sabato 30 aprile 2016

I lavoratori in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Il secolo XIX è probabilmente il primo che, in poesia o in prosa, pone seriamente l'attenzione sul lavoro e sui lavoratori; in particolare su coloro che allora facevano i mestieri considerati decisamente faticosi. Questo è anche il secolo in cui nasce il socialismo, con tutte le nuove proposte che intende realizzare per rendere la vita dei lavoratori migliore. In questo secolo, poi, cominciano ad approcciarsi ai più diversi mestieri molte donne prima tagliate fuori dal contesto lavorativo. Nei sottostanti dieci componimenti poetici, quasi sempre sono protagonisti i lavoratori che maggiormente soffrono, poiché svolgono dei mestieri usuranti, in certi casi disumani. Qualche volta invece si nota un patriottismo sincero (la nazione italiana nacque nel cuore dell'Ottocento) che percepisce, come fulcro della nascente patria, il lavoro e i lavoratori. Si noterà che la maggior parte delle poesie appartengono all'ultima fase del secolo; ciò si spiega col fatto che è proprio quel periodo il più ricco di fermenti, di mutamenti e di conquiste sociali che coinvolgono i lavoratori in toto (non a caso l'ultima lirica parla di uno sciopero); strada complicatissima che è iniziata lì ed è proseguita con successo nel secolo seguente: gli anni '60 e '70 insegnano.




IL CANTO DELL'ARROTINO
di Cesare Correnti (1815-1888)

La ruggine annosa, - la sozza guaina
M'han guasta e corrosa - la lama strafina;
Pur vedi, brillante - già il filo si fa...
Figliuolo, un istante! - la ruota la va.

Ve' il manico d'oro - com'era infardato!
Sì ricco lavoro - sciuparlo è peccato:
Fattura lombarda - che pari non ha...
Figliuolo, ti guarda! - la ruota la va.

Scolpito sul pomo - mi scifra il suggello.
Ma il ferro è già caldo - favilla già dà...
Figliuolo, tien saldo! - la ruota la va.

La guardia, il Cellini - l'ha forse foggiata:
Di ninfe e puttini - festosa brigata
S'affaccia ai frastagli - e occhieggia di là
La lama a due tagli... - La ruota la va.

Ma qui dove doccia - la stilla dall'alto,
Di sangue una goccia - s'aggruma allo smalto.
Ricordo che il brando - non sente pietà...
Attenti al comando! - La ruota la va.

(Da "Il nipote del Vestaverde", Vallardi, milano 1858)




IL RITORNO DAL LAVORO
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

Occupan l'alto lago
Densi vapori, e piove.
Lontan lontano move
Per la nebbia profonda
Di miste voci un'onda
Dolce, tranquilla e grave.

Sol cupe acque deserte
L'intento sguardo vede.
Continua procede,
S'appressa via via
L'ignota melodia
Dolce, tranquilla e grave,

Come se naviganti
D'un pelago infinito,
Lunge dal natio lito,
Al cader de la sera
La semplice preghiera
Levassero al Signore.

Ed ecco tra i vapori
Mostran lor punta bruna,
Escono ad una ad una,
Qua e là s'affannan carene
Le picciolette barche
De la gente che canta.

Vengono e vanno i remi,
Vengono e vanno i canti
Tra' cumuli fragranti
Del fien raccolto allora;
Si rizza su la prora
Capretta impaziente.

Tornan dai solitari
Campi de l'altro lido
Gli agricoltori al fido
Tetto, a' vecchi parenti,
A' bamboli innocenti,
A la notturna pace.

Così vi si conceda,
Fornita l'opra e pieni
I vostri dì, sereni
Drizzar di messe carche
Le picciolette barche
Ai lidi del mistero.

Vi attende un tetto fido,
E coi vecchi parenti
Coi bamboli innocenti
Cui vi porranno appresso
Un salutar sommesso;
Poi, del Signor la pace.

(Da "Valsolda", Brigola, Milano 1876)




IL CANTO DEI MIETITORI
di Mario Rapisardi (1844-1912)

La falange noi siam de’ mietitori
E falciamo le messi a lor signori.

Ben venga il Sol cocente il Sol di giugno,
Che ci arde il sangue e ci annerisce il grugno,
E ci arroventa la falce nel pugno,
Quando falciam le messi a lor signori.

