sabato 29 giugno 2013

"Murmuri ed echi" di Mario Novaro

Vi fu un sito in ma' mai lontan lontano
dove fioriva
nel giardin della nonna
il melograno.

(Da "Murmuri ed echi" di Mario Novaro)






La recente ristampa del libro Murmuri ed echi di Mario Novaro (San Marco dei Giustiniani, Genova 2011), mi dà l'occasione per parlare di questa opera in versi del poeta-filosofo di Diano Marina, che per molti anni diresse la famosa rivista letteraria Riviera Ligure, dove pubblicarono cose importanti scrittori che di lì a breve avrebbero conquistato fama meritata come Luigi Pirandello, Guido Gozzano e Giuseppe Ungaretti. Murmuri ed echi è l'unico volume di poesie di Novaro, la cui prima edizione risale al 1912; ma è anche un libro che, durante gli anni, subì molte modifiche ed aggiunte, infatti l'autore, dopo la prima uscita di cui ho detto, ne fece stampare altre quattro¹, mentre la definitiva², curata da Giuseppe Cassinelli, è del 1975. I versi di Novaro, molto vicini alla filosofia, si contraddistinguono per una tensione vitalistica e una individuazione dei profondi misteri della vita che il poeta (e fors'anche il filosofo) va a cercare negli elementi più semplici e attraenti della natura. Queste peculiarità a mio avviso molto lo avvicinano agli scrittori della Voce (alcuni dei quali sono presenti coi loro scritti nella Riviera Ligure), questo è confermato dall'uso da parte di Novaro, sia della prosa poetica (si legga Sui monti e una parte di Vita nostra), sia del frammento (come si nota nella poesia che dà il titolo al libro, ma anche in Fioretti e in Nuovi fioretti). Per il resto non si può negare che Novaro subì, come molti altri scrittori della sua epoca, l'influenza delle "tre corone": Carducci, Pascoli e D'Annunzio; è da ricordare poi il suo inserimento, da parte di alcuni critici, nella cosiddetta Linea ligure che va da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a Eugenio Montale e che si palesa in una particolare attenzione al paesaggio ligure e (utilizzando un famoso verso di Montale) nell'uso di un linguaggio "scabro ed essenziale". Concludo raccomandando, a chi non lo avesse ancora fatto, la lettura di questo volume così originale e prezioso, oggi disponibile in una nuova, elegante edizione.


NOTE
1) Le cinque edizioni di Murmuri ed echi così si succedettero: Ricciardi, Napoli 1912; ivi, 1914; Vallecchi, Firenze 1919; Ricciardi, Napoli 1938; ivi, 1941. 
2) L'edizione definitiva uscì per la Scheiwiller di Milano nel 1975, una seconda edizione (vedi immagine in alto) fu pubblicata nel 1994.





mercoledì 26 giugno 2013

Poeti dimenticati: Luigi Pirandello

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867 e morì a Roma nel 1936. Sarebbe qui inutile parlare del Pirandello grandissimo drammaturgo e ottimo prosatore; meno conosciuta è certamente la sua poesia, che pure riveste un ruolo tutt'altro che marginale nell'arte dello scrittore siciliano. Pirandello infatti si dedicò alla stesura di versi fin dai suoi esordi letterari, pubblicando varie raccolte che, inizialmente mostrano un adeguamento alla lirica tradizionale, mentre, nelle opere più mature (leggi Fuori di chiave), emergono elementi che preannunciano i migliori esiti della sua attività teatrale.




Opere poetiche

"Mal Giocondo", Clausen, Palermo 1889.
"Pasqua di Gea", Galli, Milano 1891.
"Elegie renane", Tip. Unione Cooperativa, Roma 1895.
"Zampogna", Dante Alighieri, Roma 1901.
"Fuori di chiave", Formiggini, Genova 1912.
"Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1982.







Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 334-336).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (p. 435).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 6, pp. 140-155).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 127-129).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 209-210).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 447-451).
"L'altro Novecento, Volume V", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 55-58).
"Sicilia, poesia dei mille anni", a cura di Aldo Gerbino, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001 (354-357).




Testi

ATTESA

Io sono come l’albero che aspetta
la sua stagione e morto intanto pare.
Vien qualche vispa cincia a dimandare:
«Albero, ancora? Bada, è tempo: getta!»
Ma alle cince non dà l’albero retta:
muto ed assorto, rimane a sognare.

Sogna i freschi rampolli, e che tra i rami
verrà per grazia a raccogliere il volo,
ospite prezioso, un rosignuolo.
Piú d’altri uccelli non s’udran richiami.
In ciel, la luna; e magici ricami
d’ombra le frondi stamperan sul suolo.

Sogna e sogna... Ma già forse è passata
la sua stagione, e ad aspettarla sta
l’albero, invano, o forse non verrà
per lui giammai... Se questa, albero, è stata
l’ultima nostra gelida vernata,
che bei sogni la scure abbatterà!

