domenica 30 settembre 2012

Ottobre nella poesia italiana decadente e simbolista

Ottobre è il primo mese interamente autunnale e, proprio perché rientra totalmente nella stagione delle foglie morte, ha attratto molti poeti decadenti e simbolisti che hanno scritto dei versi in cui il decimo mese dell'anno si poneva quale annuncio di una fine imminente; fine che coincideva col termine dell'anno solare ma che simbolicamente rappresentava quella della fede, degli ideali, della giovinezza, della speranza e della vita in generale. Il mese di ottobre ha spesso caratteristiche che lo rendono meno crudo e freddo rispetto a novembre, il quale si distingue anche perché definito "mese dei morti", in quanto il suo secondo giorno è proprio dedicato alla commemorazione dei defunti. Ecco quindi le poesie in cui ottobre assume il ruolo di protagonista apportando atmosfere molto spesso tristi e malinconiche, altre volte languide e struggenti, altre ancora impressionistiche.
 
 
 
 
POESIE 
 
SERA D'OTTOBRE
di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912)


Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina!...

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1891)

Pubblicata nella prima edizione di "Myricae", questa breve poesia di Pascoli mostra un paesaggio suggestivo e malinconico. Sulla scena vi sono gli elementi contrastanti che denotano da una parte allegria e quiete (le bacche che ridono e le vacche che placidamente ritornano alla stalla), dall'altra tristezza e malnconia (il povero che si trascina sul terreno pieno di foglie morte e il canto della fanciulla). Tutto ciò per mettere in netto contrasto la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, passaggio che avviene nel mese di ottobre.
 



 
MORIENTE OCTOBRE
di Giovanni Tecchio (Bassano 1872 - ?)


Muore l'Ottobre. Tristi, funerali
fra una tetra e monotona giallura
e dando al cuore un senso di paura,
s'ergono ignudi i tigli ne' viali.

Cala il corvo librandosi su l'ali
per le macchie che imprunan la pianura.
Muore l'ottobre e par che la Natura
tristemente il sospiro ultimo esali.

Or non fioriscono più le rose, o Amore.
Funebri su le tombe i crisantemi
han sussarri di morte e di dolore.

Ma il Dolore e la Morte Tu non temi,
poi che T'arride giovinezza in fiore:
di gioia e di salute esulti e fremi!

(Da "Mysterium", Galli & Guindani, Milano 1894)

È la descrizione di una rigida giornata di fine ottobre, fatta d'impressioni che fanno pensare alla morte: la morte dell'anno che, come dice lo stesso poeta, "esala l'ultimo respiro". La presenza dei crisantemi sta ad annunciare l'imminente novembre che, come è ben noto, inizia con la commemorazione dei defunti.
 

 

 
TRAMONTO DI UN GIORNO DI OTTOBRE
di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937)

Una sera d'ottobre tutta piena
d'incanti. L'acqua gialla come un oro
liquido, il cielo giallo come un oro
trasparente, una lenta cantilena
che scendea nella gran calma serena
del tramonto, sul fiume tutto d'oro
ed un irraggiamento tutto d'oro
intorno a qualche lucida polena.

Io guardai lungamente quella sera
una bianca goletta che partìa
tacita, senza che nessuna voce
le lanciasse il saluto ultimo. Ed era
come un antico sogno che svanìa,
navigante così verso la foce.

(Da "La Città di Vita", Premiata tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)

È questa una poesia che in primis mette in risalto i colori e i conseguenti effetti che provocano sul paesaggio dove domina un effetto ipnotico, di profondissima calma. L'immagine della goletta che si allontana lentamente rappresenta la fine di un grande sogno e la conseguente rassegnazione.
 

 
 
 
OTTOBRE
di Giuseppe Deabate (San Germano Vercellese 1857 - Torino 1928)

Ottobre è il mese in cui più tristi e acute
Scendon le amare ricordanze in core,
E il pensier delle dolci ore vissute
Desta i rimpianti d'un perduto amore.

Tutto; il bel verde che languendo muore
E le foglie dagli alberi cadute
Svegliano mille voci di dolore,
Mille pensieri ed estasi perdute....

Così io lo sento nei tramonti d'oro
Di queste meste e placide giornate,
Nell'eco estrema dell'uman lavoro

Che via pei campi dileguando sale....
Sento levarsi dalla morta estate
Il divino d'ottobre inno autunnale.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)

Come spiega bene il poeta il mese di ottobre suscita nell'animo umano una profonda tristezza, ciò si deve al paesaggio che mostra immagini di decadimento e di fine imminente. Eppure anche queste sensazioni posseggono un fascino arcano, che molto si avvicinano a qualcosa di divino. Tutto questo sentire è poi confermato dalla quiete estrema che contraddistingue alcune giornate di ottobre, particolarmente quando lo scenario è quello della campagna, così ricca in tale periodo dell'anno di colori vivi e suggestivi.
 
