domenica 28 aprile 2024

Poeti dimenticati: Térésah

 Corinna Teresa Ubertis (Térésah era il suo nome d'arte) nacque a Frassineto Po, in provincia di Alessandria, nel 1877, e morì a Roma nel 1964. Figlia di un colonnello, grazie alla madre che era particolarmente colta, iniziò ad interessarsi di letteratura; pubblicò la sua prima opera poetica a soli vent'anni; oltre ai versi, scrisse novelle, opere teatrali e romanzi destinati al pubblico infantile. Sposò lo scrittore e politico fascista Ezio Maria Gray. La sua carriera poetica somiglia, in parte, a quella di Ada Negri: accolte con entusiasmo di critica e di pubblico, sia la prima che la seconda raccolta di versi della poetessa piemontese, negli anni successivi la sua notorietà andò spegnendosi, fino ad essere praticamente ignorata e quindi obliata da un po' tutti i lettori di poesia, a partire dalla seconda metà del Novecento.

 

 

Opere poetiche

 

"Il campo delle ortiche", Tip. Capriolo e Massimino, Milano 1897.

"Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino-Roma 1904.

"Il libro di Titania", Ricciardi, Napoli 1909.

"Oriana e il saggio", Istituto Veneto di Arti Grafiche, Venezia 1909.

"Il cuore e il destino", Carabba, Lanciano 1911.

"Canzoncine", Bemporad e Figlio, Firenze 1918.

"Il libro di Titania", 2° ed. riveduta, Bemporad, Firenze 1921.

 

 


 

Presenze in antologie

 

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 460-461).

"La fiorita francescana", a cura di Tommaso Nediani, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo 1926 (pp. 270-271).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VII, pp. 179-195).

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 253-254).

 

 

 

 

Testi

 

 

 

GLI ANGELI

 

  Gli angeli, nel mio sogno, ànno sorriso

l'ultima volta in una estasi antica

quando il Beato l'immortal fatica

sortì di laudare il paradiso.

 

  Gli angeli nel mio sogno ànno sul viso,

ora, la morte dell'umana gioia

e ne cinge pietà sola le fronti.

Da i celesti giardini alcun reciso

stelo non è che tra lor dita muoia;

del canto inaridirono le fonti.

Guardano, immoti, ai pallidi orizzonti

se mai li varchi un'amorosa suora

che lasci il pianto nella sua dimora

e rechi loro un'ombra di sorriso…

 

(da "Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino-Roma 1904, p. 96)

 

 

 

 

UNA COSA

 

Povera cosa finita

nel rigagnoletto,

che eri? in cima al tetto

un'ala intirizzita?

una teluccia di ragno?

un soldatino di stagno?

o il magico balocco

fatto di carta e di fede

che il bimbo povero vede

vogare sul mare, sul mare?

 

Fors'eri la cosa pesante,

l'inutile cosa pesante

di cui ci si disfà.

Fors'eri la cosa più bella,

l'inutile cosa sì bella

di cui ci si disfà.

Il sogno che voga, che voga,

il desiderio che affoga

nel limo come in un mare,

mare senza immensità!

 

Forse una creatura...

(anche una creatura?...)

ma fragile, ma piccina,

sì che ora non sai più

d'essere stata la pura,

la credula bambolina

che ognuna di noi fu.

Ora diventi una cosa,

anonima, che muore.

Chi sa che spasimo al cuore

quegli che t'ha perduta!

Eppure... sei così muta

nell'infima agonia!

...o t'ha buttata via?

 

Povera povera cosa,

e un po' di cielo ti sposa

nel rigagnoletto.

E il fango è lo specchietto

ultimo di quel cielo!