(Da "Zampogna")

domenica 23 giugno 2013

I desideri nella poesia italiana decadente e simbolista

Spesso i desideri nelle poesie dei simbolisti sono riconducibili all'ambito sessuale, più raramente invece s'indirizzano verso situazioni impossibili, come nella poesia di Carlo Chiaves, il quale desidera da morto di poter ascoltare i cinici e spietati commenti delle persone a lui care davanti al suo fresco cadavere; in altri casi il desiderio è rivolto verso qualcosa di nuovo, che possa rappresentare una svolta decisiva nella vita (si legga la poesia "Il nuovo" di Federico De Maria); altre volte ancora i poeti vanno alla ricerca di una solitudine (simboleggiata da luoghi esclusivi ed isolati) che rappresenta un non celato fastidio provato nei confronti della folla. Ma in molte poesie è anche presente un'aspirazione alla morte, vista come traguardo unico e risolutore.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Sopra una Gavotta antica" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Sandro Baganzani: "Attimo" in "Senzanome" (1924).
Bino Binazzi: "Il grido umano" in "Turbini primaverili" (1910).
Giovanni Camerana: "Quies" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "La fame" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Cena: "Desideri torbidi" in "In umbra" (1899).
Carlo Chiaves: "Pessimismo" in "Sogno e ironia" (1910).
Guelfo Civinini: "Canzonetta del desiderio onesto" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Sergio Corazzini: "Scena comica finale" in "Libro per la sera della domenica" (1906).
Edmondo Corradi: "L'invito" in «Domenica Letteraria», luglio 1897.
Italo Dalmatico: "Eutanasia" in "Juvenilia" (1903).
Gabriele D'Annunzio: "Suspiria de profundis" in "Poema paradisiaco" (1893).
Guido Da Verona: "È strano" in "Il libro del mio sogno errante" (1919).
Adolfo De Bosis: "Inconsueta ospite la gioja..." in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "Le Pampas" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria: "Il nuovo" in «Poesia», novembre 1908.
Diego Garoglio: "La fine" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Luisa Giaconi: "Il Desiderio" in «Pro Guardia Medica» (1897).
Cosimo Giorgieri Contri: "Primavera del desiderio" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).
Domenico Gnoli: "Il bersaglio" in "Poesie edite e inedite" (1907).
Corrado Govoni "Voglia di piangere" e "Al sole" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Anelito" in "Le Rime della Selva" (1906).
Amalia Guglielminetti: "Cose maliose" in "Le Seduzioni" (1909).
Gian Pietro Lucini: "I miei Desiri, cupidi sparvieri", "Tenea sotto un broccato a padiglione" e "Coi lucidi guinzagli il buon Valletto" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "Di «Un altro Pomo»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).
Remo Mannoni, "Il canto dei vent'anni" in «L'Amore Illustrato», febbraio 1905.
Enzo Marcellusi: "Desiderio tropicale" in "I canti violetti" (1912).
Tito Marrone: "Cenerentola" in «La Vita Letteraria», gennaio 1907.
Arturo Onofri: "Vorrei per me una casetta bianca..." in "Canti delle osai" (1909).
Nino Oxilia: "Piccole cose che m'avete dato" e "Io la seguivo nella notte..." in "Canti brevi" (1909).
Giovanni Pascoli: "La grande aspirazione" in "Primi poemetti" (1904).
Guido Ruberti: "Desideri" in "Le fiaccole" (1905).
Umberto Saffiotti: "L'attesa" in "Le Fontane" (1902).
Emanuele Sella: "Fuor della storia" in "Monteluce" (1909).
Carlo Vallini: "O settembre, nel bel parco silente" in "La rinunzia" (1907).
Carlo Vallini: "Alcuni desideri" in "Un giorno" (1907).
Remigio Zena: "Venite all'ombra delle ciglia d'oro" in "Le Pellegrine" (1894).
Giuseppe Zucca: "Le terrazze alte" in "Io" (1921).



Testi

IL GRIDO UMANO
di Bino Binazzi

Rigidi pioppi da le foglie d'oro
eretti intorno al ciel, profondo, azzurro;
nell'aria non un vol, non un sussurro,
sol d'una fonte il mite e lungo ploro.
Lontano i monti persi nell'azzurro.

È il giorno in cui lo spirito, diffuso,
vive nell'aria e con tutte le cose.
Furono, o gramo corpo le affannose
doglie? Col tempo ogni ricordo è chiuso;
grava l'Eternità sopra le cose

e tutto è santo! Oh torniamo alla vita
intera, pur se falli, e poi si penta,
e rida, e pianga; pur se acuto senta
lo strazio d'insanabile ferita,
e vegga fuggir l'attimo sgomenta.

Oh torniamo alla vita austera e folle
che soffre e impreca, che s'inebria e spera!
Che sia fatica, verità, chimera
sappia, e di sangue imporpori le zolle,
e clami luce entro sua notte fiera.

