domenica 28 giugno 2020

Poeti dimenticati: Giacomo Falco


Nel caso di Giacomo Falco (Savigliano 1901 - Milano 1959) non si dovrebbe parlare di un poeta dimenticato, bensì di uno mai considerato, se non da rari critici e colleghi che lessero i suoi versi e seppero riconoscere in essi il talento che, ahimè, è rimasto sempre nascosto o quasi. Falco si laureò in legge a Pavia per poi professare l'avvocatura nella città di Milano; oltre al suo lavoro, si dedicò alla scrittura, collaborando a varie riviste già prima dei vent'anni. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale fu, per breve tempo, segretario e consulente della casa editrice Bompiani. Nell'immediato dopoguerra divenne capo dell'ufficio stampa del Comune di Milano; in seguito tornò a collaborare con altre case editrici italiane come traduttore, fino alla morte che lo colpì non ancora sessantenne.
Come disse il poeta Giovanni Titta Rosa, autore della prefazione all'unico e postumo libro di versi di Falco, la sua migliore poesia trasse ispirazione soprattutto dai versi dei crepuscolari e dei simbolisti franco-belgi; giusta anche la segnalazione dello stesso, concernente uno stile particolare che lo avvicina ad un altro poeta mai valutato in modo adeguato: Fausto Valsecchi. Sempre nella prefazione, Titta Rosa evidenzia il carattere schivo e a volte scontroso di Falco, che forse contribuì al suo immeritato oblio.




Opere poetiche

"Dove io m'esilio", Garzanti, Milano 1960.

 
Frontespizio del volumetto "Dove io m'esilio" di Giacomo Falco


Testi

L'ANTICO COMPAGNO DI SCUOLA

L'antico compagno di scuola
ha un volto che più non discerno:
ma io udii questa notte la sua voce di bimbo
- uguale -
salutarmi e poi perdersi nell'ombra.

Forse quasi al mio fianco cammina,
in una via tutte ombre come quella che percorro:
talvolta d'udirmi sognerà, la mia voce d'allora
ridente echeggerà nel suo sonno:

le nostre due voci di fanciullo si rincorrono, si cercano,
ignorando il nostro autunno,
scambiano ancora fragranti messaggi d'aprile.

(da «Il Convegno», marzo 1931)




PIETOSI ANGELI

Se un giorno tornerà,
se un giorno dall'ombra tornerà,
da quelle lontananze,
da quel tempo fendendo i cieli e le stagioni,
per dirti che fu un sonno soltanto,
sonno tra i vivi così lungo silenzio,
fate per la sua gioia risplendere i firmamenti che non vide,
ridategli sulla terra l'amore
angeli angeli angeli del Paradiso.

Ah, quel suo largo riso
disperde, brucia primavere.

Si è fatto persona tra i vivi, da nebbie l'ho tratto.

Senz'eco periranno i miei lamenti,
scortateli ai silenzi, angeli del paradiso.

(da "Dove io m'esilio")

domenica 21 giugno 2020

"Juvenilia" di Italo Dalmatico


Ecco una raccolta poetica che pochissimi conoscono, scritta da Italo Dalmatico¹, a cui qualche anno fa dedicai un post inserendolo tra i poeti dimenticati. In verità di lui si seppe e si scrisse ben poco anche ai suoi tempi; qualche sua poesia è possibile trovarla nelle pagine di una prestigiosa rivista quale certamente fu il Marzocco, e in qualche sparuta antologia d'inizio Novecento. Il solo Glauco Viazzi: critico letterario da me citato spesso, si ricordò del poeta italo-croato molti anni dopo la sua misteriosa scomparsa, inserendolo nelle due splendide antologie da lui stesso curate: Poeti simbolisti e liberty in Italia e Dal simbolismo al déco. In quest'ultima, presentando alcuni versi tratti da Juvenilia, Viazzi precisa alcune particolarità dell'unica opera poetica in lingua italiana pubblicata da Dalmatico:

[...] Del resto Juvenilia raccoglie poematicamente in canzoniere i risultati dell'esperienze le più disparate, si va dal familiare al riflessivo svolto su fatti esterni o condizioni, magari passando dall'intimismo ed elegismo all'adozione di forme ricevute georgiche oppur bucoliche; e si trascorre dalla musicalità fluida degli enjambements alle ridondanti sonorità di un declamato intenzionato a persuadere, netto e scandito. Uno scrivere che usa codici differenti nell'ambito dello stesso sistema, e con una motivazione centrale, quella dell'idea di morte, ora in antitesi con la naturalità e magari con il vivere ed operare umano collettivo, ora come simbologia di una presenza continuata, data per segni cosmologici, figurazioni oniriche, anche definizioni assolute. [...]²

Questa raccolta fu pubblicata a Zara, nel 1903, dall'editore Enrico De Schönfeld; nelle sue 165 pagine sono comprese ben 65 poesie (ognuna di esse è numerata) divise in due sezioni: la prima s'intitola INTIME e contiene le prime 48 composizioni in versi (per lo più sonetti); la seconda è denominata VARIE, e include le restanti 17 poesie.
Chiudo riportando l'immagine del piatto anteriore della raccolta, l'elenco delle poesie che la compongono e tre testi incentrati su quello che, come ebbe giustamente a dire Glauco Viazzi, è il tema più ricorrente e significativo del libro di Italo Dalmatico.

NOTE
1) Il suo vero nome era Gerolamo Italo Boxich, e nacque a Spalato nel 1868 e morì a Zagabria nel 1940. Assunse il cognome italiano "Dalmatico" nel periodo che va dall'inizio del XX secolo alla fine della Grande Guerra. Dopodiché tornò a firmarsi col suo vero nome e smise di scrivere in italiano, preferendo la sua lingua originaria.
2) Da Dal smibolismo al déco, Einaudi, Torino 1981, tomo secondo, p. 357.






ITALO DALMATICO 
(G. I. Boxich)

JUVENILIA

VERSI




I. INTIME
1. Che m'hai tu dato, Giovinezza, o amata
2. Ecco, o fratello, io sono l'uomo. Io sono
3. Limosinante anch'io, come coloro
4. Io levo il capo con nova fermezza
5. Forse io di te mi scorderò. Domani
6. Lina, mia piccoletta sorellina
7. Risorgeranno da le tombe i morti?
8. Voi mi avete inchiodato su la croce
9. Ed il figlio verrà. Tu sola, in tanto
10. O figlio de la terra, il tempo è bello
11. La terra esala l'anima divina
12. Tra voi l'anima mia si fa gioconda
13. Alba. E si spera. Ecco, novellamente
14. Pur che nostro signor Amore voglia
15. Taci. Noi siamo in tenebra fanciulli
16. Pur che tua luce fervida consenta
17. Luce che viene d'oriente. O riso
18. Non le inaccese rupi, ove la neve
19. Ecco, e la Morte bussa. - Io vengo, figli
20. Questo, Morte, darai tu? Pace a noi
21. Un suono, una voce, ricordano i suoni
22. Benignamente tu da questa vana
23. Sudano i gioghi ed al villano arride
24. Se maggio è fosco, quindi giugno è d'oro
25. Lèvati, è giorno. Ecco nel luminoso
26. Questo che prima fu suono disperso
27. Poi che dal battagliar Morte ci toglie
28. Amore splende come un sole e Morte
29. Meriggio. E si fatica. O campo, o tutti
30. Tendetevi, fraterne mani, a noi
31. S'io così, come a buona amica, assai
32. Anima mia, t'inganna il cuore. Tutto
33. Non turbate la mia pace, o sorelle
34. Io, solo, in vetta alla montagna. Passa
35. La imagine di lei che mi sorprese
36. Chi vive de la mia anima al fondo
37. Più nessuna pietà di questo male
38. A i mali de la mia vita passata
39. Dal tuo grembo fecondo, ove matura
40. Ne l'ombra, ove i poeti aman vedere
41. Morte, conviene che tu sia benigna
42. Nel mezzo de la mente portentosa
43. Non chiedere, lettor, perché il poeta
44. Ed ancor mi risuona in cor la voce
45. Onde avvien che le rime escan dal fondo
46. Solo il pensiero della morte resta
47. Da immemorabil tempo, pria che fosse
48. Le notti, allor che il lume de le stelle