 
 

 
OTTOBRE
di Enrico Thovez (Torino 1869 - ivi 1925)

Calpesto adagio le foglie stridule al passo: ho rimorso
d'essere solo. Non penso soltanto a me quassù: sento
che un bene inutile palpita per l'aria, e fugge per sempre.
Guardate! È un magico incendio. Il sole basso sul colle
traversa d'un oro languido le masse rosse dei boschi.
Ardono pallidamente ; sembrano struggersi in fiamma
nel cielo cerulo: dicono qualcosa al cuore di tenero,
di grande. È forse il ricordo di un altro giorno d'autunno,
lontano, un altro tramonto languido d'oro, una fiamma,
e in fondo all'anima il lampo d'un indicibile amore.
Io salgo su per la ripida costa boscosa; mi pungo
aprendo a forza i cespugli, affondo in mucchi di foglie,
mi volto ansante a guardare, salgo più alto, più alto...
Al vento freddo le foglie accartocciate sui rami
crocchiano fragili, parlano. E tutt'attorno è un'immensa
caduta rossa di foglie, un rosso turbin di foglie.
Io, solo, ritto sul sommo della collina, protendo
la faccia al vento gelato, saluto il sole spettrale.
Godo del sibilo acuto dei rossi sciami, e mi creo
l'esile donna pensosa della mia mente, l'amante
che mi comprenda in quest'ora, in quest'angoscia, che langua
con me d'inutile amore per questo roseo fulgore
del cielo dietro le siepi, le rame e i tronchi dei boschi:
credo sentire sul viso il gelo della sua guancia...
Rabbrividisco; mi getto pel bosco a corsa, gemendo,
e annego me col mìo spasimo nella pietà di quest'ombra.

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)

A conferma della poesia precedente ecco questa di Thovez, dove il poeta rimane estasiato dal grandissimo fascino del paesaggio ottobrino; è un'estasi che, negli animi più sensibili, sollecita il sogno, la visione. Così Thovez immagina di trovarsi, in quel mondo magnifico, insieme ad un'amante impossibile: la donna ideale, la sola capace di comprendere il difficile e tormentato animo del poeta.
 
 

 
MOMENTO OTTOBRINO
di Giovanni Bertacchi (Chiavenna 1869 - Milano 1942)

Profumi di giovani donne
che recan sul cuor le viole;
fruscii di piedini e di gonne,
sussurri di rotte parole,

io seguo, poeta disperso,
le vostre disperse malie;
stillante di lagrime, il verso
rivola d'amor sulle vie.

Oh, dolce passar delle foglie
cadute sul molle tappeto!
La nebbia d'intorno raccoglie
dei cuori l'errante segreto.

Oh, dolce dell'umide bocche
libar dell'amore i veleni!
Si celan, d'un brivido tocche,
le morte viole ne' seni.

(Da "Liriche umane", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1903)

Si nota in questi versi di Bertacchi (poeta in verità quasi totalmente estraneo alla poesia decadente e simbolista) una insolita attenzione all'universo femminile, visto qui in modo originale e misterioso. Le donne affascinanti, coi loro profumi, i fruscii delle loro gonne, i fiori che abbellisicono la loro figura, attraggono il poeta che comunque si rende ben conto che sotto quelle immagini invoglianti si celano insospettabili pericoli.
 



 
IL RE DI THULE
di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943)

Ride nel cielo azzurro il sol delle età morte:
è l'aura delli autunni morti che intorno a me
lambe le gialle cime delle alberelle attorte
e ne sparge le frondi vizze sotto i miei piè.

Ottobre, o dolce mese che sapesti i miei giòchi,
che li amor miei sapesti - tutto e raccolto qua?
ben tu nel cielo azzurro riaccendi i tuoi fòchi,
come sognando un ultimo sogno di voluttà.

Oh! disperatamente soavi i baci estremi:
e tu lo sai: ti appresti, con dolente piacer,
ghirlandate le tempia fredde di grisantemi,
tra l'ultimo sorriso l'ultima coppa a ber.

Bevi, ottobre. Io pur giunto, precocemente, agli anni
freddi, sotto il tuo sole che non sa più scaldar,
io pur levo la coppa, libo a' miei vecchi inganni;
poi, come il re di Thule, gitto la coppa al mar.

(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio", Lattes, Torino 1903)

La poesia del Giorgieri Contri prende spunto da un altro componimento in versi, di Johann Wolfgang von Goethe, intitolato Der König in Thule, dove si parla del leggendario Re di Thule che ebbe in regalo una coppa d'oro dalla sua bella già moribonda. La preziosa coppa divenne l'oggetto più caro al Re, che continuò a bere soltanto da essa, fino alla sua morte, poco prima della quale bevve ancora un ultimo sorso e gettò l'oggetto nel mare.
 
 


 
FILATTERIO
di Corrado Govoni (Tamara 1884 - Roma 1965)

Ottobre. Addio di rondini. L'adagio
de le nebbie su le solitarie
dimore cala. Il debole suffragio
de la luce le tiene stazionarie.

Ma ecco che l'autunnale contagio
si propaga: e le cose più ordinarie
ne le stanze si sentono a disagio
come de le novelle pensionarie.

I monasteri dai muri di cloro
su cui l'inverno allenta le sue chiuse
incominciano tutti ad appassire;

e le sperse campane, da le loro
grige casucce da le porte chiuse,
fanno la propaganda di morire.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)

È la prima poesia della sezione intitolata Rosario di conventi che fa parte della raccolta più crepuscolare e decadente di Corrado Govoni: "Armonia in grigio et in silenzio". Leggendola si ha la netta impressione di trovarsi a Bruges, città belga tanto cara ai poeti crepuscolari e resa celebre dal romanzo di Georges Rodenbach: Bruges la morta. Gli "addii delle rondini", le "nebbie solitarie", le "novelle pensionarie", i "monasteri dai muri di cloro", le "sperse campane" e le "grige casucce" sono immagini simboliche che amplificano un sentimento malinconico tipico dell'autunno e in particolare delle giornate ottobrine.
 