E torni il pianto, dolce e pio lavacro,
torni la nube e solvasi in tempesta,
ma non risplenda invano alla mia testa
il sole, come a bianco simulacro
che freddo nacque e inanimato resta.

E tu che chiami da un'ignota landa
ignota figlia d'Eva, il tuo sorriso
rivela, e questo freddo paradiso,
e questi gigli che ne fan ghirlanda
dileguino all'umano tuo sorriso.

(Da "Turbini primaverili")

giovedì 20 giugno 2013

L'estate in dieci poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ascoltando una vecchia canzone mi sono tornati in mente i giorni meravigliosi di una mitica estate: i giochi con gli amici dell'infanzia; le passeggiate in bicicletta per le strade di Ostia Antica o in campagna; il cortile della casa dei miei nonni; i pranzi divorati in fretta per tornare il più presto possibile a giocare; i frutti appena maturati e colti sugli alberi dell'orto, che mio nonno mi consegnava, alla sera, affinché li portassi a casa; le sere a guardare la televisione pensando al giorno stupendo che mi attendeva all'indomani; i momenti prima di addormentarmi, quando pensavo ad un sonno veloce, dopo il quale, al primo mattino, avrei ritrovato il mio incomparabile mondo; il breve viaggio, in compagnia di mio padre, verso Senigallia; i primi temporali d'agosto che mi spinsero verso una fine dell'estate più fresca e più entusiasmante; i primi giorni di settembre, con una vaga malinconia dovuta all'imminente ritorno sui banchi di scuola, ma, pure, con gli ultimi sprazzi di autentica felicità, mai, fino ad allora, percepita in modo così netto. E perfino mi sembrano lieti, oggi, eventi che non lo furono, come le visite sporadiche a mia nonna in ospedale, che sarebbe stata operata proprio in quell'estate, superando la malattia dopo una lunga e tribolata convalescenza; o la morte, improvvisa, del papa, avvenuta nei primi giorni del mese di agosto. 



MEZZA ESTATE

di Diego Angeli (1869-1937)

Riposo delle umide valli
solcate di fiumi lucenti!
A lunghi intervalli passavano i venti
sui boschi più lievi di un lieve sospir!

Anemoni bianchi ed azzurri
stellavan le rive dei fossi,
oscuri sussurri scorrevan sui bossi...
oh dolce nell'ombra soave dormir!

Chi dunque nei mesi vicini
d'Autunno vedrà queste cose?
Chi dentro i giardini remoti, le rose
già tutte appassite per noi coglierà?

Chi mai sveglierà la silente
dimora? Quali occhi vedranno
nel bosco frondente la morte dell'anno?
Tu no! Questo è un sogno lontano di già!

(Da "L'Oratorio D'Amore. 1893-1903", Alighieri, Roma-Milano 1904)





COMPOSIZIONE
di Giovanni Titta Rosa (1891-1972)

Non erano feste le mie estati lontane.
Corpo di fanciullo
stretto nel dovere senza colore.
Solo i meriggi m'erano frangiati abbandoni freschi sotto gli alberi
ma chiamava il bollore schiumoso della terra.
Sulle toppe roventi
s'attaccavano le mie mani sterpose,
mani che non ebbero carezze di mamma.
Oh il salso del mio sudore
scolarmi sui labbri come una passione soffocata -
povero piccolo rassegnato senza sorriso.
La sera
un volo sperduto mi ricordava il mio esilio.
Camminato avrei verso il tramonto
come l'assetato pellegrino dei racconti:
ma erano lagrime piene sulla gola -
(dolore che non sapeva le sue parole).

Ora vivo nel ricordo di quella mia faccia
estatica nel tremor dell'aria.

(Da "Plaustro istoriato", Zanichelli, Bologna 1919)





ESTIVA
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore -
ci si risveglia come in un acquario -
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.

(Da "Giorni in piena", Quaderni di Novissima, Roma 1934) 





CORO D'ESTATE
di Scipione (Gino Bonichi, 1904-1933)

Io sono la voce dell'albero che cade, 
la mia corteccia sarà accarezzata 
quando si vedrà che dentro sono bianco. 
Le mie radici sono d'avorio e sono 
nascoste - la terra fine le ricopre.
Il mio corpo è rotondo,
l'aria sola mi toccava.
Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami,
i loro occhi vedevano tutte le mie braccia,
le foglie li nascondevano.
Sotto di me l'uomo si è riposato.
Io sono la voce del fanciullo, 
le mie osse sono tenere e possono cadere 
e non si romperanno. 
Le mie gambe corrono, i miei piedi 
non lasciano impronta.
Il timbro della mia voce somiglia
alla campana del mattino,
al bronzo leggero.

