domenica 26 dicembre 2021

La poesia di Edmondo De Amicis

 

Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 - Bordighera 1908) è stato, è, e molto probabilmente sarà sempre ricordato come prosatore, e in particolar modo come autore del romanzo Cuore: punto di riferimento imprescindibile per tutti gli italiani - bambini, giovani e in età matura - a partire dall'ultimo decennio del XIX secolo, fino all'avvento del fascismo. La fortuna di questo famoso romanzo, così come la fortuna dell'autore, si andarono affievolendo cogli anni; il motivo principale sta nel fatto che il libro Cuore fu giudicato e bollato, da una parte eccessivamente sentimentale, e dall'altra oltremisura patriottico. Fatto sta che il De Amicis, da un po' di tempo a questa parte, è caduto, se non nel dimenticatoio, in un limbo perpetuo. Pochi o pochissimi conoscono i versi di questo scrittore, che pure, a suo tempo, ebbero discreta fama, e furono più volte ripubblicati in un unico volume edito dalla Treves di Milano (la prima edizione è del 1880). Della poesia di De Amicis si sono occupati diversi, illustri critici del Novecento; un po' tutti concordano nell'identificare alcuni elementi che la contraddistinguono - come l'abbassamento del tono e una palese prosasticità - i quali fanno sì che venga considerato, insieme ad altri del suo tempo, come un precursore del crepuscolarismo. C'è poi più di qualcuno che pone in evidenza l'umorismo, presente in svariate liriche del nostro; Ferruccio Ulivi evidenzia anche "una bonaria satira del costume", mentre Ettore Janni afferma, dopo aver individuato un latente pessimismo affiorante qua e là nei suoi versi (camuffato ed annacquato da un più riscontrabile umorismo): «Si può dire del De Amicis che provenga egli pure, buono buono, dalla Scapigliatura».

Concludo riportando un elenco delle antologie che hanno preso in considerazione il De Amicis "poeta", seguito da tre poesie estratte dall'unico volume di versi che pubblicò questo scrittore troppo spesso identificato soltanto quale autore del libro Cuore.

 

 

Edmondo De Amicis

 

Presenze in antologie

 

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 135-136).

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 235-236).

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 266-269).

"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 8-14).  

"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 999-1008).

"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 593-596).

"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1977 (pp. 395-397).

"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 409-416).

"L'albero a cui tendevi la pargoletta mano", a cura di due anonimi, Mursia 1979 (p. 220).

"Poesia italiana 1224-1961. Un'Antologia", a cura di Antonio Carlo Ponti, Guerra, Perugia 1996 (p. 172).

"Le poesie che amo", a cura di Alessandro Gennari, Mondadori, Milano 1998 (pp. 83-84).

 

 


Testi

 

 

A MIA MADRE

 

Non sempre il tempo la beltà cancella

O la sfioran le lacrime e gli affanni;

Mia madre ha sessant'anni,

E più la guardo e più mi sembra bella.

 

Non ha un detto, un sorriso, un guardo, un atto

Che non mi tocchi dolcemente il core;

Ah se fossi pittore

Farei tutta la vita il suo ritratto.

 

Vorrei ritrarla quando inchina il viso

Perch'io le baci la sua treccia bianca,

O quando inferma e stanca

Nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

 

Ma se fosse un mio prego in cielo accolto

Non chiederei del gran pittor d'Urbino

Il pennello divino

Per coronar di gloria il suo bel volto;

 

Vorrei poter cangiar vita con vita,

Darle tutto il vigor degli anni miei,

Veder me vecchio, e lei

Dal sacrifizio mio ringiovanita.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, pp. 105-106)

 

 

 

 

LA PIOGGIA

 

Con che dolcezza i primi anni rammento

E i miei trastulli e il mio paterno tetto

Sporgendo il volto a questo vivo e schietto

Odor di pioggia che mi porta il vento!

 

Riveggo il padre mio sui libri intento,

Dorato dal chiaror del caminetto,

E risento dal piccolo mio letto

Delle lunghe notturne acque il lamento.