 
 

 
PAESAGGIO D'OTTOBRE
di Federigo Tozzi (Siena 1883 - Roma 1920)

Sorgono i monti turchini, e in cima la neve biancheggia,
come un chiaro di sogno veduto da lontano.

Pallidi i boschi, e rinchiusi tra poggi che scendono a valle,
fremon a' venti freddi, con poche foglie vizze.

È questo il mese maligno, che lascia squagliare nel fango
i colori maliardi, pieni di nostri amori.

L'anima ancora si spoglia d'orgogli fioriti in estate:
nuda, ricerca il sole tiepido, e aspetta stanca,

quasi ch'un altro sorriso le giunga, invitandola a amare.
Passano in fretta donne meste, con nere trecce;

vanno lontane a morire in nebbie giallognole e verdi
di visioni oppresse da la mestizia loro:

sembrano foglie travolte dal vento, avviate ad un lago;
e un riso di pezzente s'asconde dietro i tronchi.

(Da "Le Poesie", Vallecchi, Firenze 1981)

Questa poesia del noto romanziere toscano fu pubblicata postuma nel volume Novale (Mondadori, 1925) e proviene da una copia manoscritta di Emma Palagi (moglie dell'autore) che a sua volta l'aveva recuperata da un taccuino di Tozzi; in quest'ultimo è presente la data di composizione: «19 ottobre 1903». Anche qui, come in molti altri versi, si nota una descrizione paesaggistica dalle tinte fortemente malinconiche.
 



 
COROT
di Giovanni Camerana (Casale Monferrato 1845 - Torino 1905)

È Autunno. Il parco tanto verde un dì
splendido tanto,
intirizzisce nella nebbia. il canto
cessò nei rami; ogni allegria finì.

È il triste Ottobre. I fracidi sentier
son seminati
di foglie gialle e piene d'acqua; i prati
fumano, come un immenso incensier.

Sullo stagno, che attonito squallor
che strana calma!
Forse lenta nel fondo erra la salma
di qualche ondina dai capelli d'or.

Le bacian l'alghe flessuose il piè
fatto di neve;
non è una morta, è un'ombra bianca e lieve
una ideale trasparenza ell'è.

Nel buio specchio rigato qua e là
di un tenue filo
bianco, immerge la selva il suo profilo
la selva sacra per antica età.

È Autunno, è il pianto funebre, il respir
dell'agonia;
gravi echi d'arpa e strofe d'elegia
paion dal lago e dalla selva uscir....

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)

Il componimento fa parte di un manoscritto del poeta piemontese che comprende 51 poesie scritte tra il 1870 ed il 1904; Corot porta la nota: «Ricopiato | addì 14 agosto 1904». Il titolo non è altro che il cognome del grande pittore francese Jean-Baptiste-Camille Corot (1796-1875), autore di molti paesaggi cupi e suggestivi. Per quanto riguarda il tema della poesia appare evidente il clima di totale tristezza e squallore che incombe in molti versi del Camerana, che vede nell'ottobre e nell'autunno la fine della vita.
 
 
 

 
OTTOBRATA IN MALINCONIA DI SBAGLIATO DESTINO
di Annunzio Cervi (Sassari 1892 - Monte Grappa 1918)

giornerello di ottobre mediocre di sole
un giornerello sciatto sciatto con uno sfinito solicino
da dolciastro ricordo di bambino
per sembrare marzolino non gli mancano che le viole

sole come una vecchia borchia d'ottone
cencini di nuvole a fregarlo
a lucidarlo
con lentissima attenzione precauzione

pozzette a terra di nottambula pioggerella
foglie cadute e foglie non cadute
vi galleggiano immerse o riflettute
qualche primo passero rapido scende a bere si dimentica saltella

cittadina goffagine dell'albero piazzaiolo
nella sua rivestitura di protezione
in cui sembra un monelluccio insaccato in un giacchettone
passato di padre in magrolino figliolo

nei giornerelli come questi piace
in una cabina di tram chiuso
- col suo vellutello granato consumato dall'uso -
lasciarsi scorrere verso un sobborgo in zitta pace

nel tram siete quasi soletto
appena una signora - vecchina -
- certamente nonnina -
il suo soldino lo trae da un nodello del fazzoletto

il tram in fuga per vie deserte
per infangate piazzole
in cui una fontanina nella dolcezza del sole
a lasciarsi colare in tanta limpidità si diverte

a qualche fermata di coincidenza
monotonamente lunga
attraverso i vetri chiusi può darsi che vi giunga
un po' di musica strimpellata in una scordata cadenza

non vi voltate neppure a guardare
dev'essere il solito storpiato
ma suona l'Addio del passato
e la vostra malinconia da quel ritmo baggiano ve la lasciate ninnare

ad una ripresa della melopea il tram stintinnando
birichinamente pianta in asso la vecchia musica e la fuga riprende
qualche monello al vagone si appende
tra staffone e terra il suo piedino titubando

e subito il desiderio di vederlo felice quel monellino
chiamandolo sopra e pagandogli un biglietto
anzi per fare al tranviere - che corre a scacciarlo - un dispetto
magari metterselo vicino

ma vi sentite tanto beato assonnato
nella dolcezza del melenso solicello
che non vi muovereste neppure se quel monello
nella corsa fosse sbalzato e sfracellato

oltre il caseggiato tra due muri umidicci
adesso il tram a tutta corsa si affretta
in un'ombra freddina quasi violetta
come un bucato d'assassino si stendono i tralci rossicci