(Da "Le civette gridano", Scheiwiller, Milano 1938)





ESTATE
di Cesare Pavese (1908-1950)

C'è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell'erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
                               Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un'erba che so,
con un tonfo. Cosí trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d'aria
e il prodigio sei tu. C'è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
                                                 Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





PRINCIPIO D'ESTATE
di Umberto Saba (1883-1957)

Dolore, dove sei? Qui non ti vedo; 
ogni apparenza t'è contraria. Il sole 
indora la città, brilla nel mare. 
D'ogni sorta veicoli alla riva 
portano in giro qualcosa o qualcuno. 
Tutto si muove lietamente, come 
tutto fosse di esistere felice.

(Da "Ultime cose", Quaderni di Lugano, Lugano 1944)





ENTRO LA DENSA LENTE DELL'ESTATE
di Sergio Solmi (1899-1981)

Entro la densa lente dell’estate, 
nel mattino disteso che già squarciano 
lunghi, assonnati e sviscerati i gridi 
degli ambulanti, - oh, i bei colori! Giallo 
di peperoni, oscure melanzane, 
insalate svarianti dal più tenero 
verde all’azzurro, rosee carote, 
e vesti accese delle donne, e muri 
scabri e preziosi, gonfi ippocastani, 
acque d’argento e di mercurio, e in alto 
il cielo caldo e puro e torreggiante 
di tondi cirri, o bel compatto mondo. 
Lieto ne testimonia, sul pianeta 
Terra, nella città Milano, mentre 
vaga, di sé dimentico e di tutto, 
lungo le calme vie che si ridestano, 
- oggi, addì ventisette Luglio mille 
novecento cinquanta - un milanese. 

(Da "Levania e altre poesie", Mantovani, Milano 1956)





ESTIVA
di Angelo Barile (1888-1967)

In quest'ora di nude
forme, di lingue di fiamma, noi siamo
le tristi salme che bruciano in riva
a un mare fermo come una palude.
Dal nostro rogo
guardiamo a te ventilata fanciulla!

Nel mezzogiorno vitreo di luglio
sulla spiaggia che brulica t'apparti
innamorata.
Ti stendi nella vampa
come nel letto giovanile, ancora
fresco di sogni;
e il capo che hai liberato, la guancia
che sa di mare,
posi nel taglio d'ombra d'una chiglia.

Sui margini di fuoco
ad ora ad ora
chiudi improvviso
apri netto il respiro delle ciglia.
Ed ogni volta, a quel battito senti
un àsolo che viene
da refrigeri d'anima, ti tocca
in viso
la brezza intermittente dei pensieri
che ti stormiscon nei verdi recinti:

giuocano all'angolo della tua bocca.

(Da "Quasi sereno", Neri Pozza, Venezia 1957)





IL PRIMO GIORNO D'ESTATE
di Antonio Barolini (1910-1971)

Il camioncino dei gelati
(la campanella allegra)
passa tra gli alberati
viali residenziali.

I bambini,
che giocano nel prato a perdifiato,
smettono e gli vanno incontro:
i nichelini in mano.

I cani, risvegliati,
abbaiano per chiasso
e gli uccelli cinguettano tra i rami.
Si dondolano, frullano
in alto e in basso.

Una cicala urla
nell'ora meridiana:
è la prima di un'estate
di tenere piogge,
che pareva una burla.

È scoppiata e si sente 
l'avvenuto momento 
da come il cielo vibra 
sull'erba radente. 
Ogni cosa, nella luce, 
ha la trasparenza dell'aria. 
C'è un paese al mondo, 
dove non sia questa festa?.

(Da "Elegie di Croton", Feltrinelli, Milano 1959)





ERA ESTATE DI FARFALLE
di Nico Orengo (1944-2009)

Era estate di farfalle
perché troppi fiori
erano rimasti da
una primavera tarda.
La nube di farfalle
aveva confuso
l'immobilità delle tortore
che avevano abbandonato
i lunghi fili dell'Enel
per rifugiarsi alle case
dei cacciatori, spente
nei rovi di polverose
more, eco di sparo.

(Da "Cartoline di mare vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999)

