce rima,

un usignol la primavera canta:

passano l’ore e d’ombre il ciel s’ammanta,

splende la luna ai negri sassi in cima.

 

Acqua chiara e tranquilla,

sul tuo margine io seggo; il ciel sereno

veggo in te rispecchiarsi, e nel tuo seno

dagli occhi miei piove un’amara stilla.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 12-13)

 

 

 

 

IL VASCELLO FANTASMA

 

Io lo vidi, io lo vidi! un mar di piombo

senza voce, senz’onda: in occidente

il sol morente insanguinava il cielo,

le bige nubi lacerando a strombo.

 

Io lo vidi, io lo vidi! i cupi abissi

venia premendo, procedeva stanco,

l’enorme fianco arrotondava al sole,

pareva un mostro dell’Apocalissi.

 

Laggiù, guardate! In ogni parte sua

negro lo scafo; avviluppata e nera

una bandiera penzola da poppa,

bieca si drizza una Medusa a prua.

 

Splendon vestiti di lucenti lame

gli alberi smisurati; per le nere

cave troniere luccicano in doppia

fila i cannoni di color di rame.

 

A prora, a poppa, in cima agli alti fusti,

ai gran canapi, su, stanno ammucchiati,

stanno aggrappati i cento marinai,

estenuati, pallidi, vetusti.

 

Il capitan coi cento marinai,

scrutando il cielo, investigando il morto

pelago, un porto invan spïando, il porto

sempre invocato e non raggiunto mai.

 

Così l’alto vascel naviga ed erra,

e se talor la nebbia all’orizzonte

simula un monte, stanco ed affannato

si leva il grido: Terra, terra, terra!

 

Ma breve error gli spiriti soggioga:

si dilegua il fantasma: orrida e grave

la negra nave in suo cammin procede,

e la Speranza dietro a lei s’affoga.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, pp. 68-69)

 

 

Disegno di Carlo Chessa presente nella 3° edizione di Medusa, relativo alla poesia Il vascello fantasma

 

 

L’ABETE SOLITARIO

 

Dalla trachite eccelsa, vestito di gramaglia,

il solitario abete smisurato si scaglia

       siccome un dardo nel profondo ciel;

tutto solo dell’Alpe sulla pendente balza,

dove più furïosa la tramontana incalza,

       dove più morde nel silenzio il gel.

 

Sott’esso uno sgomento di traboccate rupi,

d’irte lacche; di baratri caliginosi e cupi,

       e un confuso di prone arbori stuol;

sopr’esso in luminoso giro l’etere immenso

e le nuvole bianche via per l’azzurro intenso

       e sfolgorante nell’azzurro il sol.

 

Lontan, nella bassura, il solitario abete

vede colli ubertosi, vede pianure liete

       di messi e d’acque, di paschi e di fior;

vede come sognando, e tra le selci ignude,

in sua triste gramaglia più rigido si chiude,

       muto, superbo, nell’alpino algor.

 

(da "Medusa", Mucchi, Modena 1990, p. 194)

 

 

 

NOTE

1) Il celebre filosofo Benedetto Croce non lodò mai la poesia di Graf, così come un poeta che tutto sommato non si discostava molto dal suo intento poetico: Pompeo Bettini; fu proprio quest'ultimo che, in una rivista, etichettò in maniera negativa il Graf poeta, affermando, come riportò poi anche il Croce, che in esso dominava la "riflessione", ovvero un elemento identificabile in un bel difetto soltanto se si parla di prosa.

2) Dal volume: Poeti minori dell'Ottocento, Tomo I, Ricciardi, Napoli 1958, p. 1142.

3) Dal volume: Arturo Graf, Medusa, Mucchi Editore, Modena 1990, p. XVIII.

 

mercoledì 25 novembre 2020

Alba di novembre

 

Ai confini della città.

Quattro fanali dimenticati,

tutti soli e trasognati,

per la lunga strada vuota,

- due di qua due di là, -

sotto un cielo color di mota.

 

Su l'asfalto del pavimento

lustro come una cerata,

quattro sprazzi di livido argento.

 

Dentro l'aria addormentata

un lontano rotolamento

di carrozzone che se ne va.