Noi siam venuti di molto lontano
Scalzi, cenciosi, con la canna in mano,
Ammalati da l’aria del pantano
Per falciare le messi a lor signori.

I nostri figlioletti non han pane,
E chi sa? forse moriran domane
Invidïando il pranzo al vostro cane...
E noi falciam le messi a lor signori.

Ebbro di sole ognun di noi barcolla;
Acqua ed aceto, un tozzo e una cipolla
Ci disseta, ci allena, ci satolla.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Il Sol ci cuoce, il sudore ci bagna,
Suona la cornamusa e ci accompagna,
Finchè cadiamo a l’aperta campagna.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Allegri, o mietitori, o mietitrici,
Noi siamo, è vero, laceri e mendici,
Ma quei signori son tanto felici!
Falciam, falciam le messi a quei signori.

Che volete? Noi siam povera plebe,
Noi siamo nati a viver come zebe,
Ed a morir per ingrassar le glebe.
Falciam, falciam le messi a quei signori.

O benigni signori, o pingui eroi,
Vengano un po’ dove falciamo noi;
Balleremo il trescon, la ridda, e poi...
Poi falcerem le teste a lor signori.

(Da "Giustizia", Giannotta, Catania 1883)




IL GENIO DEL LAVORO
di Domenico Carbone (1823-1883)

Viva Italia! Uno Spirto gagliardo
Corre il mar, corre il pian, corre il monte;
Incallite ha le mani, e la fronte
Ha cospersa di sacro sudor.
Egli batte le reni del tardo,
Con flagello di fiori e di spini.
Libertà, ne' tuoi campi divini
Quegli spini fur colti e que' fior.

Viva Italia! Le stridule lime,
L'aspre seghe, i martelli sonanti,
Del colono e del milite i canti.
Delle spole l'alterno volar
Sono un inno che monta sublime,
Son preghiera al Signor più gradita
Che lo squillo di torre romita,
Che l'incenso di lucido aitar.

Viva Italia! Una terra d'ignavi
È palude che putrida stagna;
È simile alla mesta campagna,
Dove i morti hanno requie fatal.
Ma la gente che s'agita in gravi
Studi, e d'opre sudate si pasce,
Mai non muore, o morendo rinasce,
Come tallo da ceppo vital.

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1885)




IL CANTO DEI LAVORATORI
di Filippo Turati (1857-1932)

Su fratelli, su compagne,
su, venite in fitta schiera:
sulla libera bandiera
splende il sol dell'avvenir.

Nelle pene e nell'insulto
ci stringemmo in mutuo patto,
la gran causa del riscatto
niun di noi vorrà tradir.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

La risaia e la miniera
ci han fiaccati ad ogni stento
come i bruti d'un armento
siam sfruttati dai signor.

I signor per cui pugnammo
ci han rubato il nostro pane,
ci han promessa una dimane:
la diman si aspetta ancor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

L'esecrato capitale
nelle macchine ci schiaccia,
l'altrui solco queste braccia
son dannate a fecondar.

Lo strumento del lavoro
nelle mani dei redenti
spenga gli odii e fra le genti
chiami il dritto a trionfar.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Se divisi siam canaglia,
stretti in fascio siam potenti;
sono il nerbo delle genti
quei che han braccio e che han cor.

Ogni cosa è sudor nostro,
noi disfar, rifar possiamo;
la consegna sia: sorgiamo
troppo lungo fu il dolor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Maledetto chi gavazza
nell'ebbrezza e nei festini,
fin che i giorni un uom trascini
senza pane e senza amor.

Maledetto chi non geme
dello scempio dei fratelli,
chi di pace ne favelli
sotto il pie dell'oppressor.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

I confini scellerati
cancelliam dagli emisferi;
i nemici, gli stranieri
non son lungi ma son qui.

Guerra al regno della Guerra,
morte al regno della morte;
contro il diritto del più forte,
forza amici, è giunto il dì.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

O sorelle di fatica
o consorti negli affanni
che ai negrieri, che ai tiranni
deste il sangue e la beltà.

Agli imbelli, ai proni al giogo
mai non splenda il vostro riso:
un esercito diviso
la vittoria non corrà.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

Se eguaglianza non è frode,
fratellanza un'ironia,
se pugnar non fu follia
per la santa libertà;

Su fratelli, su compagne,
tutti i poveri son servi:
cogli ignavi e coi protervi
il transigere è viltà.

Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.

(Dalla rivista «Il Fascio Operaio», marzo 1886)




IL MINATORE
di Guido Mazzoni (1859-1943)

Passano senza mutamento l'ore,
e picchia col piccone il minatore.

Quant'anni sono ch'ei discende il pozzo?
buio d'inferno è per la galleria:
da l'afa trista il respiro gli è mozzo,
non sa più dove sia né chi egli sia.
Ma pur convien che col piccone dia,
e picchia col piccone il minatore.

Una volta lassù nel sol giocondo
vide candidi mandorli fioriti
e danzar giovinette a tondo a tondo
e chiamarlo ridendo e fargli inviti.
Ohimé, que' giorni come son finiti!
e picchia col piccone il minatore.

Una volta lassù nel lume d'oro
(come splendea quella sera la luna!)
si mise, e ardeagli il cuore, in mezzo a loro,
e danzò tutta la sera con una.
Maledetta la morte e la fortuna!
e picchia col piccone il minatore.

Com'era bello il bimbo entro la cuna!
vennero i preti, lo portaron via.
Maledetta la morte e la fortuna!
ma così esser deve, e così sia.
Convien convien che col piccone dia,
e picchia col piccone il minatore.

(Da "Voci della vita", Zanichelli, Bologna 1893)




CARRETTIERE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

O carrettiere che dai neri monti
vieni tranquillo, e fosti nella notte
sotto ardue rupi, sopra aerei ponti;

che mai diceva il querulo aquilone
che muggia nelle forre e fra le grotte?
Ma tu dormivi sopra il tuo carbone.

A mano a mano lungo lo stradale
venìa fischiando un soffio di procella:
ma tu sognavi ch’era di natale;
udivi i suoni d’una cennamella.

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1894)




MADRE OPERAIA
di Ada Negri (1870-1945)

Nel lanificio dove aspro clamore
Cupamente la vôlta ampia percote,
          E fra stridenti rôte
Di mille donne sfruttasi il vigore,

Già da tre lustri ella affatica. — Lesta
Corre a la spola la sua man nervosa,
          Nè l’alta e fragorosa
Voce la scote de la gran tempesta

Che le scoppia dattorno. — Ell’è sì stanca
Qualche volta; oh, sì stanca e affievolita!..
          Ma la fronte patita
Spiana e rialza, con fermezza franca:

E par che dica: Avanti ancora!... — Oh, guai,
Oh, guai se inferma ella cadesse un giorno,
          E al suo posto ritorno
Far non potesse, o sventurata, mai!... —

Non lo deve; nol può. — Suo figlio, il solo,
L’immenso orgoglio de la sua miseria,
          Cui ne la vasta e seria
Fronte del genio essa divina il volo,

Suo figlio studia. — Ed essa all’opificio
A stilla a stilla lascierà la vita,
          E affranta, rifinita.
Offrirà di sè stessa il sacrificio;

E la tremante e gelida vecchiaia
Offrirà, come un dì la giovinezza,
          E salute, e dolcezza
Di riposo offrirà, santa operaia,

Ma il figlio studierà. — Temuto e grande
Lo vedrà l’avvenire; ed a la bruna
          Sua testa la fortuna
D’oro e di lauro tesserà ghirlande!...

(Da "Fatalità", Treves, Milano 1895)




IL FABBRO
di Emilio De Marchi (1851-1901)

Tra i muti casolari odi frequente
il suono che rimbalza sull'incude:
è Bellincion, che colle braccia nude
      batte il ferro rovente.

Ei sta fosco Vulcan da mane a sera
al mantice, al martel, alla tenaglia:
batte, inchioda, arroventa, il ferro scaglia
      rosso nell'acqua nera.

Copron serrami e toppe aspre e ferraglie
l'affumicata volta della muda:
ansa la vampa sulla carne ignuda
      le sue stridente scaglie.

Grida al compagno e cade in una dura
danza la solfa delle salde braccia:
tuona il martel, che rompere minaccia
      le costole a natura.

Se il vino canta e scalda il sentimento,
piomban sì giusti i colpi del martello,
che la torre merlata del castello
      balla sul fondamento.

Quindi egli siede ai caldi occhi del sole
sull'uscio e in così grasse risa il pane
accompagna che fuggono lontane
      le donne alle sue fole.