ad una sosta di muraglione
il sole come un pazzo controllore
eccovelo sulla piattaforma anteriore
entra dentro con dorata precipitazione

spicca un salto dalla piattaforma di dietro
sparisce senza avere esaminato
se ognuno il suo biglietto di gioia l'abbia acquistato
siamo di nuovo nell'ombra del muro tetro

infine l'arrivo al borgo inatteso
intormentiti vi alzate senza ricordare
che cosa vi siete venuti a fare
non ve ne ricordate neppure quando siete sceso

accanto al capolinea
in un fornello di ferro - sforacchiato come un ordegno dell'inferno -
una donnina cuoce le prime castagne dell'inverno
quelle già cotte in un cantuccio le allinea

ai primi passi un bimbetto seduto sul marciapiede
a sfornare uno sbadiglio dalla bocca
salta su m'offre un soldo di spilli mi prega mi tocca
ma quasi convinto di darmi più di quello che chiede

pigro dilungo i miei passi pensandomi nel gorgo
forse d'uno sbagliato destino
nato per essere come quel bambino
per vendere un soldo di spilli in un sobborgo

nato per essere il bambino che quando se ne muore
la gente dice: - Ha cessato d'essere infelice -
e lui che dalla vita si allontana col segreto d'esser stato felice
e d'avere qualche cosa - quel segreto - da portarsi nel cuore.

(Da «La Diana», maggio 1916)

Una poesia che mostra chiari elementi di sperimentalismo, come era d'uopo nel periodo in cui fu pubblicata: vi sono tracce di futurismo, espressionismo e crepuscolarismo.
 


 
 
OTTOBRE
di Mario Adobati (Bergamo 1889 - 1919)

Anima cara che sorridi appena
di quale mai dolcezza sei custode!
Anima cara, è forse cantilena
d'una canzone che ora più non s'ode?

Anima cara, svolgesi la vena
di un fonte dolce entro di te: è un'ode
che pienamente nel fluire fa piena
una coppa con ritmo di melode.

Anima, custodisci la bellezza,
o tu del cuore piccola sorella,
questa bellezza che non mai si vide.

Anima cara colma di dolcezza,
anima mia, canora come quella
di un fanciullo innocente che sorride!

(Da "I cipressi e le sorgenti", Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)
 
È la decima poesia della sezione I mesi dell'anima che fa parte del volume "I cipressi e le sorgenti". La figura di Mario Adobati molto somiglia a quella di Sergio Corazzini, sia per la prematura morte, sia per i toni decisamente malinconici che manifestano i suoi versi. Anche i riferimenti frequenti all'anima accomunano i due poeti, come si può notare in questa poesia.

mercoledì 26 settembre 2012

Antologie: "La poesia italiana di questo secolo" (1929)

"La poesia italiana di questo secolo" di Pietro Mignosi è un libro pubblicato nel 1929 dalle Edizioni del Ciclope in Palermo. Non si tratta di una vera e propria antologia, ma, piuttosto, di un saggio antologico; ecco, comunque, cosa dice a proposito del suo libro Pietro Mignosi nella prefazione:
«Questo libro sulla poesia italiana dell'ultimo trentennio è il primo tentativo di vedere storicamente il sorgere, l'assestarsi ed il programma di una nuova poesia italiana. Non credo che si sia fatto ancora niente di simile. I tentativi di offrire in un quadro le prospettive e i documenti salienti della nostra poesia sono, come è risaputo, assai scarsi».
Di seguito a queste affermazioni, Mignosi fa una veloce disamina delle antologie uscite intorno a quegli anni, dalla celebre "Poeti d'oggi" di Giovanni Papini e Pietro Pancrazi, alla repertoriale "Le più belle pagine dei poeti d'oggi" di Olindo Giacobbe. Quindi il critico-poeta conclude la sua analisi ribadendo l'assoluta originalità e la totale novità del suo lavoro con queste parole:
«Il mio libro è un'altra cosa: pieno di responsabilità e di spine. Ed utile anche. Lacune? e sì che ce ne sono. Qualche sguardo troppo frettoloso? e lo credo. Qualche cantonata? è anche possibile. Ma bisogna pensare alle difficoltà di un lavoro di questo genere, allo sforzo cioè di chiudere una letteratura così frondosa ed esuberante in un libretto di trecento pagine dove ci fosse un po' di tutte le cose necessarie: quadro e giudizio critico, scorcio di personalità, informazioni bio-bibliografiche e saggi di quei poeti tra i meno noti, i più caratteristici, e i più degni».
Passando alla struttura del libro, ecco i titoli dei capitoli in cui è diviso:


I. Nel solco dell'ottocento
II. Affinità e sondaggi
III. Il periodo della dissoluzione
IV. Uso trascendentale della poesia
V. Pudore della poesia
VI. Poesia: troppo o troppo poco
VII. La poesia nuova
Aggiunte
Appendice.


