domenica 26 aprile 2020

Sera della domenica


                                        per Alberto Tarchiani

Ora che li organi
di Barberia singhiozzano al Crepuscolo
li ultimi balli e le ultime canzoni
anche una volta, quasi una paura
folle di rimanere
soli nell’imminente ombra li tenga;

ora che i poveri
amanti hanno sepolta
nel cuore, senza piangere, la piccola
loro felicità domenicale,
e vanno muti
per il noto viale
al convegno dell’ultima tristezza;

ora che il pianto in maschera
di Sorriso
affetta ancora un’aria disinvolta
prima che scada il facile noleggio
dell’abito di gala;

ora che ne’ conventi e ne’ collegi
abbassano le lampade,
asciugano le lagrime,
e s’imagina che nel Paradiso
ogni giorno sarà
domenica;

ora che nei postriboli
le femine si lasciano baciare
cantando
il breve elogio funebre
della verginità;

il Poeta, ebro di morte,
viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni,
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!




Sera della domenica è la prima delle nove poesie che compongono l'esigua e ultima raccolta di Sergio Corazzini che s'intitola Libro per la sera della domenica e che venne alla luce nel 1906. Io l'ho trascritta dal volume Poesie (Rizzoli, Milano 1992), che contiene tutta l'opera poetica dello scrittore romano; Sera della domenica si trova alle pagine 201 e 202 del detto volume (la prima delle due si può osservare nella foto sottostante).



La lirica è dedicata all'amico e poeta Alberto Tarchiani (Roma 1885 - ivi 1964), che nello stesso anno aveva pubblicato, insieme al Corazzini, il suo unico libriccino di versi: Piccolo libro inutile. Il tema domenicale, così caro ai poeti crepuscolari (oltre al Corazzini si ricordano diverse poesie sul tema di Marrone, Govoni e soprattutto Moretti, che dedicò alle "Domeniche" un'intera sezione della sua raccolta più famosa Poesie scritte col lapis), ebbe origine già nei versi di certi poeti francesi e belgi di fine Ottocento; fu in particolare Jules Lafourge - morto di tisi come Corazzini, a soli ventisette anni - che nella raccolta Les complantes inserì una serie di poesie in cui predominano le atmosfere domenicali di alcuni luoghi cari al poeta. E la malinconica ironia di Lafourge è ben palpabile anche in questa poesia di Corazzini, come in tutta la raccolta di cui la stessa fa parte. Insieme alla domenica, la "sera" del titolo della poesia, è una parte del giorno particolarmente cara un po' a tutti i poeti decadenti e simbolisti (crepuscolari compresi), tanto che sarebbe impossibile ricordare le moltissime poesie che, a partire da Baudelaire, hanno come argomento portante le ore serali del giorno. Si nota, leggendo questi versi, che Corazzini pone l'accento su una serie di eventi verificatisi su per giù nello stesso momento, che indicano la fine della gioia, della spensieratezza e del divertimento tipici della giornata festiva; col sopraggiungere della sera, tutte queste manifestazioni vitali vanno a mano a mano scemando, lasciando il posto ad una buona dose di malinconia, che qualcuno cerca di allontanare sognando o fantasticando. Infine la situazione del Poeta che, stordito dalla sensazione di morte (ricordo che Corazzini quando scrisse questi versi era già seriamente malato e che perì l'anno dopo), fa un patto con la Disperazione, accettando ciò che ella gli offre: un futuro breve, funestato da sensazioni e sentimenti negativi. Si tratta dell'unica, dolorosa scelta per il Poeta, poiché l'alternativa sarebbe la morte; e forse, l'ultimo verso sta ad indicare la difficile situazione economica in cui versava la famiglia di Corazzini, il quale nell'ultima parte della sua vita fu costretto, seppur malato, a lavorare sodo per poter tirare avanti e per garantire una vita decente ai suoi cari.

sabato 25 aprile 2020

Due poesie sulle devastazioni causate dai bombardamenti avvenuti durante la 2° Guerra Mondiale