 

E sogno ancora i pellegrini erranti

Per vaste selve e nere alte castella

Nido ospitai di fuggitivi amanti;

 

E un vago raggio dell'età fuggita

Al già stanco mio sguardo il mondo abbella...

Odorando la pioggia, amo la vita.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, p. 147)

 

 

 

 

ALLA TERRA

 

T'amo, feconda e pia terra, e t'ammiro,

E ti palpo, e di te colmo le mani,

E su te chino il volto, avido, e i sani

Profumi tuoi, riconoscente, aspiro;

 

E in te l'occhio figgendo, in breve giro

Scopro monti e foreste e valli e piani,

E mi smarrisco per recessi arcani,

E dietro a mille vaghe ombre sospiro.

 

E a traverso a' tuoi strati in te sprofondo

Con paurosa voluttà la mente

Fino all'intime viscere del mondo,

 

E bacio il manto tuo florido e bello,

Terra forte, gentil, fida, innocente,

Che ricopri mio padre e mio fratello.

 

(da "Poesie", Treves, Milano 1882, p. 158)

domenica 19 dicembre 2021

Poeti dimenticati: Francesco Meriano

 

Nacque a Torino nel 1896 e morì a Kabul (Afganistan) nel 1934. Poeta, giornalista e politico, pubblicò la sua prima raccolta di versi appena diciottenne; ancora giovanissimo diresse la rivista La Brigata insieme a Bino Binazzi; collaboratore con versi, articoli e saggi della Diana, del Popolo d'Italia e del Giornale del Mattino, fu anche vice-direttore del Resto del Carlino. Dedicatosi alla politica a partire dal 1924, ebbe, fino alla prematura morte, diversi e prestigiosi incarichi all'estero. Poeticamente parlando, Meriano fa parte di quella generazione che subì le influenze di correnti e movimenti fondamentali quali crepuscolarismo e futurismo; egli ne fu inizialmente un seguace; in seguito però, si avvicinò decisamente ad un frammentismo sia prosastico che poetico, caro agli scrittori della Voce. Da quest'ultima tendenza scaturirono i migliori risultati letterari di Meriano, sia che si parli di versi veri e propri, sia di prose poetiche o narrative.



 

Opere poetiche

 

"Gli Epicedi e altre poesie", «La Fiorita», Teramo 1914.

"Equatore notturno - Parole in libertà", Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1916.

"Croci di legno", Vallecchi, Firenze 1919.

 




Presenze in antologie

 

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 405-407).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 5, pp. 42-49).

"I poeti del Futurismo 1909-1944" a cura di Glauco Viazzi, Longanesi & C., Milano 1978 (pp. 399-406).

 



Testi

 

CONFESSIONE

 

Anima, mi raccolgo

col tuo solo dolore,

odo la tua parola,

il tuo profumo colgo

come un solingo fiore,

sento il verso che vola

dal tuo dolce mistero

come il corvo rapace

nella notte verace

s'alza da un cimitero.

 

Anima, non godemmo

dell'altra gioventù,

che freme nella vita;

l'ebrezza non bevemmo.

Quel che ghirlanda fu

ora è fronda appassita.

Tardi? Perché, contrari

a tutto ciò che è gioia,

preferimmo la noia

di studi solitari?

 

Ricordo. Noi guardammo

negli occhi della folla

gelida, muta, ostile;

ed odio vi trovammo:

e non l'odio che scrolla

ma l'odio che fa vile.

Ah non per quelle bocche

fu pane il nostro canto!

Si ribevvero il pianto

le nostre stesse bocche.

 

E cantammo in un angolo

del mondo, il più deserto,

il Dolore, ove pochi,

i profughi del fango,

quelli che più han sofferto,

tengono accesi i fuochi

delle loro speranze.

Oh, più del vostro amore,

il nostro alto dolore

è ricco d'esultanze!

 

Cantammo nell'angoscia

il pianto che divora,

lo scherno che distrugge,

la risata che scroscia,

ma non l'odio che accora,

la menzogna che fugge,

l'insulto che ha paura.

Fu limpido ogni verso,

ogni pensiero terso

ed ogni strofe pura.