sabato 15 giugno 2013

"Ali in cielo" di Francesco Biondolillo

"Ali in cielo" è il titolo della seconda opera poetica di Francesco Biondolillo (Montemaggiore Belsito 1887 - Roma 1974), uscì nel 1907 per le edizioni della "Vita Letteraria" in Roma e in parte si colloca nell'area crepuscolare e simbolista che caratterizzava in quel particolare periodo molta poesia nostrana. Biondolillo aveva esordito come poeta con la raccolta Aneliti nel 1905 e dopo il libro del 1907 non uscirono più suoi libri di poesia; continuò comunque ad interessarsi assiduamente di letteratura affermandosi come critico letterario. Ali in cielo è un libro di 64 pagine, le 19 poesie che lo compongono sono divise nelle seguenti sezioni: I. Primi poemi sinfonici; II. Intermezzo di Rime; III. Secondi poemi sinfonici. A sua volta la sezione II, Intermezzo di Rime, è suddivisa in tre sottosezioni: I. Visioni eroiche; II. Canti del silenzio; III. da «Pantheon». Leggendo le poesie del volume si nota la presenza di versi liberi, cosa molto rara nell'anno in cui uscì la raccolta, e fortemente innovativa se si pensa che tra i precursori di questo nuovo tipo di versificazione ci sono Gian Pietro Lucini, Corrado Govoni, Federico De Maria, Aldo Palazzeschi e Sergio Corazzini; tutti questi illustri poeti iniziarono a praticare il verso libero nei primissimi anni del Novecento e quindi in uno spazio di tempo non lontano dall'opera di Biondolillo; non sono assenti comunque, in Ali in cielo, versi tradizionali che dimostrano un saldo legame, da parte del poeta e critico siciliano, con i classici. Volendo riassumere il meglio di quest'opera poetica di Biondolillo, sono tre le poesie che a mio parere si elevano rispetto alle altre, sia per una semplicità schietta, sia perchè bene rappresentano quel clima vagamente crepuscolare di cui ho parlato poco fa, queste sono: La partenza (p. 16), Agonie (p. 18) e In silenzio... (p. 33); quest'ultima è stata inserita nel terzo volume dell'antologia Poeti simbolisti e liberty in Italia a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, del 1972. La partenza è un componimento in versi liberi che argomenta un desiderio del poeta, quello, appunto, di partire verso mète lontane e indefinite; già all'inizio della poesia si nota quel fare poetico tipico dei decadenti e dei crepuscolari, pieno di accenti malinconici e di atmosfere autunnali: «Partire solo solo nell'ora del tramonto, / in un tramonto tepido e calmo d'autunno, / mentre s'allarga la luce morente per l'azzurro diffuso del Cielo / e si piegano come ali stanche, / tristemente, le vele delle barche sul Mare, / e lenta lenta mi giunge la voce / d'una campana / lontana / lontana». In tutta la poesia c'è una celebrazione della solitudine e della fuga, dell'allontanamento dalle persone amate e dalla propria dimora; negli ultimi versi ritorna il famoso tema corazziniano del "povero fanciullo abbandonato": « [...] solo, gravato dal pondo del silenzio notturno, / mi curverò in un cantuccio, / mi raggomitolerò in me stesso, / interrogherò l'anima mia, / singhiozzerò di paura come un fanciullo».
Predomina il tema della malattia nel componimento intitolato Agonie che è diviso in tre sezioni di cui la prima è una esortazione fatta dal malato morente affinchè il maggior numero di persone possibile si avvicini a lui e lo vegli nel momento della morte; in questi versi pare evidente una sorta di masochismo o esibizionismo della sofferenza e della propria morte: «Venite, venite, sorelle; / scaldate col fiato il mio volto, / toccate l'esangue mia mano, / baciate la bocca già smorta / e gli occhi velati di morte!». Nella seconda parte il malato si rivolge alla madre con parole disperate e rassegnate al peggio: «Or la vita mi fugge: / io la vedo fuggire, / io mi sento sfinire, / o madre mia lontana, / io mi sento morire...». L'ultima sezione si apre con la descrizione dei ceri che contornano il letto del moribondo e che costui guarda infastidito, per questo chiede che vengano aperte le imposte della finestra affinchè possa veder le stelle e sentire il suono delle ultime campane: «Aprite la sola finestra; / ch'io veda le stelle brillare / nel cielo, stavolta soltanto! / Ch'io senta sonar le campane / vicine, stavolta soltanto!». Sembra evidente in questi ultimi versi il riferimento al mondo ultraterreno verso cui l'agonizzante, in sentore di morte, si sente fortemente attratto.
Un clima decisamente triste e malinconico ancora una volta la fa da padrone nelle terzine di In silenzio..., poesia che attinge largamente dal repertorio dei decadenti e dei simbolisti: « [...] è l'urna del pianto segreta, / aerea, invisibile, l'ombra, / che accoglie la voce inquieta / / de l'anima nostra già stanca; / la voce dei gigli sfioriti, / che muore, che piegasi e sbianca...» Concludendo mi sembra giusto affermare che, insieme ai poeti più conosciuti e meritevoli che all'inizio del XX secolo apportarono radicali rinnovamenti nella poesia italiana, Francesco Biondolillo operò e contribuì nel suo piccolo a tale rinnovamento.




giovedì 13 giugno 2013

Antologie: "La nuova poesia religiosa italiana"