Se è vero che oggi è un virus il nemico da combattere, e che è proprio questo invisibile e insidiosissimo essere a mietere tantissime vittime in Italia così come in ogni parte del mondo, è altrettanto vero che, circa ottant'anni or sono, nel nostro territorio esistevano dei nemici in carne ed ossa, armati e crudeli, che facevano egualmente vittime coi loro comportamenti scellerati, guidati da dittatori e governanti che non conoscevano la parola "pietà". I bombardamenti a tappeto sulle città erano all'ordine del giorno, e ogni volta che si verificavano, subito dopo c'era una conta delle vittime: un elenco che si andava sempre più allungando, a mano a mano che i morti venivano estratti dalle macerie sotto le quali si trovavano. Le due poesie che riporto oggi, in occasione del 25 aprile, parlano proprio della devastazione e dei lutti causati da queste bestialità belliche, tutt'ora esistenti. I versi di Salvatore Quasimodo (Modica 1901 - Napoli 1968), ben noti, parlano di uno dei più terribili bombardamenti a cui fu sottoposta la città di Milano, nel mese e nell'anno che sono indicati nel titolo della poesia; oggi, come tutti sanno, la città meneghina sta vivendo giorni altrettanto difficili (anche se le modalità sono completamente diverse), da cui, mi auguro con tutto il cuore possa uscire al più presto, così come tutte le altre città e gli altri paesi dove si vive la medesima drammatica situazione.
L'altra poesia è di Dino Menichini (Stupizza di Pulfero 1921 - Udine 1978), poeta friulano che si mise il luce con due raccolte in particolare: Ho perduto i compagni (1947) e Patria del mio sangue (1950), in cui mostrò la sua tendenza ad un crudo realismo e volle denunciare, tramite un linguaggio totalmente privo di artifici e quindi limpido, le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, innalzando a soli protagonisti tutti coloro che subirono le peggiori conseguenze dal tremendo conflitto. Questi versi che ho scelto danno il titolo alla sua opera poetica più famosa e, così come quelli di Quasimodo, pongono l'attenzione sulla disumanità della guerra, in particolare quando la violenza che ne scaturisce va a colpire nel mucchio, senza la minima pietà per qualunque essere umano innocente e indifeso.    




MILANO, AGOSTO 1943
di Salvatore Quasimodo

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

(da "Poesie", Newton Compton, Roma 1992, p. 132)






HO PERDUTO I COMPAGNI
di Dino Menichini

La città bombardata ora ha il volto
delle sue donne morte nelle vie.
Altre donne in gramaglie lente vanno,
i loro gesti suonano parole.
Tu, pallida ai capelli dove i baci
perdevano sapore di peccato,
stupisci della quiete che t'assolve,
dal limbo che ti smèmora riascolti
la tua voce nell'aria fatta il grido
delle cose tradite cui prestammo
innocenza di nomi.

                             Una bilancia
è ancora intatta, l'ago non oscilla,
il piatto è fermo, la misura è colma,
un Cristo guarda. Netto sul rottame
d'una campana è inciso «miserere».
Tu nemmeno hai pietà se la tua voce
m'assorda i giorni e mi devasta il sangue.
Ho perduto i compagni ad uno ad uno,
la mia vita è una somma di memorie
aperta al tempo...

(da "Poesia", Società Filologica Friulana, Udine 1998, p. 40)




domenica 19 aprile 2020

I luoghi della Lombardia in 10 poesie di 10 poeti lombardi del XX secolo


Questo post vuole essere un omaggio alla Lombardia, ovvero alla regione italiana che, da qualche mese a questa parte, ha maggiormente sofferto e più caramente pagato la presenza del famigerato coronavirus, con un bilancio di vittime semplicemente spaventoso che, ahimè, va tutt'ora aumentando. Si tratta di dieci composizioni in versi scritte da dieci poeti nati nel territorio lombardo; tutte appartengono ad uno spazio temporale che si può identificare all'interno del secolo XX. Leggendo, si noterà la presenza di autori e di poesie importanti, ma al di là della notorietà, ciò che ho cercato nei versi dei poeti che figurano in questo post, sono dei chiari riferimenti al territorio lombardo: vasto e assai diversificato. Potevo inserire un numero molto più cospicuo di poeti e poesie, poiché la Lombardia è sempre stata ed è ricca di poeti e di ottima poesia, ma, come al solito, ho preferito restringere la scelta a soli dieci testi. In ultimo, ho inserito lo splendido e nello stesso tempo struggente frammento de I promessi Sposi - ovvero del romanzo più bello e più famoso della storia della letteratura italiana - in cui viene descritta la figura della donna lombarda che porta in braccio la figlioletta morta di peste per consegnarla ai monatti. Alessandro Manzoni, proprio in questo capolavoro, parlò di un altro periodo tremendo per la Lombardia e in particolare per la città di Milano, lontano nel tempo e nello stesso tempo vicino, poiché la tragedia dei giorni nostri molto somiglia - pur nelle differenti modalità - a quella avvenuta tra il 1629 ed il 1631.