II. VARIE
49. Notte sul Montenegro
50. Vespero
51. La cheta cena
52. Il racconto
53. Eutanasia
54. In memoria
55. La coscienza
56: "Ballate dell'amore lontano"
    I. Ecco, io ti dico l'ultima parola
    II. La casa tace e la bambina è cheta
    III. Non sospirar. La tua bambina dorme
    IV. Ascolta. Dorme. A pena il labbro oscilla
    V. Poi che l'ultimo sole è tramontato
    VI. Così, ne la tristezza vespertina
57. Il condannato (I-III)
58. La impura
59. Il sogno (I,II)
60. Invidia
61. Motivo lunare
62. La guida
63. I vecchi
64. Belfiore
65. Il rimorso




TESTI


20.

Questo, Morte, darai tu? Pace a noi
che fummo, ne la vita, anime in pene,
cercando nostro durevole bene,
dilacerati da' martiri suoi?

Se questo fosse! E tu ne le serene
ombre, nel freddo de i riposi tuoi,
tu avessi quella che cercammo noi
quassù, ma invano, fonte d'ogni bene

durevole e più dolci sogni; e sogni
dolci così che fosser medicina
a l'acre piaga in ogni mite cuore

aperta, sanguinosamente in ogni
cuor di poeta e cuor di sognatore,
mirabile rosetta porporina!

(da "Juvenilia", p. 28)




28.

Amore splende come un sole e Morte
come un placido mar sotto si stende.
Eternamente così Amore splende
e si rispecchia nel mar de la Morte.

O de la nostra vita paesaggio
triste e solenne, o vita fra due abissi,
con due soli, ne l'alto e nel profondo!
L'uomo contempla lo strano miraggio
e gli brulica dentro gli occhi fissi
la forma di un pensiero: oh, il moribondo
rettile apparso, oh, il vile essere immondo,
che brilla quanto un lampo di follia
e già si solve in torpida agonia
ne gli occhi fissi di tra Amore e Morte!

(da "Juvenilia", p. 36)




53. EUTANASIA

Dolcemente morire:
tale gioconda cosa
chiede l'anima stanca.
Salire in una bianca
serenità. Sentire
la Morte veniente.
Tale gioconda cosa
chiede l'anima stanca:
dolcemente morire.

Ancòra. Sia presente
la donna lacrimosa.
La buona mano bianca
cerchi la mano bianca
del povero morente.
Dica assai dolcemente:
«non morir, non morire.»
Sia dentro la pietosa
voce tutta una ascosa
dolcezza. Non morire.

E pianga. Avidamente
io da la faccia bianca
il bianco pianto fluente
beva. La dolorosa
parola «non morire»
gema. Pur ne la stanca
voce lenta sfiorire
la speranza amorosa
io senta. E dolcemente
io mi senta morire.

Muoja meco nel cielo
d'occidente il gran sole
rosso. Io veda calare
il sole moribondo
dal suo cielo profondo
nel mio profondo mare.
Ambo ricopra il velo
de l'ombra. Meco il sole
muoja. Dica parole
la donna al moribondo

dolcissime. Parole
nove, che mai sonare
udimmo. Dal profondo
occhio stillino rare
lacrime e su dal biondo
crine odor di viole
conforti il moribondo
senso. Dica parole
ella. Muoja nel cielo
meco morendo il sole.

Tale chiede giocondo
morir l'Anima. Amare
la Morte. Riposare
come dentro un profondo
giaciglio. Udir parole
dolci. Vedere il sole
moribondo dal cielo
lentamente calare.
Effluvio di viole
assai mite odorare.

(da "Juvenilia", pp. 89-92)