 

La Morte ora s'appressa.

Non ho più forze; sono

debole, sono vuoto.

L'anima si confessa,

l'anima vuol perdono,

il cuore è quasi immoto.

Rimpiango il sacrifizio,

la gioventù perduta,

la coppa non bevuta

per non cedere al vizio.

 

Sono come precinto

romito che si muore

e nelle fibre dure

sente, non ancor vinto,

lo stimolo d'amore,

e il sole agogna. E pure

nella sua cella oscura

gli toccherà morire,

e la vedrà riempire

di brame e di paura.

 

Voglio godere! E pure

stanca è la man, la fronte

pesa, il capo riarde.

Godon l'altre creature

la loro vita d'onte

e di fedi bugiarde.

Oh, anch'io! Ch'io provi

la vita coi suoi mali,

le sue gioie fatali,

i suoi palpiti nuovi!

 

Anima, viver voglio

quest'orgia della gloria

che m'arde in ogni vena.

Per il mio vasto orgoglio

la Musa è una Vittoria,

la Despota è una Menade;

i versi son l'assenzio

che inebria e che rapisce,

gli steli che fiorisce

l'angoscia del Silenzio.

 

Inebriami di canto!

Del canto più selvaggio,

del canto più sfrenato,

non più pregno di pianto,

ma che sappia di maggio

e di fieno falciato.

Ch'io senta sulla bocca

un'altra bocca, quella

della dolce sorella,

che un bacio ardente scocca.

 

(da "Gli Epicedi ed altre poesie", 1914)

 

 

 

 

SPLEEN

 

Primavera di penitenza,

tutto è spento e incenerito.

Una spettrale sonnolenza

ci addormenta nell'infinito.

 

E quelle ali così stanche,

così inutili e pesanti!

E le strade afose e bianche

sotto il passo dei mendicanti!

 

Disperazione delle ore

che si annoiano a misurare

con triste meccanico cuore

tutte le gocce di questo mare!

 

Di questo mare desolato,

come un lago calmo ed uguale

dove ogni ricordo è annegato

in una pace mortale!

 

O Primavera malata,

nel letargo della natura,

dalla nera terra è sbocciata

una malvagia fioritura.

 

Fiori di tutte le voglie,

fiori d'amari peccati,

che uccidono chi li coglie

coi profumi avvelenati...

 

Non ci sono che i loro colori

sulla terra addormentata:

sotto il male di cui tu muori,

O Primavera avvelenata!

 

[da "Croci di legno (1916-1919)", 1919]

 

 

 

 

 

 

sabato 18 dicembre 2021

L'alfabeto della poesia

 Più di una persona mi ha chiesto: «Come si fa una poesia?». Io gli ho risposto: «È semplice: basta usare le lettere dell'alfabeto!». «Come sarebbe a dire?», mi è stato risposto, e allora io gli ho elencato tutte le lettere presenti nel nostro alfabeto (insomma, non proprio tutte, qualcuna in verità l'ho saltata); e facendo questo elenco, mi è nata una poesia, che riporto di seguito. S'inititola: "L'alfabeto della poesia".



A come Amore,

B come Bellezza,

C come Colore,

D come Dolcezza;


E come Ebbrezza,

F come Fantasia,

G come Gaiezza,

I come Ironia;


L come Leggerezza,

M come Madrigale,

N come Naturalezza,

O come Originale;


P come Poemetto,

Q come Quartina,

R come Rispetto,

S come Sestina;


T come Tenerezza,

U come Utopia,

V come Vaghezza,

Z come Zia.


E l'alfabeto intero

per poter dare il via

al magnifico e altero

mondo della poesia.




domenica 12 dicembre 2021

La pace in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 

Penso che la pace mondiale sia un'utopia, e che quindi mai si potrà verificare; perché la pace trionfi in ogni luogo della terra sarebbe necessario cambiare la natura dell'umanità, che, ahimè, è nata per guerreggiare, per odiarsi e per combattersi in tutti i modi possibili ed immaginabili. Eppure è necessario cercare la pace, dove e quando sia possibile, perché su una cosa siamo d'accordo: stare in pace comporta tutta una serie di conseguenze positive per chiunque. In queste dieci poesie non si parla soltanto di un tipo di pace: vi sono infatti inclusi dei versi che trattano della cosiddetta "pace interiore"; poi, ve ne sono altri in cui viene descritta una pace esteriore: del paesaggio circostante, molto utile a far sì che ne consegua un'altrettanta pace interna, dell'anima. Chiudo questo preambolo, augurando a tutti di vivere sempre in pace, con sé stessi e con gli altri.