Ogni capitolo comprende una breve presentazione del curatore, sintetiche note bio-bibliografiche dei poeti inclusi con qualche veloce giudizio critico e, per alcuni di essi, un'antologizzazione di testi sia in versi che in prosa. Alla fine dei sette capitoli l'autore ha inserito una sezione intitolata "Aggiunte" in cui vengono recuperati alcuni poeti sfuggiti (parole del Mignosi) che avrebbero dovuto trovar posto nei capitoli principali; per pochi di loro è presente anche una scarna antologizzazione.
Chiude l'opera un'appendice che comprende brevi notizie su altri duecento poeti che Mignosi ammette di conoscere poco o di non conoscere affatto.
Prendendo in considerazione la sola parte antologica del libro, risulta netta la sua parzialità e la sua incompletezza. La parzialità è dimostrata dalla prevalenza assoluta di poeti (o prosatori) siciliani, spesso anche poco significativi, tra i quali c'è anche il curatore. La incompletezza è evidente in quanto vengono praticamente esclusi quasi tutti i nomi più importanti della poesia italiana del primo Novecento.
Ecco infine l'elenco, diviso per capitoli, dei poeti antologizzati in "La poesia italiana di questo secolo".
 
 
NEL SOLCO DELL'OTTOCENTO
Ettore Arculeo, Giovanni Alfredo Cesareo, Cecilia Deni, Antonio Fogazzaro, Cristoforo Ruggieri, Santi Sottile Tomaselli.


AFFINITÀ E SONDAGGI
Francesco Cappiello, Franco Caracci, Silvio Cucinotta, Calogero Di Mino, Nino Fici Li Bassi, Angelina Lanza, Giuseppe Longo, Guglielmo Lo Curzio, Diego Valeri.


IL PERIODO DELLA DISSOLUZIONE
Enrico Cardile, Francesco Di Chiara, Ignazio Dràgo, Lionello Fiumi, Armando Mazza, Giuseppe Rossi Barbera.


USO TRASCENDENTALE DELLA POESIA
Antonino Anile, Corrado Curcio, Federico De Maria, Vincenzo De Simone, Giuseppe Fabris, Luigi Fallacara, Augusto Garsia, Augusto Hermet, Ofelia Mazzoni, Corrado Pavolini, Giuseppe Steiner, Nicola Valenza, Pietro Zanfrognini, Alessandro Zirardini.


PUDORE DELLA POESIA
Andrea Agueci, Garibaldo Alessandrini, Arturo Arioti, Rosolino Davy Gabrielli, Vincenzo Guarnaccia, Giuseppe Maggiore, Guido Manacorda, Giuseppe Angelo Peritore, Mario Puccini, Alfonso Ricolfi, Carmelo Ripellino, Luigi Tonelli.


POESIA: TROPPO E TROPPO POCO
Attilio Della Torre.


LA POESIA NUOVA
Ugo Betti, Giorgio Bonavia, Giuseppe Antonio Borgese, Erminio Cavallero, Pietro Mignosi, Gino Novelli, Renzo Pezzani, Luca Pignato, Giuseppe Sciortino.


AGGIUNTE
Giuseppe Cartella Gelardi, Alessandro Caja, Tommaso Nediani, Fortunato Rizzi.



domenica 23 settembre 2012

Stati d'animo d'un suicida

Nebbia Nebbia
Oriente -
Orrore spasimo
brancolamento tra le folgori -
Fuggire fuggire
Ubriacarsi
VUOTO
da cui si può cadere
in una via deserta
albe invernali
suoni bisbetici
pieni di braccia movimentate
voci oscillanti
lumi miagolanti
Assalto di rumori
vermi sul cuore
sulla gola
nel ventre fra i ginocchi
Gesti magici
resuscitanti cadaveri
mani invisibili
che scompongono misteri
pazientemente edificati
Rumori Rumori
Muraglie
gocciolanti umidi spasimi verdi
nomi di donne
amalgamati di nebbia e di velluto:
Leonora - Berenice
Morella - Beatrice
Svolazzamento di baci intorno
ventose di zucchero
e di musica
SBARAGLIAMENTO: crepuscoli
salotti - amori
smaniosità - pesantezza
brrrrrrividi
Morte.


Questa poesia di Alberto Viviani (Firenze 1894 - ivi 1970) fu pubblicata sulla rivista Lacerba il 15 gennaio del 1914. L'autore, in gioventù scrisse dei versi che pubblicò sia in riviste che in raccolte. Si può dire che nelle sue poesie Viviani abbracciò diverse correnti che spopolavano nell'Italia dei primi anni del XX secolo: in particolar modo fu attratto dal crepuscolarismo e dal futurismo. Se c'è un poeta che ebbe come principale riferimento, certamente questo è il suo concittadino Aldo Palazzeschi. Nei versi di Stati d'animo d'un suicida però, si notano piuttosto quelle ben identificabili caratteristiche della poesia futurista che nella rivista Lacerba ebbe modo di esprimersi più che altrove. Va detto comunque che Viviani non si dimostrò quasi mai particolarmente portato verso gli sperimentalismi più arditi dei futuristi; tale considerazione vale anche per questa poesia, che ben s'inserisce nei temi e nelle atmosfere di quelle di altri famosi futuristi come Paolo Buzzi e Luciano Folgore.

giovedì 20 settembre 2012

Poeti dimenticati: Arturo Foà

Arturo Foà nacque a Cuneo nel 1877 e morì nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1944. Fu poeta, narratore, autore di teatro e critico letterario; laureatosi in lettere e filosofia nel 1898, visse fin dalla gioventù a Torino frequentando gli ambienti letterari della città e stringendo amicizia con altri poeti come Francesco Pastonchi e Giulio Gianelli. Nel 1912 pubblicò Le vie dell'anima, raccolta di poesie che mette in luce la tendenza, da parte di Foà, a proseguire la strada tracciata dal suo maestro Arturo Graf e da un altro suo conterraneo: Enrico Thovez. Le opere poetiche successive a queste mostrano un patriottismo un po' troppo enfatizzato, ma non sono prive di versi semplici, a volte malinconici, che si rifanno comunque alla poesia del passato. Malgrado la sua militanza fascista, Foà, in quanto ebreo, nel 1943 fu deportato ad Auschwitz, dove in breve tempo morì.
 