"La nuova poesia religiosa italiana" è un libro realizzato da Gino Novelli e pubblicato dalla Società Editrice "La Tradizione" di Palermo nel 1931. Trattasi di un'opera interessante, se ci si concentra nel ristretto ambito delle antologie settoriali, di argomento religioso, riguardanti la poesia italiana novecentesca (anche se ha il limite di attraversare il solo primo trentennio). Il curatore, inserendo nel titolo il termine "nuova" voleva certo sottolineare che la selezione effettuata era ben delineata all'interno di un circolo di poeti che avevano apportato novità sostanziali nel modo di comporre versi del primo trentennio del XX secolo: fondamentale è quello di non distinguere più i versi dalla prosa (qui sono infatti presenti molti brani di prosa), cosa già vista nell'antologia più famosa: "Poeti d'oggi" di Papini e Pancrazi, uscita undici anni prima di questa. Si resta comunque perplessi per via di alcune esclusioni direi immotivate, vista la rilevanza dei personaggi assenti: a cominciare da Sergio Corazzini e Clemente Rebora, per poi proseguire con Arturo Onofri, Girolamo Comi e Salvatore Quasimodo; poeti insomma che rappresentano i massimi livelli della poesia italiana novecentesca, i cui versi posseggono molti elementi riconducibili alla religiosità cristiana e che, nel periodo preso in considerazione da Novelli, già avevano pubblicato opere importanti. Vi compaiono altresì poeti e scrittori di dubbio valore che, soprattutto nel decennio compreso tra il 1920 ed il 1930, furono da molti sopravvalutati; è presente, con alcune poesie, anche il curatore dell'antologia. Molto interessante risulta, nella parte finale del volume, il saggio di Pietro Mignosi (altro poeta cattolico presente nella selezione) intitolato "Rassegna bibliografica", riguardante le antologie e le riviste di poesia pubblicate tra il 1920 e la data di uscita dell'antologia di Novelli; Mignosi effettua, tra gli autori di prose e versi che, secondo la sua opinione, non hanno avuto degna considerazione, anche una piccola selezione che si aggiunge quindi a quella di Novelli. Ecco infine i nomi antologizzati in "La nuova poesia religiosa italiana".





LA NUOVA POESIA RELIGIOSA ITALIANA

Cesare Angelini, Antonino Anile, Paolo Arcari, Piero Bargellini, Giovanni Bertacchi, Ugo Betti, Calogero Bonavia, Giuseppe Antonio Borgese, Tito Casini, Erminio Cavallero, Giovanni Alfredo Cesareo, Francesco Chiesa, Auro D'Alba, Silvio D'Amico, Federico De Maria, Giovan Battista De' Seta, Vincenzo De Simone, Francesco Di Chiara, Luigi Fallacara, Giuseppe Fedele, Lionello Fiumi, Augusto Garsia, Igino Giordani, Domenico Giuliotti, Corrado Govoni, Augusto Hermet, Angelina Lanza, Geraldo Lentini, Nicola Lisi, Guglielmo Lo Curzio, Giuseppe Longo, Giuseppe Maggiore, Guido Manacorda, Marino Marin, Pietro Mastri, Ofelia Mazzoni, Pietro Mignosi, Nicola Moscardelli, A. M. Nasalli Rocca, Ada Negri, Luciano Nicastro, Angiolo Silvio Novaro, Gino Novelli, Giovanni Papini, Carlo Pastorino, Enrico Pea, Renzo Pezzani, Luca Pignato, Mario Puccini, Giuseppe Ravegnani, Nino Salvaneschi, Gino Saviotti, Emanuele Sella, Silvio Tissi, Luigi Tonelli, Giorgio Umani, Giuseppe Urbani, Nicola Valenza, Caterina Vanni, Diego Valeri, Pietro Zanfrognini.



APPENDICE BIBLIOGRAFICA

Lucy Pignato Griffo, Giuseppe Messana, Vittorio G. Gualtieri, Maria Pia Borgese, Aristide Puglia, Andrea Agueci, Ottavio Profeta.

venerdì 7 giugno 2013

"Il Porto Sepolto" di Giuseppe Ungaretti

S'intitola Il Porto Sepolto il primo volume di versi pubblicato nel 1916 da Giuseppe Ungaretti, uno dei massimi poeti italiani del Novecento; in questo libro sono presenti molte poesie entrate nella storia migliore della letteratura italiana, quei versicoli che diedero fama al poeta di Alessandria d'Egitto, quelle parole quasi scolpite, che Ungaretti, quando rcitava i suoi versi, amava scandire nel suo modo originalissimo e indimenticabile. Sono poesie, come si può capire dall'anno di pubblicazione del libro, nate soprattutto nel periodo della Grande Guerra, usando un linguaggio che, grazie alla sua semplicità e contemporaneamente alla sua profondità, esprime una sofferenza palpabile; sono sicuramente i migliori versi mai scritti (almeno in Italia) sulla guerra da un uomo che ha partecipato ad uno dei conflitti più sanguinosi e tremendi della storia dell'umanità. Tra i titoli più conosciuti si possono citare: I fiumi, S. Martino del Carso, Sono una creatura, Fratelli, Veglia. Tre anni dopo Il porto sepolto Ungaretti pubblicò un secondo libro di poesie dal titolo Allegria di naufragi che contiene altri capolavori della poesia novecentesca (si ricordano Natale e Solitudine) e, nel 1931, questi primi due volumi, insieme ad altre poesie pubblicate su varie riviste o inedite, andranno a formare L'Allegria, il libro che riepiloga la prima fase della poesia ungarettiana. Peculiarietà delle poesie di Ungaretti appartenenti a questo primo periodo sono la totale mancanza di punteggiatura e l'immancabile data (preceduta dal luogo) riferita alla nascita di ogni componimento; inoltre, leggendo le poesie di questa opera prima ungarettiana si noterà (se si conoscono già i suoi versi) una stesura differente rispetto a quella definitiva dell'Allegria. Grazie alla ristampa de Il Porto Sepolto da parte dell'editore Marsilio (Venezia 1990, foto in basso), che comprende una interessante sezione critica curata da Carlo Ossola, oggi è possibile rileggere quei famosi versicoli così come nacquero e trovare anche le fonti d'ispirazione da cui Ungaretti attinse per la stesura delle sue prime poesie. Chiudo con l'elenco delle liriche presenti ne Il Porto Sepolto.