 

 

LA PACE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO

 

 

PAX

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

 

Una donna velata e frettolosa

giunse là dove un popolo ribelle

un altro urgeva; e l'asta contro l'asta

cozzava, e correa sangue, tenebrosa

fiumana al lume delle rare stelle.

Protese ella le mani e sclamò: — Basta!

 

Da lungi allora, scarmigliate, a torme,

venner le madri, e curve sul terreno

tersero il sangue e i vulnerati forti

sorressero... La notte sull'informe

ruina, e delle fiaccole al baleno

un volto esangue o un cumulo di morti.

 

Non più, d'intorno agli stendardi eretti,

squilli e ruggir d'inferocita gente.

Solo qualche sospiro udiano i cieli

muti, o l'ansar degli anelanti petti.

Quando il dì sorse, vòlta ad oriente

gittò la donna frettolosa i veli

 

e apparve bianca e sorridente al sole.

La parola che disse unica e pura

echeggiò delle valli nel profondo,

suscitò rose alle cruente aiole,

mèssi ne' solchi, e dalla insania oscura

della guerra, impetrò libero il mondo.

 

(da "Poesie complete", Le Monnier, Firenze 1912, pp. 157-158)

 

 

 

 

SURSUM CORDA!

di Vittorio Amedeo Arullani (1866-1912)

 

O parola di pace, continenti

trapassa e i mari,

vola con la sonora ala de' venti

sui monti solitari.

 

Dona la sete del fecondo amore

largo e virile,

ne' petti infondi per l'uman dolore

una pietà gentile.

 

Combatti i secolari odî e la guerra

torva e minace,

placa gli eterni duellanti in terra,

o parola di pace.

 

Siam fratelli quaggiù. Sopra le offese

scenda il perdono,

e sian pronte le bocche ai baci, e tese

le mani, e il volto buono!

 

Dopo la violenta êra di lotte

o di rancori,

dopo la lunga procellosa notte

sia l'alba; e in alto i cuori!

 

(da "Pro Pace - Almanacco illustrato pel 1911", p. 94)

 

 

 

 

LA PACE

di Bruna (Clementina Laura Majocchi, 1866-1945)

 

Dammi la mano: un'ora, un'ora sola

resta con me, su queste pure cime.

Ascolta del silenzio la parola

che carezza, purifica e redime.

 

Il cielo bianco, come un bianco viso,

par si protenda su la terra in fiore

a respirarne il suo fresco sorriso,

a contarne ogni palpito d'amore.

 

E la vita è lontano, giù, lontano,

nel frastuono incessante de le strade,

ingombre da la torbida fiumana

di gente che si preme, ed urta, e cade.

 

Ma questo soffio di purezza, senti

come placa de l'anima il patire?

Non sembra forse su l'ali dei venti

il dono de la pace a noi venire?

 

(da «La Festa», agosto 1925)

 

 

 

 

LA PACE

di Luigi Grilli (1858-1931)

 

Con la preghiera che nei cuori intensa

Nutre, divino anelito, la Fede,

Genuflesso l'asceta a Dio la chiede

Se la infernal lo prema oste più densa.

 

E v'ha chi nella pia quiete immensa

Delle campagne in suo poter la crede;

Sopra monti inaccessi altri la vede,

o delle Selve negli orror la pensa.

 

Da l'ospitale ombrìa del Montenero

Shelley, cui troppo l'uman tedio increbbe,

La sognò un dì nel cerulo mistero

 

Del mar che amava, e, in un fatal momento

Giù negli abissi vagheggiati ei l'ebbe;

Io perché dunque, o mare, io ti pavento?