domenica 14 giugno 2020

La musica nella poesia italiana decadente e simbolista


Prima di qualunque altra cosa è bene chiarire che in questo post non si fa riferimento alla famosissima frase pronunciata da Paul Verlaine (e che riguardava il suo fare poetico): "La musica è tutto". Infatti, nel sottostante elenco di poesie non si fa riferimento ad alcuna musicalità dei versi, ma alla vera e propria musica. Detto questo, se si leggono i titoli delle composizioni poetiche da me selezionate, è facile notare che i poeti decadenti e simbolisti italiani sono stati maggiormente attratti da particolari generi musicali e da altrettanto particolari strumenti. Certamente è la musica classica a predominare, e soprattutto un musicista: Ludwig van Beethoven. Evidentemente questi poeti, pur abbracciando nuove e sperimentali tendenze letterarie, rimasero legati, almeno musicalmente, a quel romanticismo decisamente passionale che il musicista tedesco rappresentava in modo perfetto. Altri musicisti che hanno influenzato molte poesie di questo periodo storico della poesia italiana sono Fryderyk Chopin e Franz Schubert, anch'essi riconducibili alla sempre viva tendenza romantica. Soltanto in rari casi fanno da ispirazione a questi versi, le opere musicali di artisti come Richard Wagner e Claude Debussy che, al di là dei dati anagrafici, furono considerati "nuovi". Tra gli strumenti musicali sarà di nuovo facile rilevare l'assidua presenza di violini e flauti; per quanto riguarda i primi, è nota a tutti la diffusa opinione che il violino sia lo strumento musicale in grado creare atmosfere particolarmente malinconiche; il flauto, sempre in base ad alcune leggende popolari, possiede un suono così suadente da causare una sorta d'ipnosi in chi lo ascolta attentamente. Al di fuori della musica classica, si riscontra la scarsa (per non dire nulla) presenza di canzoni popolari, e l'unico strumento - se di strumento si può parlare - che compare più di una volta in queste poesie, è il famoso organo di Barberia, che fu tanto caro ai poeti crepuscolari. Esso, per le sue caratteristiche, può ben rappresentare l'altra faccia della medaglia, ovvero la preferenza, da parte di determinati poeti, della musica più umile e più semplice: quella che a quei tempi era facile ascoltare semplicemente passeggiando in una strada cittadina; gli organi di Barberia, infatti, erano spesso usati da persone al limite della indigenza, che, girando la manovella di questo strumento (il quale effondeva nell'area circostante musiche trite e a volte distorte), cercavano di racimolare qualche moneta dai passanti rallegrati o affascinati dal suo particolarissimo suono.




Poesie sull'argomento

Pompeo Bettini: "Canzone triste" in «Vita moderna», marzo 1892.
Antonio Bruno: "Musiche della sera" in "Fuochi di Bengala" (1917).
Paolo Buzzi: "La violinista" in "Versi liberi" (1913).
Giovanni Camerana: "Beethoven" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Un flauto" in "L'Incubo Velato" (1906).
Enrico Cavacchioli: "Concerto per arpe" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Girolamo Comi: "Illuminazione musicale" in "Lampadario" (1912).
Girolamo Comi: "sento i violini del sole" in "Smeraldi" (1925).
Sergio Corazzini: "Per organo di Barberia" in "Piccolo libro inutile" (1906).
Auro D'Alba: "30 violini" in "Baionette" (1915).
Gabriele D'Annunzio: "Romanza della donna velata" in "Poema paradisiaco" (1893).
Federico De Maria: "Un adagio di Beethoven" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Luigi Donati: "Il violino" in "Poesia", marzo 1908.
Vincenzo Fago: "Torna forse l'antica melodia" e "S. Cecilia" in "Discordanze" (1905).
Luisa Giaconi: "Chopin" in "Tebaide" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Sentendo suonare Schubert" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il pianoforte" in «Nuova Antologia», aprile 1906.
Corrado Govoni: "La musica" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni: "Il piano" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni: "La musica", "In un notturno di Chopin" e "Organo di Barberia" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Mendelssohn", "Schumann", "Chopin", "Beethoven", "Triste adagio" e "Il flauto" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Il flauto notturno" e "L'organetto" in "Le Danaidi" (1905).
Arturo Graf: "Arpa eolia" in "Le Rime della Selva" (1906).
Enzo Marcellusi: "Marcia patetica nuziale" in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Tito Marrone: "Forse..." in "Le gemme e gli spettri" (1901).
Mario Morasso: "Il sorgere di una nuova speranza" in "I Prodigi" (1894).
Nicola Moscardelli: "Flauto pomeridiano" in "Abbeveratoio" (1915).
Arturo Onofri: "L'immensa orchestra del vento spande..." in "Canti delle oasi" (1909).
Arturo Onofri: "Le armonie della pietra alzano un canto" in "Suoni del Graal" (1932).
Angiolo Orvieto: "La cornamusa" in "La primavera della cornamusa" (1925).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "Sinfonia d'autunno" in "Sillabe ed Ombre" (1925).
Guido Ruberti: "Chopin: notturno" in "Le Evocazioni" (1909).
Emanuele Sella: "Questo ricordo viene dal passato" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Emanuele Sella: "Il suono del flauto" in "Monteluce" (1909).
Agostino John Sinadinò: "Alitano, cémbali profondi" in "La Festa" (1900).
Giovanni Tecchio: "Sopra un notturno di L. van Beethoven" in "Mysterium" (1894).
Diego Valeri: "Organetti" in "Umana" (1916).
Diego Valeri: "Da Debussy - Serenata per la bambola" in "Crisalide" (1919).
Diego Valeri: "Momenti beethoveniani" in "Ariele" (1924).
Carlo Vallini: "Musica" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Domenico Zarlatti: "La musica carnale" in "Rivista di Roma", gennaio 1906.
Domenico Zarlatti: "Nostalgia" in "Rivista di Roma", settembre 1907.
Remigio Zena: "Notturno per organetto di Barberia" in "Olympia" (1905).