 

(da "Il libro di Titania", Bemporad, Firenze 1921, pp. 71-72)

giovedì 25 aprile 2024

Due anni della Seconda Guerra Mondiale in due poesie

 Per il 25 aprile di quest'anno, ho pensato di pubblicare un post con due brevi poesie di due poeti italiani della cosiddetta "quarta generazione". In questi pochi ma significativi versi si parla di due anni altamente drammatici per la nostra nazione e per l'Europa intera: il 1943 ed il 1944. La prima poesia, di Luciano Erba (Milano 1922 - ivi 2010), descrive brevemente la vicenda personale del poeta che, proprio nel novembre del 1943, decise di rifugiarsi in Svizzera. La seconda, del critico letterario Giacinto Spagnoletti (Taranto 1920 - Roma 2003), fu scritta nel primo giorno del 1944: un anno particolarmente funesto perché in quei 365 giorni probabilmente si raggiunse il culmine di violenze, distruzioni e uccisioni della guerra più sanguinosa di sempre. Le sensazioni che Spagnoletti esplicita, tramite la simbologia del vento, dal 3° all'ultimo verso di Capodanno 1944, rendono bene l'idea della drammaticità di quel periodo; mentre i primi due versi esprimono una incertezza (quel "forse" iniziale) sul futuro, che agli occhi di chi viveva una realtà sempre più cruda e devastante, doveva apparire quanto mai insicuro.




1943

di Luciano Erba


Leggevo negli occhi dei famuli

il mio destino la mia certa condanna

andavo in montagna

scarponi e paltò

volevo fuggire

l'Italia e Salò.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 2002, p. 212)






CAPODANNO 1944

di Giacinto Spagnoletti


Forse un giorno la memoria

prenderà altre direzioni.

Ora è un vento che soffia

solo contro di noi,

calmo vento affilato

che denuda e sospende

come fili di paglia o foglie morte

il desiderio e la disperazione,

le tragiche e vane fantasie.


(da "Poesie raccolte", Garzanti, Milano 1990, p. 33)




domenica 21 aprile 2024

"Limen" di Francesco ed Emilio Scaglione

 Limen è il titolo di una raccolta poetica scritta “a quattro mani”, visto che gli autori sono i due fratelli Francesco ed Emilio Scaglione. La sua eccezionalità non sta nel fatto che fosse più di uno l’autore della raccolta, ma che le poesie non siano firmate, lasciando intendere che ogni componimento ivi presente, sia nato da un lavoro di coppia, e che quindi tutti i versi siano da attribuire ad entrambi i poeti. Limen fu pubblicato a Catania, da Noiccolò Giannotta Editore nel 1910. Le 143 pagine di questo volume, che vide l’esordio letterario di entrambi i due giovanissimi autori (Francesco probabilmente aveva ventuno anni, e presumibilmente era il maggiore dei due fratelli), contengono una Prefazione dedicata a Francesco Scaglione: zio dei due poeti e Ispettore Scolastico di Palermo, a cui i giovani si rivolgono con sentita riconoscenza, per l’incoraggiamento che il parente gli diede affinché potessero giungere alla pubblicazione del loro primo libro; seguono una sessantina di poesie più o meno lunghe nelle quali, come detto in precedenza, non viene specificato chi dei due ne sia l’autore. L’ispirazione di questi versi nasce dalle tante letture dei giovani fratelli siciliani, ma si concentra maggiormente nelle suggestioni e nelle influenze che evidentemente ebbero, dai poeti italiani e francesi di fine Ottocento e d’inizio Novecento; in particolare si notano parecchie somiglianze con alcuni versi di Domenico Gnoli, Arturo Graf, Enrico Panzacchi, Tommaso Cannizzaro, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio (a proposito di quest’ultimo, si legga la poesia intitolata Orto chiuso). Se per Emilio, a parte un altro libriccino scarsamente significativo, questo volume rappresenta l’unica sua opera in versi, per Francesco fu soltanto un punto di partenza per creare la sua raccolta più importante: Le Litanie (Bideri, Napoli 1911), che però fu anche l’ultima, visto che entrambi, a partire dal 1911, non pubblicarono più opere poetiche. Chiudo riportando tre liriche tratte da Limen.

 

 

 


 

 

L'ASFODELO

 

Lascia ch'esali in tenui ansie d'amore

l'asfodelo la sua vitrea bellezza,

ché se lo cogli ti si frange e muore

solo pe 'l soffio de la tua carezza.