 

(da «Natura ed Arte», agosto 1909)

 

 

 

 

PAX ALMA

di Giovan Battista Menegazzi (1864-?)

 

Pace, sospiro de' cuori,

incarnazione de' sogni,

de' sogni de la bontà; Iri dai sette colori,

che il mondo visibile incanti,

e annunzi quello di là!

 

È ver che in questa bassura,

ove uman sangue fermenta,

e il vizio affonda il suo piè,

in notte lùgubre oscura

il lupo su l'agna s'avventa,

che invano implora mercé;

 

ma, da le olimpiche cime,

ove il nostr'animo aspira,

tu, con le tinte del sol,

inarchi il ponte sublime

che al ciel, sorridendo, congiunge

il nostro povero suol.

 

(da "Malinconia", F.lli Drucker, Padova 1908, p. 265)

 

 

 

 

LA PACE

di Marino Moretti (1885-1979)

 

I.

Giovami il tedio come lo sconforto,

come il leggiadro suono delle feste.

Mirando il cielo in sua leggéra veste

grande pace, gran perle di monili

inusitati, grande luce ò scorto.

Pur non ero al di là dai verdi aprili.

 

Nessuna opera è vana; ché gli incanti

ci servono di guida quando il sole

non teme il giogo delle nostre scuole.

Presto i sospiri diverranno larve

a cui l'anime nostre offriran canti.

Tutto io vidi nei dì: quel tutto sparve.

 

Ora io lodo. Passò gran melodia

di sogni sul mio capo. E pur non sono

come quegli che tiene il capo prono.

Viandante non sono, marinaro

non sono. E pur mi trovo sulla via

del bene, e l'orizzonte non m'è ignaro.

 

II.

Io lodo. Quanto mondo e quanto sole,

quanto sconforto e quanta nebbia io vidi

passarmi innanzi co' miei sogni fidi,

colle immagini dolci e tristi, colle

fantasie di conquiste e di parole!

Le mie semenze allor furon satolle.

 

E conobbi durezza di diaspro.

I misteri mi dettero lor fama.

Ogni lucidità divenne brama

nel mio spirito; e seppi ogni splendore.

Pur coll'ingombro d'un soave ed aspro

cielo, io risi, sentendomi signore.

 

E il mio riso squillò come la fonte

nella calma di cui conosco il velo.

Pei campi vasti risonò, pel cielo,

e in ogni sicurezza formò l'eco.

Ed ora la fatica di mia fronte

ricorda stille di un lavoro cieco.

 

(da "La sorgente della pace", Ducci, Firenze 1903, pp. 9-10)

 

 

 

 

QUANDO AVRAI PACE, ANIMA MIA, NEL SOLE?

di Arturo Onofri (1885-1928)

 

Quando avrai pace, anima mia, nel sole?

T'accerchiano avversarie ombre, astî, invidie,

smorfie e sorrisi ipocriti, ferocie

simulanti bontà; ma tu che vedi,

oltre il velo parvente, quel delirio

tormentoso che anela d’occultarsi

nell'inane sua maschera di carne,

col tuo silenzio tragico rispondi

implorando riscatto ai cuori schiavi.

Dal cerchio, che di tenebre ti stringe

sempre più nell'angoscia d'esser uomo,

tu puoi, volendo, liberar te stessa

a scampar nella gloria del tuo Regno,

ma la salvezza tua sarebbe inferno,

tradimento e ignominia del tuo sangue,

se abbandonassi i tuoi morti fratelli

all'infame avversario della vita.

Pace più non avresti, anche nel sole,

anima d’uomo confidata al mondo,

se non offri te stessa in olocausto

di gioia eterna, ai furori angosciati

che giustamente esècrano il tuo nullo

oscillamento, in cui vagheggi pace,

per la viltà di non negarti in Cristo.

Abnèga te, se vuoi trovarti eterna!

 

(da "Zolla ritorna cosmo", Buratti, Torino 1930, p. 104)

 

 

 

 

PACE

di Rina Maria Pierazzi (1873-1962)

 

L'ora più santa de l'amore è questa;

è questa l'ora in cui tutto riposa,

la testa bionda posa

sopra il mio cor, ché lungi è la tempesta.