In memoria di Moammed Sceab
Il porto sepolto
Lindoro di deserto
Veglia
A riposo
Fase d'oriente
Annientamento
Tramonto
Finestra a mare
Fase 
Silenzio
Peso
Dannazione
Risvegli
Malinconia
Destino
Perché?
Soldato
C'era una volta
Sono una creatura
Immagini di guerra
I fiumi
Paesaggio
La notte bella
Sonnolenza
S. Martino del Carso
Attrito
Distacco
Nostalgia
Italia
Poesia



sabato 1 giugno 2013

Giugno in 10 poesie di dieci poeti italiani del XX secolo

Giugno: mese in cui ha inizio la calda estate. Quanti bei ricordi mi suscita questo piacevolissimo mese! Quasi tutti questi ricordi appartengono al periodo della meravigliosa infanzia, quando, verso la metà di giugno terminavano le scuole. Allora, per me era l’inizio del più sfrenato divertimento: tre mesi in cui potevo dedicarmi soltanto al gioco, trascorrendo intere lunghissime giornate all’aperto, da solo o magari con altri bambini. Mi alzavo presto, la mattina, ed i miei genitori, che dovevano recarsi sul posto di lavoro, mi portavano dai nonni, dove rimanevo fino a sera. Dopo una colazione veloce aprivo la porta e uscivo correndo nel cortile; da qui in avanti c’era solo e soltanto un puerile divertimento destinato a ripetersi per tutti i mesi estivi rimanenti. Ma giugno era certo il mese più bello, soprattutto dopo la graditissima notizia della promozione scolastica, che mi garantiva spensieratezza totale per l’intera estate.  




PAGINETTA D'ALBO

di Giuseppe Albini (1863-1933)

È l'aureo giugno, e ciascun giorno un'ora
Il ciel s'oscura e freme.
Vaste frusciando inchinano le spiche,
E punta da nemiche
Aure ogni frasca abbrividisce e freme.
Deh sia vana minaccia! Oggi matura
L'annua speme al lavoro:
Biondeggi in aria e per i campi l'oro,
E te baci la gioia, o fronte pura.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1901)





FINE DI GIUGNO
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Papaveri, ciani, nel grano ch'è già tutto d'oro!
color della fiamma che ondeggia, del cielo che sta.

E tu, oro immenso... Oro folto che i solchi e i sentieri
dissimuli: grande che arrivi ai pampini e agli olmi!

Agli olmi onde scroscia la tempesta dell'ebbre cicale...
E voi, miti azzurri dispersi nell'oro, acri fuochi.

Papaveri, avvii d'una porpora miracolosa
che tessono in qualche lor selva dorata le fate.

Papaveri sparsi, come macchie d'eroico sangue
nell'aurea leggenda dei popoli, nel carme dei vati!

Nel gran che si muove tutto biondo, e le spighe già fanno
un fremere d'elitre vive, un sibilo immenso;

nel mar che diventa più colore di sole ogni giorno,
o boccioli, screzi di cielo! famiglia di fiamme!

Miti occhi cerulei di bimbi, di vergini: o ciani!
Azzurri, che par la festiva tua veste, o Madonna.

(Da "Fuochi di primavera", Formiggini, Roma 1919)





GIUGNO
di Corrado Alvaro (1895-1956)

Canti e il tuo canto è grazioso
come il fiore che ha perso 
il ricordo dei campi e cresce gracile. 
Canti e batton le tue opre in cadenza. 
La tua voce è più intensa - 
Cicala che inasprisce il suo metro 
se il sole è più maestoso.
Aria senza riposo
corre l'estate della lunga veglia.
Con la chioma sconvolta
sembri discesa da un lungo percorso
attraverso l'inverno.

Ecco l'estate, il tuo antico regno
dove entrasti trionfante
sovra un carro adornato di ghirlande
di fiori artificiali.
Fanciulle nuove corrono con ali
spaventate e dipinte.
Mentre le stupefatte donne incinte
ammoniscono ad ogni angolo mute
come incantati segni zodiacali.