 

Anche l'anima mia, fanciulla, hai colto,

ed ogni giorno un petalo ne hai tolto.

 

Solo ora che di cogliere hai finito,

mi getti come asfodelo appassito.

 

(da Limen, p. 30)

 

 

 

 

L'ULTIMA RIVA

 

Vengon l'uomo e la donna, ebri di vita,

a la riviera, il limite d'amore:

v'è picciol trave a un sol corpo: l'orrore

vampa ne la pupilla isbigottita.

 

Chi prima? "Or va gentil cor del mio core,

ramo de l'alber mio" - l'uom è che invita -

io son la china, tu sei la salita

tu il fonte, io il rivo; il prato tu, io lil fiore!"

 

Guarda la donna e ride nel sereno

occhio, e col piè dei precipizi a guerra

sospinge il legno, forte contro forte.

 

Stendesi intorno lugubre nel pieno

agonizzar dei secoli la terra,

ed abbracciati quei van ne la morte!

 

(da Limen, p. 49)

 

 

 

 

CH'È STATO?

 

Perché mai tremo? Ch'è stato?

Son queste notti sì chete!...

pur qualche cosa ha girato

da l'una a l'altra parete.

 

Leggevo in questo volume

placide istorie d'amore,

allor che intesi sul lume,

non so se un soffio o un rumore.

 

Dunque? Negli angoli bui

là, chi si desta che sogna?

Un po' di quello che fui

forse rivivere agogna?

 

Ma no, son pazzo! Chi muore

sta troppo bene laggiù

per ritentare l'errore...!

Via non pensiamoci più!

 

Torno a l'istoria lasciata,

son queste notti sì chete!

Pur... qualche cosa è passata

da l'una a l'altra parete.

 

(da Limen, pp. 89-90)

 

domenica 14 aprile 2024

La poesia di Simonetta Bardi

 Simonetta Bardi (Roma 1928 – ivi 2007) è stata, oltre che poetessa, autrice di prose, disegnatrice e pittrice. Le maggiori soddisfazioni le ebbe nel campo delle arti figurative, soprattutto nel ristretto settore del disegno monocromatico. Qui, però, vorrei parlare della sua attività poetica, che ho scoperto un po’ alla volta: dapprima leggendo il primo volumetto di versi pubblicato nel 1953, e poi quasi tutti gli altri (non molti) usciti durante la seconda metà del Novecento. Ciò che maggiormente ho notato, nella sua scrittura, è una semplicità assoluta, insieme ad una limpidità di pensiero che mi ha fatto venire in mente Antonia Pozzi: la poetessa più vicina – ritengo – al fare poetico della Bardi. Gli argomenti dei testi, per la quasi totalità, potrebbero essere definiti “intimistici”; spesso la Bardi mette in versi i suoi pensieri, la sua vita, i ricordi d’infanzia, delle persone care e degli animali – in particolare un gatto – da lei intensamente amati. In tutti i volumetti che diede alle stampe, compaiono anche suoi disegni, che hanno sempre stretta attinenza coi testi che li precedono o li seguono. Questi disegni, spesso, mostrano figure di donne che estrinsecano una sofferenza interiore (ve ne sono alcune ripiegate, con la testa bassa o in atteggiamenti malinconici); in molti casi, ben si evince che tali figure rappresentino proprio la poetessa. Raramente, la Bardi scrisse dei versi “impegnati”, ma quando lo fece (per esempio parlando di un ragazzo ebreo - probabilmente da lei conosciuto - che venne deportato in un campo di sterminio, oppure delle violenze subite dai neri d’America negli anni ’50 e ’60 del XX secolo), si dimostrò all’altezza del compito. Io lessi, quasi per caso, per la prima volta poche liriche di Simonetta Bardi, presenti in una vecchia antologia dedicata alla poesia femminile del Novecento; da quel momento in poi, non ho più visto comparire il suo nome in alcun libro di poesia italiana o di critica letteraria; ora che ho scoperto, praticamente per intero, la sua opera poetica, posso affermare con certezza che la Bardi meriterebbe una maggior considerazione. Questo post, spero, sia soltanto un primo passo per una prossima riscoperta. Dopo l’elenco delle raccolte poetiche di Simonetta Bardi, ho selezionato e trascritto quattro sue poesie che a me piacciono in particolar modo.