 



 

Alba di novembre è il titolo di una poesia di Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 - Roma 1976); fu pubblicata come prima delle Canzonette milanesi, nella rivista La Diana del 25 novembre 1915; fu quindi inserita - col titolo più generico di Alba e con leggerissime varianti - nella prima sezione della raccolta Crisalide (Taddei, Ferrara 1919); successivamente ricomparve in tutte le raccolte ricapitolative dell'opera poetica di Valeri, fino alla definitiva Poesie (Mondadori, Milano 1962).

In questi versi del poeta veneto si ha una descrizione di visioni, sensazioni e impressioni, relative ad un'alba novembrina vissuta dal poeta stesso, in un luogo non ben precisato della periferia milanese. Ciò che focalizza l'attenzione di Valeri, in quel preciso momento della giornata, è la visione di quattro fanali situati in una zona isolata della città, ai margini di una strada deserta. Tale visione fa emergere l'estremo senso di solitudine che si respira in quel luogo abbandonato, ed anche un senso di malinconia, accentuato da quel "cielo color di mota", ovvero tra il grigio ed il marroncino, che si sovrappone e completa il paesaggio cittadino osservato dal poeta. Quindi, gli occhi di Valeri si indirizzano verso la parte più bassa di tale paesaggio, ossia il pavimento lucido come una tela cerata (probabilmente a causa della pioggia recente), e sui riflessi argentei della luce dei fanali, che somigliano a schizzi ("sprazzi") di argento freddo ("livido"), e che quindi contribuiscono non poco, in un contesto già assai desolato, ad aumentare la dose di rigidità che caratterizza quel preciso spazio. Chiude la poesia una percezione uditiva: il rumore lontano delle ruote di un carrozzone che si allontana, e che sembra quasi disturbare "l'aria addormentata" del luogo.

domenica 22 novembre 2020

Antologie: I poeti italiani della «Voce»

 

Prendendo in considerazione il primo ventennio italiano del XX secolo, è possibile affermare che la rivista politica e letteraria più importante e, direi, fondamentale nell'ambito del rinnovamento della cultura e della vita nazionale, sia stata La Voce. Nata a Firenze alla fine del 1908 con caratteristiche esclusivamente politiche, ben presto allargò i suoi orizzonti, dando spazio nelle sue prestigiose pagine ad articoli di eminenti economisti, filosofi, storici e critici; nello stesso tempo, il lettore affezionato ebbe l'opportunità di usufruire della presenza di prose e versi pubblicati dai migliori scrittori italiani dell'epoca (Papini, Saba, Govoni, Ungaretti, Cardarelli, Rebora, Sbarbaro ecc.). Il merito della creazione di un giornale così ricco qualitativamente e così variegato in quanto a discipline e tematiche trattate, va attribuito ai due direttori che si sono avvicendati alla conduzione de La Voce: Giuseppe Prezzolini e Giuseppe De Robertis, il primo dei quali, cercò sempre di far prevalere la parte politica nella struttura del giornale; il secondo, al contrario, diede spazio esclusivamente alla letteratura. Detto questo, aggiungo che fu il critico Enrico Falqui a curare una prima antologia che raccogliesse tutte le poesie pubblicate nella Voce; questa venne alla luce nel 1966, grazie anche all'editore Vallecchi. Trentadue anni dopo, il poeta e critico letterario Paolo Febbraro ne curò un'altra: I poeti italiani della «Voce» (Marcos y Marcos, Milano 1998), che in sostanza ripropone tutti i testi poetici susseguitisi all'interno della rivista fiorentina, fino al suo ultimo numero che fu pubblicato nel dicembre del 1916. Il motivo per cui questa rivista risulta determinante per ciò che concerne lo sviluppo della poesia italiana del Novecento, va rintracciato, oltre che nell'indubbia genialità dei poeti, per la loro capacità di contaminare l'estetica di Benedetto Croce con suggestioni esterne, in particolare con quelle scuole o correnti letterarie come il decadentismo e il simbolismo, che avevano già da anni impresso una decisa svolta alla struttura e ai temi della poesia francese, rinnovandola a tal punto da mescolarla con la prosa, dando il via così ad un concetto di liricità "pura" che va al di là e al di sopra di ogni schema. Grazie agli scrittori della Voce, anche in Italia tale rivoluzionario concetto trova spazio e dà i suoi migliori esiti, inaugurando quel "frammentismo" che sarà determinante, negli anni successivi, per la nascita di una nuova poesia italiana, e che infine sfocerà nell'ermetismo.