Oppur si piglia in braccio o sui ginocchi
un suo vezzoso bambinel di latte:
e le morbide incudini gli batte,
      soffiandogli negli occhi.

Dell'uom barbuto e nero il picciol fiore
mitiga i sensi e le parole audaci:
scendon spesse carezze e scendon baci
che fan rovente il cuore.

(Da "Vecchie cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899) 




SCIOPERO IN RISAIA
di Olindo Guerrini (1845-1916)
 
Sull'argine fangoso e desolato,
sotto il ciel che s'oscura,
come ingiunto gli fu veglia il soldato
e guarda la pianura.
 
Non un canto lontan, non un susurro
dai muti casolari;
non un allegro fil di fumo azzurro
s'alza dai focolari.
 
Sol di bimbi affamati un gemer lento
sembra morir lontano....
La fame, la miseria e lo spavento
pesan sul triste piano! 

Pensa il soldato: – «Ahimè, lacrime umane, 
noi vi freniam con l'armi! 
Oggi, se a casa mia non c'è più pane 
ci saranno i gendarmi!»


(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)

Pierre Auguste Renoir, "I mietitori"

lunedì 25 aprile 2016

La Resistenza in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ecco altre dieci poesie che parlano della Resistenza e della 2° Guerra Mondiale. Le pubblico nel giorno 25 aprile, per ribadire, in tempi in cui vanno troppo di moda stupide nostalgie, quanto sia fondamentale per la nostra esistenza la liberazione dal nazifascismo. Alcuni versi descrivono gli orrori di una guerra che fu tra le più tremende della storia dell'umanità; altre vogliono celebrare i partigiani italiani, così importanti per il raggiungimento dell'obiettivo, così coraggiosi se si pensa alle torture di cui furono vittime molti di loro, e alle conseguenti morti avvenute, spesso, in giovane età. Sono, tutti, versi bellissimi, perché sinceri, spontanei, e perché la migliore poesia nasce anche e soprattutto da esperienze dolorose.




HO DORMITO L'ULTIMA NOTTE
di Elio Filippo Accrocca (1923-1996)

Ho dormito l’ultima notte
nella casa di mio padre
al quartiere proletario.

La guerra, aborto d’uomini
dementi, è passata sulla
mia casa di San Lorenzo.

Il cuore ha le sue distruzioni
come le macerie di spettri,
eppure il cuore ancora grida,

geme, dispera, ma vive
come la madonna di Raffaello
salvata tra i sassi della mia casa

e un paio di calzoni grigioverdi.

(Da "Portonaccio", Scheiwiller, Milano 1949)




RETROVIA
di Giorgio Bassani (1916-2000)

Non li vedi, tu, gli angeli tutelari
che còmpitano la tua croce.
Hanno come te gli occhi chiari,
quasi puerile la voce.

Li vedessi, forse sorrideresti.
Non portan clamidi stole o tocchi;
polverosi, sono, rotti
di fatica: hanno tute celesti.

Parlano. Li senti bisbigliare
di non sai che pace, che speranza:
in un paese di là dal mare
questa è sera di vacanza.

Nella sera il monte odora
oleandri da una tomba di sassi.
la vita non è più, ora,
per te che un dileguare di passi.

(Da "Storie di poveri amanti", Astrolabio, Roma 1946)




CANTO DEGLI ULTIMI PARTIGIANI
di Franco Fortini (1917-1994)

Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell'acqua della fonte
La bava degli impiccati.

Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull'erba secca del prato
I denti dei fucilati.

Mordere l'aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d'uomini
Mordere l'aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d'uomini.

Ma noi s'è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l'hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.

(Da "Foglio di via e altri versi", Einaudi, Torino 1946)




ANNIVERSARIO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Io ricordo quei giorni: nell’ignoto
mattino ove a svegliarci era il terrore
d’esser rimasti soli, udivo il cielo
come una voce morta. E già la luce
abbandonata dai morenti ai vetri
mi toccava la fronte, sui capelli
lasciava l’orma del suo sonno eterno.

Un grido umano che s’udisse, nulla
solo la neve - e tutti erano vivi
dietro quel muro a piangere, il silenzio
beveva a fiumi il pianto della terra.

Oh, l’Europa gelata nel suo cuore
mai più si scalderà: sola, coi morti
che l’amano in eterno, sarà bianca
senza confini, unita dalla neve.