 

 

 

 

Opere poetiche

 

“Finestra sul fiume”, Bardi, Roma 1953.

“Il cantiere e la luna”, Il Raccoglitore, Parma 1958.

“Domani è il tempo”, Guanda, Parma 1963.

“Una parte di me”, De Luca, Roma 1968.

“Parole fra noi”, Bestetti, Roma 1972.

 

 


 

Testi

 

IN BILICO SUL CARRO

 

Vorrei andarmene,

dietro l'arrancare del carro

della calce viva

insieme a quella marionetta

traballante sul legno,

al passo col cavallo.

 

Vorrei assaggiare la pagnotta di pane

e di spinaci

il sole sulle spalle,

assopirmi, seduta in bilico sul carro,

sognare di non avere amici né casa

e sfogare nel vento

l'amaro della mia vita scontenta.

 

(da "Finestra sul fiume", Bardi Editore, Roma 1953, p. 39)

 

 

 

 

CHE M'IMPORTA?

 

Mi faranno ancora del male.

Che m'importa?

A me

il gatto, mi ama

il tetto d'una casa

l'agave e la morte.

Una canzone popolare

il vento di scirocco

vagabondo.

 

Che m'importa?

 

(da "Il cantiere e la luna", Il Raccoglitore, Parma 1958, p. 34)

 

 

 

 

L'EREMITA FINLANDESE

 

Invidio l'eremita finlandese

la sua casa di neve, la preghiera,

l'aurora boreale e la certezza d'essere santo.

Fra gli abeti, cammina con la sua sagoma d'ombra

e parla agli occhi umani del suo cane,

solo, con una fragile missione,

e ghiaccioli sui peli della barba.

S'apre a ventaglio, il sole,

la fede è una gran fiamma, nel silenzio;

chi toccherà la Luce con le dita,

se non l'eletto, il santo,

il povero eremita finlandese?

 

(da "Domani è il tempo", Guanda, Parma 1963, p. 17)

 

 

 

 

TI STO VICINA...

 

Ti sto vicina, con il mio corpo

proteso. Non mi senti, non mi conosci

non sai. Fra noi non si è aperta

una strada, non si è fatta una luce.

Due cariatidi mute, due esseri

lontani, che neppure si fanno male.

Si annullano a colpi brevi, occhiate

imprecise. Non ti so dire che sarei pronta

a morire, per un'avara carezza.

 

(da "Parole fra noi", Bestetti, Roma 1972, p. 23)

 

sabato 6 aprile 2024

Pedone

 

Camminava tra la folla

per il boulevard Sebastó,

pensando ai fatti suoi.

Il rosso l'arrestò.

Guardò in alto: 

                       sopra

le grigie terrazze, argenteo

tra gli uccelli grigi,

volava un pesce.

Cambiò al verde il semaforo.

Attraversando la strada si chiese

a che stava pensando.

 




 

COMMENTO

 Pedone è il titolo di una poesia surrealista di Octavio Paz (Città del Messico 1914 – ivi 1998), scrittore messicano che per un periodo visse a Parigi, dove conobbe artisti come André Breton e Benjamin Peret, da cui acquisì una propensione verso il movimento surrealista, come dimostra la poesia sopra riportata; la città in cui il distratto pedone cammina è Parigi; la visione del pesce volante rientra pienamente nella poetica surrealista di cui, per maggior chiarezza, riporto uno dei punti fondamentali esposto da André Breton nel "Primo Manifesto" del movimento:

«Il Surrealismo è automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, di là da ogni preoccupazione estetica e morale».

I versi di Pedone li ho trascritti dal volume L’albero delle parole, a cura di Donatella Bisutti, Feltrinelli, Milano 1996, dove si trovano alla pagina 99; originariamente la poesia faceva parte della raccolta Il fuoco di ogni giorno (Garzanti, Milano 1992), tr.di Ernesto Franco.