Come al solito, chiudo riportando i nomi dei poeti presenti in questa antologia.

 

I POETI ITALIANI DELLA VOCE

 


Giannotto Bastianelli, Giovanni Boine, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Carlo Carrà, Salvatore Di Giacomo, Corrado Govoni, Piero Jahier, Gian Pietro Lucini, Nicola Moscardelli, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Enrico Pea, Giuseppe Prezzolini, Clemente Rebora, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti.

martedì 17 novembre 2020

I gattici

 

E vi rivedo, o gattici d' argento,

nudi in questa giornata sementina:

e pigra ancor la nebbia mattutina

spuma dorata intorno ogni sarmento.

 

Già vi schiudea le gemme questo vento

che queste foglie gialle ora mulina:

e io che al tempo allor gridai «cammina»

ora gocciare il pianto in cor mi sento.

 

Ora, le nevi inerti sopra i monti,

e le stridule pioggie, e le lunghe ire

del rovaio che a notte urta le porte,

 

e i brevi dì che paiono tramonti

infiniti, e il vanire e lo sfiorire,

e i crisantemi, i fiori della morte.

 


 


Questo sonetto di Giovanni Pascoli l'ho trascritto dalla rivista Vita nuova del 17 novembre 1889. Con pochissime varianti (vedi foto in alto¹), entrò a far parte della raccolta più celebre del poeta emiliano: Myricae, a partire dalla seconda edizione che fu pubblicata nel 1892. Si tratta di una poesia malinconica, in cui Pascoli manifesta il suo pessimismo esistenziale. L'occasione è data dalla visione dei "gattici d'argento", ovvero dei pioppi bianchi, così chiamati perché presentano dei riflessi argentei nella parte inferiore delle foglie. La giornata, che il poeta definisce "sementina", è quasi sicuramente quella di un novembre inoltrato; ora gli alberi sono spogli, e il paesaggio è quello tipico autunnale, nebbioso, con il terreno pieno di foglie cadute. Queste immagini fanno sì che il Pascoli si lasci prendere da una intensa tristezza (e non a caso questa poesia fa parte della sezione intitolata Tristezze), e pensando agli alberi fioriti e rigogliosi che ricordava bene ai tempi della primavera trascorsa, medita sulle speranze e le illusioni giovanili (la primavera dell'umanità) e sulle rassegnazioni e le disillusioni dell'età matura (l'autunno dell'umanità); nelle due terzine del sonetto c'è una accurata descrizione della situazione climatica e meteorologica che contraddistingue il periodo dell'autunno già inoltrato: monti innevati; piogge frequenti e abbondanti (definite "stridule" nella versione in rivista e "squallide" nella raccolta citata); un forte vento di tramontana ("rovaio") insistente, che di notte fa sbattere le porte; e i giorni che, assai più corti e nuvolosi, sembrano dei lunghissimi tramonti a causa della scarsa luminosità che li caratterizza. Infine il poeta mette a confronto i tanti e colorati fiori della bella stagione ormai sfioriti e del tutto scomparsi, col crisantemo: tipico fiore autunnale che è facile trovare sopra le tombe dei cimiteri, soprattutto nel mese di novembre.

 

NOTE

1) La poesia ritratta dalla foto si trova alla pagina 132 del volume: Giovanni Pascoli, Poesie, Garzanti, Milano 1992 (XII edizione).