 

Sentimi ancor: conobbi irrequiete

ore d'ambascia e lotte senza nome,

errai solinga come

foglia staccata dal materno abete.

 

L'altissimo silenzio dei severi

chiostri pensai, e la follia dei canti

e gemme scintillanti,

e il tirocinio degli studi alteri.

 

Piansi al bacio di un bimbo, carezzai

con reverenza una testina bianca,

ma sempre inferma e stanca

lungo la strada solitaria andai.

 

Ora, non più - su la mia fronte posa

la fronte sua - e dimmi che lontano

quel tempo andò, che invano

non sogna pace l'anima angosciosa.

 

Tutto è pace con te - anche 'l dolore

più non conosco: più non chiedo a Dio

un'ora sol d'oblio

perché l'oblio sei tu, povero amore.

 

Vieni... così: e della mia malfida

esistenza sii tu l'angel pietoso,

il faro luminoso,

la buona stella che rischiara e guida.

 

(da «L'Umbria», ottobre 1903)

 

 

 

 

IL GIORNALISTA

di Gianni Rodari (1920-1980)

 

O giornalista inviato speciale

quali notizie porti al giornale?

 

Sono stato in America, in Cina,

in Scozia, Svezia ed Argentina,

tra i Soviéti e tra i Polacchi,

Francesi, Tedeschi, Sloveni e Slovacchi,

ho parlato con gli Eschimesi,

con gli Ottentotti, coi Siamesi,

vengo dal Cile, dall’India e dal Congo,

dalla tribù dei Bongo-Bongo...

e sai che porto? una sola notizia!

Sarò licenziato per pigrizia.

Però il fatto è sensazionale,

merita un titolo cubitale:

tutti i popoli della terra

han dichiarato guerra alla guerra.

 

(da "Opere", Mondadori, Milano 2020, p. 55)

 

 

 

 

 PACE

di Alice Schanzer (1873-1936)

 

Lento il fumo s'inalza al cielo azzurro:

dintorno fiori e canti

di primavera, e il tremito e il sussurro

delle rose fiammanti

 

e delle fronde che l'abbraccian liete

come spose novelle

e le rinserrano in lor densa rete

su per ringhiere snelle.

 

Ne la penombra a me giunge la chiara

visione, e tra socchiuse

persiane appena, la carezza rara

del vento, e le confuse

 

voci gentili, come un sogno. Lieve,

simile al mite raggio

del sole, dal mio cor solve la neve

quella gloria di maggio.

 

Solve la neve e vi riporta fiori

vaghi di poesia,

e, coll'onda di luce e di colori,

l'ignota melodia

 

fremente occulta in ritmo misterioso.

L'anima ascolta quieta

sin che non dica il verso armonioso

dell'ebbrezza segreta.

 

E tutto s'abbandona mollemente

al novissimo incanto

il cuore, in sua gaiezza rinascente,

quasi ignaro del pianto.

 

Né le lotte ricorda e del presago

pensare l'amarezza:

al rapimento dell'istante pago,

la tranquilla bellezza

 

sente dell'ora, e più non chiede. Il volo

di rondini pel terso

cielo segue lo sguardo a stuolo a stuolo;

puro fluisce il verso.

 

A te, sacra stagione benedetta,

soavissima fata,

in un inno di grazie a te s'aspetta

la mia parola alata.

 

Tepida pioggia in arsa terra, scende

sul cuore tempestoso

la tua blandizia, e lo smarrito rende

sospirato riposo

 

a lui. Qual della madre il bacio pio

sopra una fronte ardente,

tu d'ogni affanno il celestiale oblio

rechi nel soffio aulente.

 

E l'impazienza del futuro altèra

e il desiderio audace

temperi in tua dolcezza, o primavera:

nel mio cuore è la pace.

 

(da "Motivi e canti", Zanichelli, Bologna 1901, pp. 23-26)

 


Charles Joshua Chaplin, "A Beauty with Doves"
(da questa pagina web)