Testi

UN ADAGIO DI BEETHOVEN
di Federico De Maria

Il violino singhiozzava
con gemiti lunghi di schianto,
con grida acute - spasimava
disperatamente il suo pianto.

Tacevano tutti - tu, immota,
sedevi al mio fianco, ascoltando
rapita la musica ignota,
né ci guardavamo; ma quando

alzai gli occhi, su la parete
di fronte, a lo specchio che adombrano
i fini velluti e le sete
dell'ampie cortine, - penombra

lucente - io ti vidi riflessa
dinanzi a me, pallida, muta;
non mi paresti più la stessa
donna: no, - ti vidi, venuta

da un altro mondo, visione
immobile, rigida, senza
né sguardo né voce, impersone,
lontana nella trasparenza

dello specchio: io vidi una morta.
L'anima mia rabbrividiva
pensando che saresti morta
così... - La melodia saliva.

(da "Le canzoni rosse")




NOTTURNO PER ORGANETTO DI BARBERIA
di Remigio Zena

Udite? udite un organo
Detto di Barberia,
Che sulla strada macina
Cantilene ed ariette?

Ora è una sinfonia
Di flauti e di trombette,
Un'orchestra bizzarra,
Un'onda fragorosa,
Ed ora una pietosa
Toccata di chitarra.

Trilli galanti, egloghe
Languenti in nostalgia,
Serenate dolcissime,
Lunari barcarole;

E la mia fantasia
Sa trovar le parole,
Nell'anima le imprime
Mentre si fanno liete
D'una frangia di rime.
E il labbro le ripete,

È il tema che predomina
Quello di Geremia,
L'appassionato al flebile
Grigiamente s'intreccia,

Ma talor l'ironia
Scatta come una freccia,
Sibilando l'angoscia
D'ogni cosa perduta...
Ha un sapor di cicuta
La risata che scroscia.

Bieco portento! L'organo,
Non so per qual magia,
Dagli ordigni meccanici
D'improvviso sprigiona

Rantoli d'agonia,
Come se a una persona,
Anzi a varie persone
Sepolte e ancor viventi,
Digrignasse fra i denti
L'ultima convulsione.

O tu, chi sei, rispondimi,
O tu, che per la via
Trascini nelle tenebre,
Su due fragili ruote,

Tutta un'epifania
Di tante anime ignote?
Chi sono? e questi canti?
E questi spasmi? dite,
O voi, donde venite,
Anime agonizzanti? -

- Non t'importi, o nottambulo,
Di saper ch'io mi sia,
Se da ieri o da un secolo
Compro o rivendo crome;
Ma tu vuoi ch'io ti dia
Età, nome e cognome
Di costoro che ascolti,
E dei quali ti bei?
Sono otto o dieci Orfei,
Da me, vivi, sepolti!

(da "Olympia", 1905)




Vilhelm Hammershøi, "Interior with Ida Playing the Piano"
da questa pagina web