domenica 15 novembre 2020

La poesia di Umberto Saba

 Pur pensando che è del tutto inutile riaffermarlo, comincio col dire che Umberto Saba (Trieste 1883 - Gorizia 1957) è sicuramente uno dei migliori poeti italiani del Novecento. La sua poesia è stata ed è per me fondamentale, e se dovessi utilizzare tre aggettivi per meglio evidenziarla, la definirei "onesta", "limpida" e "autentica". A proposito del primo aggettivo, chi ben conosce l'opera letteraria dello scrittore triestino, sa quanto egli stesso si preoccupasse dell'onestà del poeta: qualità fondamentale per scrivere versi che rispecchino la "vera" anima di un essere umano. Nell'arco di un quarantennio che si dipana tra la prima raccolta, uscita nel 1911, all'ultima, che risale al 1951, Saba non ha mai mutato più di tanto il suo assai coerente criterio nello scrivere versi; nel Canzoniere che cominciò a curare già nel 1921, inserì le poesie vecchie e nuove, che formano una sorta di vicenda biografica ed esistenziale. Parlando sempre del Canzoniere, penso che i migliori esiti della poesia sabiana si trovino nelle tre sezioni intitolate nell'ordine: Casa e campagna, Trieste e una donna e La serena disperazione, e che, cronologicamente, corrispondono ai versi scritti nel secondo decennio del XX secolo. Qui il poeta triestino mostra in modo ineccepibile uno stile e una padronanza di scrittura difficilmente ritrovabile in altri poeti del suo tempo, soprattutto quando parla con intenso e appassionato amore della sua città natale, o quando si lascia andare a confessioni in cui esterna un malessere che lo accompagnerà per tutta la vita, e che ben presto sarebbe sfociato in una non lieve nevrosi. Bellissime sono anche le sue ultime raccolte, in cui emerge una maggiore tendenza alla sintesi e una malinconia propria di chi sente ormai vicino il termine della sua esistenza. Molti critici tentarono più volte d'inserire Saba in correnti e scuole letterarie, sbagliando clamorosamente. La sua poesia fa storia a sé, sia prendendo come riferimento il solo panorama italiano, sia quello europeo del XX secolo. Si può però affermare con certezza che il nostro ebbe dei punti di riferimento precisi, che vanno dal Petrarca al Leopardi, non escludendo altri esempi poetici di estrema importanza, provenienti da diversi paesi europei; determinate, per la scrittura di alcuni suoi versi, fu anche la lettura di filosofi e psichiatri come Nietzsche e Freud.

Concludendo, dopo aver elencato le opere poetiche da lui pubblicate in vita, trascrivo dal volume Tutte le poesie, tre stupende liriche di Saba.

 

 

Umberto Saba in un ritratto di Vittorio Bolaffio

 

Opere poetiche

 

"Poesie", Casa Editrice Italiana, Firenze 1911.

"Coi miei occhi (Il mio secondo libro di versi)", Libreria della Voce, Firenze 1912.

"Cose leggere e vaganti", La Libreria Antica e Moderna, Trieste 1920.

"Il Canzoniere 1900-1921", La Libreria Antica e Moderna, Trieste 1921.

"Preludio e canzonette", Edizioni di «Primo Tempo», Torino 1923.

"Figure e canti", Treves, Milano 1926.

"L'Uomo", Trieste 1926.

"Preludio e fughe", Edizioni di Solaria, Firenze 1928.

"Tre poesie alla mia balia", Trieste 1929.

"Ammonizione e altre poesie 1900-1910", Trieste 1930.

"Tre composizioni", Treves, Milano 1933.

"Parole", Carabba, Lanciano 1934.

"Ultime cose (1935-1938)", Collana di Lugano, Lugano 1944.

"Il Canzoniere (1900-1945)", Einaudi, Torino 1945.

"Mediterranee", Mondadori, Milano 1946.

"Uccelli", Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1950.

"Uccelli - Quasi un racconto (1948-1951)", Mondadori, Milano 1951.

"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994.

 

 

Piatto anteriore del volume: Umberto Saba, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1994

 

 

Testi

 

LA CAPRA

 

Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d'erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

 

Quell'uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

 

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 78)

 

 

 

 

CITTÀ VECCHIA

 

Spesso, per ritornare alla mia casa

prendo un'oscura via di città vecchia.

Giallo in qualche pozzanghera si specchia

qualche fanale, e affollata è la strada.

 

Qui tra la gente che viene che va

dall'osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l'infinito

nell'umiltà.

 

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d'amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s'agita in esse, come in me, il Signore.