SERA DI GORGO
di Umberto Bellintani (Gorgo di San Benedetto Po 1914 - San Benedetto Po 1999)

Ancora opache innanzi a questa
sera ed umane.
Ora sono delle anime viola
le figure d’intorno al carretto
di chi grida il bel rosso dell’anguria.
E l’asino è un’ombra che sogna
e mastica biada.

Là il cielo è un verde di giada;
una rondine vi si tuffa,
esce, si perde:
è quasi ora di accendere lucerne.

(da "Nella grande pianura", Mondadori, Milano 1998, p. 14)




IL MERA
di Giovanni Bertacchi (Chiavenna 1869 - ivi 1942)

I monti stanno, e le foreste assorte
stanno: esso migra con le sue canzoni,
migra cantando a ritmi di stagioni,
dai decembri a' gennai, senz'altra sorte.

Sui ritmi immani de' perpetui suoni
si cullarono i secoli; le morte
cose in quel canto vivono risorte,
muoion le vive ne' perpetui suoni...

Fiume dei balzi retici, da' tuoi
poemi io colsi un'immortal parola...
Là canta un popol deluso di eroi,

canta nella tua voce alta, infinita,
dal passato al futuro! In una sola
voce tu riconfondi e morte e vita.

(da "Liriche umane", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1903, p. 48)




NOTTURNO BRIANZUOLO
di Paolo Buzzi (Milano 1874 - ivi 1956)

                                                            17 settembre
Punteggiata d'oro,
la conca,
come il primo cielo felice ch'io vidi:
quando i silenzi azzurri
saliscendevano, quasi su righi di musica,
gl'infinitesimali sussurri
dei grilli...
Spilli: spilli: spilli
d'oro: come alla sagra
della Madonna di Bévera: dove, al colle,
roventa tutte le teste raggiate
- alle donne -
il colpo di cannone
dell'antisvevo sacro Campanone...
I monti, cari come le persone
buone,
sognano con profili d'umani,
la fronte dalla parte dell'aurora...
E son gli stessi, ancora,
ch'io voleva toccar con le mie piccole mani
d'allora...

(da "Il canto quotidiano", La Prora, Milano 1933, p. 273)


Milano, Basilica di Sant'Ambrogio



AUTUNNO A MILANO
di Luciano Erba (Milano 1922 - ivi 2010)

Anche in città fanno fuochi di stoppie
oltre barriera dove arrivano i merci.
In un cortile
hai sentore di terra e di radici
ti attristi col naso a mezz'aria
sul tuo inutile fiuto d'indiano.

(da "Poesie 1951-2001", Mondadori, Milano 2002, p. 34)




PRIMAVERA LOMBARDA
di Renzo Modesti (Como 1920 - Milano 1993)

                                                                  A Arturo Tosi
Terra settentrionale, grigio sporco
d'una infanzia infangata, gli zoccoli
dei cavalli ti hanno marcata, ora
potrai instellarti o inarenare.

(da "E quando canterò", Edizioni dell'Esame, Milano 1950, p. 49)


Bergamo, Cappella Colleoni



PIAZZA DI SAN FRANCESCO IN LODI
di Ada Negri (Lodi 1870 - Milano 1945)

Se de la patria il giovanile e fresco
disio sale al mio cor come un incenso,
tutta bianca nel sole io ti ripenso,
    piazza di San Francesco.

Cresce fra le tue pietre, o solitaria,
tranquilla l'erba come in cimitero.
— Sole e silenzio. — Un passo — un tremar nero
    d'ali, fendenti l'aria.

Ed eran quel silenzio e quella pace
che in te bevevo a sorsi larghi e puri;
e il bacio amavo su' tuoi vecchi muri
    de l'edera tenace.

L'antico tempio, presso l'ospedale,
svolgea sue linee semplici e divine.
Per due bifori in alto, snelle e fine,
    rideva il ciel d'opale,

L'antico tempio avea canti e colori
d'una soavità che ancor mi trema
dentro. — speranze, o poesia suprema
    de gli anni miei migliori!...

Gravi note de l'organo, salenti
a gli archi de le volte longobarde,
su l'alte mura tremolar di tarde
    stelle e fluir di venti!...