 
Opere poetiche

"Per le navi riunite", Edizione di Fiamma, Torino 1901.
"Per un amore", Streglio, Torino 1903.
"Le vie dell'anima", Lattes & C., Torino 1912.
"I cuori d'Italia", Lattes & C., Torino 1915.
"La Fiumana", S.E.L.P., Torino 1932.
"Mentre il popolo è grande", Lattes, Torino 1935.
"Liriche scelte", Ceschina, Milano 1937.
"Per me e per voi", Lattes, Torino 1940.
 

 
Presenze in antologie
"Poeti per Torino", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Viennepierre Edizioni, Milano 2008.
 
 

Testi
UNA ROSA

Io cammino tra verdi ombre boschive,
sotto trilli di gole e frulli d'ale,
immemore del tempo e della vita.

Ah, che un'umile rosa disfiorita
apparsa sovra un margin di sentiero,
mi porta con il cor fra le tue rive,
o mondo umano o correntia fatale,
ove ogni dolce, ogni diletta cosa,
ruina giorno e notte senza posa
verso il tragico abisso del mistero!

(Da "Le vie dell'anima")
 
 

 
OCCHI DEL SOGNO

Fu come un orto nel fiorente aprile:
Egli amò le serene ore fra i giochi
Del sole sopra i mandorli ed i peschi.

Amò l'odore delle rose e il dolce
Svolìo di qualche futile ombra d'ali
Al molle riso dei tramonti d'oro.

E amò le sere glaucoazzurre e l'orto
Era sì breve e fra le stelle e i fiori
Correano lunghi tremolii perlati.

L'orto è chiuso, per sempre. Egli ha dinanzi
Solo una via nuda e deserta. A quale
Destino? Orto del sogno! Occhi del sogno!

(Da "La Fiumana")



venerdì 14 settembre 2012

La casa nella poesia italiana decadente e simbolista

La casa spesso simboleggia l'individuo con tutte le caratteristiche soggettive, diverse a seconda della personalità; per questo può manifestare estroversione (casa dalle finestre aperte) o introversione (casa chiusa e misteriosa), superbia (palazzo fastoso) o umiltà (catapecchia) e via dicendo. Da Lucini a Palazzeschi, da Ceccardi a Govoni, la casa è stata non di rado argomento delle poesie; nei crepuscolari si ritrova spesso come simbolo di un passato felice e pieno di rimpianti, ormai lontano e irrecuperabile; da qui la ricorrente presenza di edifici vecchi e cadenti, o addirittura in fase di demolizione. Non rari i riferimenti alle favole con conseguenti immagini di case improbabili nelle cui descrizioni si avverte una attenzione primaria ai colori delle facciate ed agli abitanti di queste, siano essi animali o persone, che a loro volta divengono simboli da decifrare.
 
 
 
Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Una vecchia casa" in "L'Oratorio d'amore" (1904).
Antonio Beltramelli: "La casa e la cicogna" in "I Canti di Faunus" (1908).
Ugo Betti: "La casa morta" e "I palazzi di smeraldo" in "Il Re pensieroso" (1922).
Fausto M. Bongioanni: "Case di Lungo Po" in "Venti poesie" (1924).
Giuseppe Casalinuovo: "Palazzo chiuso" in "La lampada del poeta" (1929).
Guelfo Civinini: "La méta" in "L'Urna" (1900).
Sergio Corazzini: "La finestra aperta sul mare" in "Le aureole" (1905).
Adolfo De Bosis: "Casa, o diletto nido" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La vecchia casa" in "Leggenda della vita" (1909).
Federico De Maria: "Casa" da "La ritornata" (1933).
Diego Garoglio: "Villino chiuso" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Luisa Giaconi: "La casa sul monte" in "Tebaide" (1909).
Cosimo Giorgieri Contri: "Vecchio stabilimento" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri Contri: "La casa antica" in «La Riviera Ligure», dicembre 1900.
Corrado Govoni "Il palazzo dell'anima" e "Palazzo bisestile" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Il palazzo delle principesse salamandre" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "I sonetti del ritorno" in "La via del rifugio" (1907).
Virgilio La Scola: "La casa del passato" in "La placida fonte" (1907).
Virgilio La Scola: "Domus Aurea" in "Poesia", giugno 1908.
Giuseppe Lipparini: "La casa" in "Lo specchioe delle rose" (1898).
Gian Pietro Lucini: "Una casa" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).
Remo Mannoni: "Case popolari" in "Fermento" (1931).
Tito Marrone: "Un poeta" in "Liriche" (1904).
Tito Marrone: "Il balcone" in «La fronda», giugno 1905.
Nicola Moscardelli: "La casa" in "La Veglia" (1913).
Angiolo Silvio Novaro: "La casa del Signore" in "La casa del Signore" (1905).
Arturo Onofri: "Vorrei per me una casetta..." in "Canti delle oasi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "La casa di Mara" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "A palazzo oro ror" e "Palazzo Mirena" in "Lanterna" (1907).
Francesco Pastonchi: "Casa in collina" in "Sul limite dell'ombra" (1905).
Giuseppe Piazza: "Le case" in "Le Eumenidi" (1903).
Yosto Randaccio: "Casetta bianca" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "I casolari" in "Il libro dei frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "Case in demolizione" in "Le Evocazioni" (1909).
Giovanni Tecchio: "Domus conclusa" in "Mysterium" (1894).
Domenico Tumiati: "La casa del grande albero" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Carlo Vallini: "Da questa vecchia casa..." in "La rinunzia" (1907).
 