 

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

più puro dove più turpe è la via.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 91)

 

 

 

 

DE PROFUNDIS

 

Io vivo... eppure sono un morto, sono

dentro un abisso; ed odo, ivi sepolto,

la vita che tra voi s’agita, il suono

 

della vita, ormai vano; odo la voce

mia che m’è nuova; può affissarmi in volto

l’amico, il mal ridirmi che gli nuoce,

 

ma dinanzi ha un’immagine mentita;

sorride, leva i miei occhi al suo viso

uno spettro quassù della mia vita.

 

Io giaccio; ed ho solo un pensiero, godo

solo un pensiero: sono morto, ucciso

da me in sì strano, in sì felice modo

 

che serbo ai cari miei la mia giornata,

anzi più mossa, più fattiva ancora,

ad opere di buon fine ordinata;

 

ed a me la mia notte senz’aurora.

 

(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994, p. 166)





mercoledì 11 novembre 2020

La fornace

 

Bambina, nelle sere di novembre

poi che sui monti c'era

la guerra

e la legna costava

assai – come il latte, come il pane –

e la nebbia pesava

gelida sulla terra,

la mamma mi portava

– per scaldarci –

alla fornace.

 

Riflessi di brace

tingevano l'androne nero:

rossa nel fondo

divampava

la cupola del forno.

Dall'alto un vecchio scagliava

fascine e fascine.

Giù i tegoli in cerchio

sembravano una ruota

immota

a cui fosse mozzo la fiamma.

 

Si arrossava

la creta al centro:

verde era ancora al margine

dove più lento

arrivava il calore.

Si sgranavano in uno stupore

d'incanto – le pupille bambine.

Il vecchio dall'alto scagliava

fascine e fascine.

 

Si ritornava

per l'androne nero

con un bruciore di vampa negli occhi.

Fuori, un'immensa fontana

nella nebbia lanciava

il suo getto bianco e faceva

rabbrividire.

La casa pareva

lontana,

la strada sembrava non finire

più. Era notte, era novembre,

sui monti c'era

la guerra.

 

16 settembre 1933

 



 

La fornace è il titolo di una poesia scritta da Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938) e la si può rintracciare nel volume La giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere, pubblicato dall'editore Scheiwiller nel 1995. All'interno di questo libriccino vi sono quattro sezioni; nella prima, alle pagine 32 e 33 (foto sopra), si trova la poesia che ho trascritto. Gli stessi versi, che fino a quel momento erano del tutto inediti, furono quindi inseriti nel volume Parole (Garzanti, Milano 1998) con tutte le poesie della Pozzi, edite e inedite.

Come si può intuire facilmente, in questi versi la poetessa fa rivivere un ricordo infantile, che appartiene agli ultimi anni della Prima Guerra Mondiale (1917 o 1918); era certamente un periodo molto difficile, più che mai per coloro che, soldati, combattevano al fronte; ma anche le famiglie rimaste nelle case, composte quasi esclusivamente da donne, anziani e bambini, dovettero affrontare anni di stenti e privazioni, proprio a causa del conflitto che si stava svolgendo. Il ricordo della Pozzi riguarda l'inizio della stagione invernale, che dalle parti dove nacque, coincide con la seconda metà di novembre. Il freddo che cominciava a farsi sentire in quei giorni, come dice la poetessa, spingeva la madre a recarsi insieme a lei presso una fornace non lontana dalla loro abitazione. Si trattava del luogo più vicino in cui era possibile scaldarsi, facendo scomparire del tutto la sensazione di gelo che era facile provare in luoghi totalmente privi di fonti di calore. La Pozzi, benché ancora molto giovane (quando scrisse questi versi aveva appena ventun'anni), è riuscita a creare un'atmosfera cupa e nello stesso tempo affascinante, descrivendo una situazione realmente vissuta da lei, sebbene in età infantile, avendo la rara capacità di farla rivivere in modo del tutto particolare: mostrandola così come a lei appariva allora, con i suoi occhi e con la sua mente di bambina; ecco allora profilarsi una serie d'immagini avvolte nel mistero, che sembrano far parte di un romanzo gotico, o di una favola terribile. Insomma, ecco un altro capolavoro poetico di una ragazza che aveva un talento straordinario e che, purtroppo, assai presto decise di andarsene da questo mondo.