Ma tu, invece, risorta dall'inganno
procederai parata
di colori maestosi
compagna del generativo giugno.
Somigliano i tuoi anni a una pianura,
dove nell'aria muta si prolunga
il ricordo del verso
delle cicale, dopo che si è sperso
fuggendo l'ombra dell'ultima altura.

(Da "Almanacco letterario", Mondadori, Milano 1925)





GIUGNO
di Armando Perotti (1865-1924)

Re della gleba, re del Tavoliere,
iapigia prole, mietitor rubesto,
che i culmi arguti con il sacro gesto
stringi nel pugno quanto può tenere;

recidi a un palmo della terra, e questo
mannel d'ariste, fiore del podere,
offri adorando alle presenti e vere
divinità del tuo dominio agresto;

tu solo accogli senza meraviglia
la compiuta promessa, il premio atteso,
lo spirto vivo in realtà pagane:

nel solco che del sangue s'invermiglia,
che s'imbeve del pianto, ecco è disceso
il calore del sol che si fa pane.

(Da "Poesie", Laterza, Bari 1926).





MOTTETTO DI GIUGNO
di Elpidio Jenco (1893-1959)

L'ultimo raggio si scontra con l'ultimo trillo canoro,
e spolvera di lucciole i grigi maggesi l'està.
Un grillo infila a un raggio di luna il suo tremolo d'oro,
e a passi svelti la luna trascorre le nuvole già.

(Da "Essenze", Emiliano Degli Orfini, Genova 1933)





GIUGNO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Stan le ciliege rosse tra le foglie
nella calma sera estiva
vedo il mio amore che le coglie
seria come una bambina, e così sola e schiva.

Non oso chiamarla, tanta grazia
è nella mano bruna che spicca...
Qualcuna ne mangia, ma come sazia,
movendo la capigliatura nera e ricca.

(Dalla rivista «Circoli», settembre-ottobre 1934)





LA MAGNOLIA DI GIUGNO
di Leonardo Sinisgalli (1908-1981)

Sono i giorni di un nuovo inferno
per me, la magnolia si spoglia
a un colpo basso di vento.
Ogni ramo cede una foglia
alle vampe di giugno.
Dietro le imposte son qui che abbocco
l'aria torbida di scirocco.

(Da "I Nuovi Campi Elisi", Mondadori, Milano 1947)





30 GIUGNO
di Maria Luisa Spaziani (1922)

Bruciano e si consumano le stelle,
regna la Grande Estate.
Passano dentro l'ombra dei balconi
figure esauste dagli occhi lucenti.
Grava sopra gli asfalti la polvere di Milano,
al chiosco dei giornali i fogli gialli
pendono come bandiere disertate.
Morder l'erba vorrei. Morire un poco
(con te, senza di te) contro la terra
che aspra inonda di profumo anche
la luna piena
                                       come quando (è certo)
lunghe notti di grilli inebriate
splenderanno di fuochi e di comete
sopra la cieca pietra che fu un giorno
Maria Luisa.

(Da "Le acque del sabato", Mondadori, Milano 1954)





NEL MESE DI GIUGNO
di Mario Luzi (1914-2005)

Nel mese di giugno 
la città quando sospesa 
e alta sopra il nostro sperdimento 
si desta alla frecciata delle luci

all'ora incerta tra vigilia e sonno 
che il corpo inciampa nel suo peso 
ma si rialza sulla sua fatica

nella pausa del tempo tra la rondine e l'assiolo 
tra la vita e la sua sopravvivenza,

Tu che spezzi la servitù e l'orgoglio 
- dicono - della sofferenza, vieni 
se già non sei dovunque 
in veste di randagio,

d'infermo, di bambino tribolato. 
Segui il timido, accosta il solitario, 
ripeti: la virtù quando non giunge 
fino all'amore è cosa vana.

È quell'ora della metà dell'anno 
che il senza tetto strascica i suoi cenci 
sull'erba pesticciata, cerca asilo, 
la lucciola lampeggia, il cane abbaia.

(Da "Onore del vero", Neri Pozza, Venezia 1957)





GIUGNO MIETUTO
di Edoardo Cacciatore (1912-1996)

Rondimi rèndimi uguale al tuo giugno
Immortalmente nella gola in cui mi uccidi
Saliva in cielo la corda stretta in pugno
Infuocata prima e intanto ghiaccio nei gridi
Svolgendosi avvinta a un anno ora è parete
Angoli e vincoli s'incurvano a collane
Abbraccio agli steli del pensiero che miete
La tua fretta nera ove la morte rimane
Un momento divisa da se stessa e incerta
Tra il precipizio allegro di cui sei la scorta
O l'infinita leggerezza rampa in erta
Luna a flagello e il silenzio solo sopporta
            Cielo lacero al tramonto irto di ali
            Senti il mio stelo e il giugno alfine sono eguali.

(Da "Il discorso a meraviglia", Einaudi, Torino 1996)