Come uu suggello mistico al pensiero
da voi mi venne — e forse ho sempre amate
per voi le grigie case abbandonate
    ove dorme il mistero,

i muschi densi a piè de l'erme, i queti
cortili pieni di sole e di verde,
i portici de i chiostri ove si perde
    l'anima de i poeti;

i tristi luoghi ruinanti in pace
ove sol parla il soffio de le cose,
de i sogni morti e de le morte rose,
    e tutto il resto tace.

(da "Maternità", Treves, Milano 1922, pp. 243-246)




STRADA DEL GARDA
di Antonia Pozzi (Milano 1912 - ivi 1938)

Qui, dove i massi franano
nel lago vivo che al vento
fa rumore di mare
e in alto a scrosci gli ulivi
chiari rispondono,
giungeva la strada di Roma,
portava il più dolce
di quei poeti
con le sue tenere tristezze
a questo sole.

Di qui su l'arsura del Baldo
s'avviarono i soldati,
vestirono di fuoco i monti,
di sangue e d'anime.

Ora la nuova strada di Roma
guarda a quelle anime,
rompe la roccia:
listata di bianco e di nero
pianta oleandri e cipressi
a guardia delle pietre vinte,
che crescano – per quando
noi saremo morti –
ed ogni riva ne saluti le cime.

E su ogni riva si dica:
– quella è la strada che porta
pace e forza da Roma
verso i monti –

25 settembre 1933

(da "Parole", Mondadori, Milano 1998, p. 243)




CAMPANA DI LOMBARDIA
di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957)

Campana di Lombardia,
Voce tua, voce mia,
Voce voce che va via
E non dài malinconia.
Io non so che cosa sia,
Se tacendo o risonando
Vien fiducia verso l’alto
Di guarir l’intimo pianto,
Se nel petto è melodia
Che domanda e che risponde,
Se in pannocchie di armonia
Risplendendo si trasfonde
Cuore a cuore, voce a voce –
Voce, voce che vai via
e non dài malinconia.

(da "Le poesie", Garzanti, Milano 1994, p. 148)




Facciata della Certosa di Pavia



IL METEOROLOGO NON CAPISCE
di Alberico Sala (Vailate 1923 - ivi 1991)

Il meteorologo non capisce
i covoni che volano, i pioppi
spezzati come fiammiferi,
le automobili del week-end
disperse sull'autostrada;
ed io il tuo nuovo errore,
nella città corrotta.
Il vento percuote gli specchi
d'acqua fra l'erba delle rive,
la luna le percorre, s'affaccia
e s'eclissa, e sei tu, amore,
sulla strada sotto il ponte,
nei fari delle auto ti vedo,
e poi sparisci. Tu taci e non sai
che potrebbe essere questa
l'ultima luna insieme.
Ragiono, più vecchio, anche per te:
chiamo i cari morti ad aiutarmi,
ch'io sappia cosa decidere, per noi.
Il conto precisa: mio padre
dieci anni fa, ancora notte,
s'affacciava all'altro mondo
e tutto è chiaro, la pianura
contorta dalla furia,
i tuoni che rompono il motore,
i lampi, la pioggia nell'orto
che grandina albicocche, lacera i fiori;
ed il dolore, lo spavento in piena.

                              Pavia, Vailate 5 luglio 1965

(da "Senza malizie", Rebellato, Padova 1967, p. 91-92)




INVERNO A LUINO
di Vittorio Sereni (Luino 1913 - Milano 1983)

Ti distendi e respiri nei colori.
Nel golfo irrequieto,
nei cumuli di carbone irti al sole
sfavilla e s’abbandona
l’estremità del borgo.
Colgo il tuo cuore
se nell’alto silenzio mi commuove
un bisbiglio di gente per le strade.
Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli
sopravvivo alle tue sere celesti,
ai radi battelli del tardi
di luminarie fioriti.
Quando pieghi al sonno
e dài suoni di zoccoli e canzoni
e m’attardo smarrito ai tuoi bivi
m’accendi nel buio d’una piazza
una luce di calma, una vetrina.

Fuggirò quando il vento
investirà le tue rive;
sa la gente del porto quant’è vana
la difesa dei limpidi giorni.
Di notte il paese è frugato dai fari,
lo borda un’insonnia di fuochi
vaganti nella campagna,
un fioco tumulto di lontane
locomotive verso la frontiera.

(da "Frontiera. Diario d'Algeria", Guanda, Parma 2013, pp. 128-132)



Piatto anteriore del volume: Alessandro Manzoni, "I promessi Sposi", Signorelli, Roma 1980




Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.

(da "I promessi Sposi" di Alessandro Manzoni, Signorelli, Roma 1980, pp. 880-881)