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)




MORTE DEL PARTIGIANO
di Corrado Govoni (1884-1965)

Dorme nei suoi capelli, vegetali
fili che il sole e il vento scioglieranno
vivi all’alba: una buia sventagliata
di mitra lo sferzò tra capo e collo
come brusca manata di un amico:
così cadde supino, per voltarsi
a riconoscerlo e a scambiare il colpo.
Non sentì allontanarsi per la riva
i passi dei fucilatori, dopo
che gli diedero un calcio per saluto
gridandogli: «Carogna!», e dentro il fiume
scaricarono l’arma e un po’ più avanti
graffiarono rabbiosamente il ponte
di bombe a mano: troppo poco a fare,
anche se così complice od assente,
che la notte straripi di terrore
per un sol sparo secco. Dorme, dorme
lungo disteso, stretto il gonfio collo
nella sciarpa di sangue larga e morbida
sempre più gelida; e il lungo cappotto
indurito di brina è il suo sepolcro.
E la sua patria è l'erba.

(Da "Stradario della primavera", Neri Pozza, Venezia 1958)




CANTO POPOLARE DEL PATRIOTA MARCHIGIANO
di Franco Matacotta (1916-1978)

Fucile e baionetta l'ho gettato
Sputando sangue e fiele ad una svolta
Al mio paese sono ritornato
Per riabbracciare i cani d'una volta.

Ah più non credo, più non spero in nulla.
Troppe certezze sono già cadute.
Addio, vacca rognosa, o Roma, culla
D'angeli neri e rosse prostitute.

E qua chi cerco? Dove sono i campi
Perduti nei crepuscoli viola?
Nel fragoroso turbine dei lampi
Ritrovo la mia casa vuota e sola.

Sono fuggiti mio padre e mia madre
Fuggito è il gatto, fuggito il cavallo.
Salvo allo scempio delle folle ladre
È restato a cantare solo il gallo.

Almeno nelle botti il vino austero
Fosse rimasto alla mia gola secca.
Presso la chiesa un cane magro e nero
Su una chiazza di sangue a lungo lecca.

Trac! Dalla finestra dirimpetto
Qualcuno ha sventagliato la mitraglia.
Un ragazzo col capo entro il petto
Sanguina in mezzo al fango ed alla paglia.

Madonna mia, Gesù. Una donna ha urlato
Nel labirinto fetido dei vicoli.
La succosa nipote del curato
Sta alla finestra per rifarsi i riccioli.

L'amico sputa fuoco sull'amico.
Il fratello è in agguato del vicino.
E devo torturarmi se il panìco
Non c'è più per sfamare il canarino?

No, non posso più piangere, non posso
Più gridare né a Cristo né alle stelle.
Che colpa abbiamo se ci scroscia addosso
La risata frenetica e ribelle?

Siamo accecati d'odio e di dolore.
Mordiamo a sangue l'aria dura e avara.
Ma per salvarti abbiamo ancora il cuore,
O Italia, cagna nera, patria cara!

(Da "Fisarmonica rossa", Darsena, Roma-Milano 1945)




TU NON SAI LE COLLINE
di Cesare Pavese (1908-1950)

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
Tutti quanti gettammo
l’arme e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

(Da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", Einaudi, Torino 1951)




ALLE FRONDE DEI SALICI
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

(Da "Giorno dopo giorno", Mondadori, Milano 1947)




I LUPI
di Nelo Risi (1920-2015)

La mia città deserta
un nero vento invade,
la mia città dolora
all'alba delle case.

Il muro non misura
più di tre metri: il sonno
di quel ragazzo steso
a lato è un peso eterno

I lupi sono scesi
visitano le strade,
autunno o primavera
non mutano paese

La mia città deserta
ha occhi di rovina,
le rose del suo sangue
c'è già chi le coltiva.

(Da "L'Esperienza", Edizioni «La Meridiana», Milano 1949)




IL PERIODO CLANDESTINO
di Mario Tobino (1910-1991)

Fu un amore, amici,
che doveva finire;
credemmo che gli uomini fossero santi,
i cattivi uccisi da noi,
credemmo diventasse tutta festa e perdono,
le piante stormissero fanfare di verde,
la morte premio che brilla
come sul petto del bambino
la medaglia alle scuole elementari.
Con pena, con lunga ritrosia,
ci ricredemmo.
Rimane in noi il giglio di quell’amore.


(Da "L'asso di picche", Vallecchi, Firenze 1955)