 

 
Testi 

UNA CASA
di Gian Pietro Lucini

Glicine scapigliate, alle ringhiere
malinconiose, languon di viola
a coronar l’ogive alte e severe.
Ma in sulla porta brilla una parola
brunita d’or, divisa a uno scacchiere
araldico e mi turba. Questa sola
farà ch’io tenti all’usciuolo. Chimere?
Ed oltre, e poi? Singhiozza una vivuola

come un pianto e una voce fresca intona
un antico mottetto ed obliato.
Questa casa di sogno, dentro al bosco
delle grigie illusioni, s’abbandona
al groviglio dei rami, ed un malato
pino s’educa in corte nano e fosco.

(Da "Prose e canzoni amare")

martedì 11 settembre 2012

Ritorno

Dopo dieci anni ritorno
Ne la mia città natale.
Deh, come ne ‘l nuovo soggiorno,
nulla parmi a ‘l vecchio eguale!

Mutate le case, le strade,
le insegne, - ma più le persone:
odor di sfiorite corone
l’aria ed il mare pervade.

Odore di vecchie cose
àlita da le porte:
pianto di cose corrose,
sorriso di cose morte.

I bimbi d’allora, gli eguali,
non li riconosco più:
quali sono vecchi, e quali
son dileguati laggiù…

laggiù, ne la correntia
de ‘l Tempo, che tutto muta;
o laggiù, su la grigia via
de i Morti, oltre il tempo sperduta!

Antonio Cippico

(Dalla rivista "Poesia", maggio/giugno 1905)

domenica 9 settembre 2012

Strade native

E noi cammineremo nel tardo crepuscolo soli,
soli, parlando rado, stringendoci rado vicino:
l'aria sarà di perla, il cielo parrà di rubino
alto, sul piano bigio, solcato dalli ultimi voli.


E sentiremo, lente, sui margini umidi, a stuoli,
cader le foglie; o stridere un carro da un campo vicino;
da qualche porta aperta vedremo brillar di rubino
una fiammata: e china qualch'ombra su neri paioli.


Umili vite, ah bene di me più felici, più molto
felici; e sempre sempre rimaste fra i taciti olivi
presso le dolci case, sottessi i bei colli solivi
che alle sommesse case promettono il mite raccolto.


Altre ombre vengon, vedi: discendono lente, con folto
carco di rami a spalle, le strade rupestri dei clivi:
ecco: e la via maestra li accoglie tra' suoi radi olivi
donde le rade case già occhieggian di un lume raccolto.


Strade nel tardo autunno dilette a percorrere allora!
Sai tu come più lungo indugi il crepuscolo ai piani,
come più solitarie da' lor campanili lontani
piangano le campane traverso il silenzio dell'ora?


Sai tu nell'ombra le ombre? Sai tu nella strada, che odora
di cose morte, il fiato che spande Novembre sui piani,
freddo e pur anche intriso di odori di fiori lontani,
fiori in Ottobre morti che pure profumano ancora?


Cammineremo lenti. Ed io ti dirò la mia vita
che tu non sai... La vita già presso all'autunno. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto, ch'io ti potrò meglio parlare
così senza vederti, per via già di ombre alte vestita.


Ch'io parlerò più sereno se le tue tenere dita
intreccieranno a queste mie mani dolenti. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto... Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


Non levar li occhi. Ascolta. Mi turbano troppo i tuoi occhi
che ancor l'amore accende, cui tenta i bei cigli la gioia:
per me la gioia è morta. Conviene l'amore che muoia
anche. Tu non guardarmi. Mi par che il tuo sguardo mi tocchi.


E non voglio io sentire riaccarezzarmi i ginocchi
dalla tua veste. Adesso io son come un'ombra. E la gioia
mi ucciderebbe forse. Ah tu non vorresti ch'io muoia:
tu non guardarmi. Lascia che tutto il mio pianto trabocchi.


Pianto che niun più seppe, che troppo già pesami ormai
sul faticato cuore. Chi seppe il mio pianto? Non tu
desiderata allora, nel tempo diletto che fu
de' nostri giovani anni, delli anni che non obliai.


Lunge tu fosti. E in altri giardini ti arriser rosai:
or non tu rose porta su l'ultima mia gioventù :
quello che non è più tu sai che non fu; che non fu
mai. Noi ci amammo un tempo? Bene è: non ci amammo noi mai.


Pure è soave ancora trovarci, al pendìo della vita.
Piacquemi assai l'autunno. Non è questo, autunno? Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto. Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


E fa ch'io senta solo, a tratti, le piccole dita
tue di bambina ancora sulli occhi miei colmi d'amare
lagrime. E non parlare. Non puoi consolarmi. Mi pare
che la mia pena taccia. Ma non dirmi nulla. È la vita.


(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio" di Cosimo Giorgieri Contri, Lattes, Torino 1903, pp. 53-56)

venerdì 7 settembre 2012

Settembre in dieci poesie

SETTEMBRE

Già l'olea fragrante nei giardini
d'amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d'aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.


Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell'onda che rotola minuta.


(Vittorio Sereni)



***



SETTEMBRE

Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse


fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi


giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.


(Attilio Bertolucci)



***



SONETTO DI SETTEMBRE

Settembre, qual dolcezza nuova emana
al lento luminoso dilagare
del sole nelle tue mattine chiare,
dalla mia blanda terra emiliana?


Sembra ogni forma fatta piú lontana
da un vel di sogno e di silenzio: pare
che ogni albero, ogni zolla, ogni filare,
tremi nel sole d’una gioia umana.


Mentr’io, sperduto nei silenzi, ascolto
come ogni frutto in un respiro armonico
d’una celeste ebrietà s’aggravi,


m’appar la terra simile a un bel volto,
ove, come un pensiero malinconico,
passin ombre di nuvole soavi.


(Carlo Vallini)



***



SETTEMBRE

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.


(Luigi Pirandello)



***



ARIA DI SETTEMBRE

Mortale al suo bel volto,
come declina annoso
l'autunno e per ascolto
la chiama al suo riposo.


La sera spoglia il vento
dell’ultimo colore
e spera che il suo lento
declino sia l’amore


nostalgico del fuoco.
Il freddo autunno rade
le foglie, strema un fioco
riverbero di strade.


E l'ombra reca odore
di bosco perché trami
la sera anche il chiarore
delebile dei rami.


Come una voce invita
nel canto dalle case
si rendono alla vita
convinte le persuase


dolcezze della luna.

(Alfonso Gatto)



***



FIN DI SETTEMBRE

Ed ora, Estate, addio! Nel cenerino
cielo il tuon romba e di lontan minaccia.
Oh tristo, su la livida bonaccia
del mar senz'onda, cielo settembrino!


Oh del settembre che declina e muore
congedi tristi! un brontolio tetro
dilegua il tuon su l'ultimo Appennino:
l'ultimo tuono e poi più nulla. E il cuore,
che sospirando si rivolge indietro,
ripensa la sua vita e il suo destino.
Pensa e sospira, come un pellegrino
che va senza riposo e mai non giunge;
che sosta un tratto a rimirar da lunge
la via percorsa, e seguita il cammino.


(Giovanni Marradi)



***



ORA SETTEMBRINA

Levato, il vento inebriò la selva.
Ebbro anch'esso del fragoroso volo
l'ali batteva cupide di spazio:
piega e sbianca il fogliame al suo passare.
E le starne si adunano, in sospetto
di quello stormire alto ampio all'intorno
e dimenare di furenti braccia.
Mentre, a ridosso dell'annoso muro,
il cacciatore, là, sotto la frasca
dell'osteria seduto in pace, beve
limpido vino e il ciel terso rimira.
A' suoi piedi sognando, il bracco vede
lepri fuggire, e guàiola nel sonno.


(Gustavo Botta)



***



SETTEMBRE

Ancor nei rovi occhieggiano le more
come pupille nere dì ragazze;
e lungo i campi odorano le mazze
esili del finocchio, aperte in fiore.


Ma tra i pampani, ch'arde l'alidore,
vedi le pigne gialle e paonazze.
Allegri! Presto scricchieran le razze
dei carri, con l'aiuto del Signore,


sotto il peso dell'uva. Il tino aspetta.
E tu, nuvola, passa in fretta in fretta.


(Pietro Mastri)



***



SETTEMBRE NAPOLETANO

Frondente carro da le purpuree
issate lune, quali i cocomeri
spaccati in giocondi emispèri,
con codazzo di popol pe' i trivi!


Errante grido di fruttivendoli,
che canti i fichi l'uva le pèrsiche
e i colli assolati di tufo
ove asciugano i panni ne 'l vento!


Mattine azzurre, quando su l'organo
coro di donne lauda la Vergine
e i vetri de 'l vecchio convento
si colorano, freschi, di cielo!


Le dita belle dunque d'un angelo
toccar le corde de 'l nostro spirito?
A i cieli ei si fugge si fugge,
come l'ultimo sole pe' i monti.


(Francesco Gaeta)



***



SETTEMBRE

Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano –
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s'incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle –
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall'acqua –


(Antonia Pozzi)


domenica 2 settembre 2012

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.



Tra le poesie più ricordate di Salvatore Quasimodo (1901-1968), dà il titolo all'omonimo volume poetico del 1942. Questi versi in realtà erano compresi in un'altra poesia: "Solitudini", che faceva parte di "Acque e terre" (1930), prima opera in versi del poeta siciliano. Il testo, molto breve, bene esprime il concetto di estrema solitudine che caratterizza l'intera esistenza dell'uomo sulla Terra, mentre il "raggio di sole" con cui viene trafitto è una sorta di piccola consolazione, che potrebbe essere rappresentata da brevi momenti di felicità o sentimenti similari. L'ultimo verso eloquentemente chiarisce che la fine della vita (la sera) giunge assai presto. È probabilmente la poesia oggi più conosciuta di Quasimodo, e questo si deve all'estrema essenzialità che la caratterizza: appena tre versi per esprimere un concetto esistenziale difficilmente equiparabile ad altri componimenti in versi. L'unico riferimento possibile è certamente Giuseppe Ungaretti, infatti alcuni suoi versicoli molto somigliano alla poesia di Quasimodo: liriche brevissime eppure immortali perché capaci di estrapolare un sentimento, una meditazione o una semplice sensazione che accomunano la forma mentis della stragrande maggioranza dell'umanità.