Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
sabato 31 marzo 2012
La Domenica delle Palme in versi
Alcuni poeti italiani, tra la fine dell'Ottocento e la fase iniziale del Novecento, hanno scritto delle poesie dedicate a tale ricorrenza. Ho scelto tre poesie che ben rappresentano l'evento religioso, una volta decisamente più sentito dalla popolazione, che era molto legata alle tradizioni ed alle liturgie cristiane. La prima, di Giovanni Pascoli, è un madrigale che fa parte della raccolta "Myricae" e nasce da un proverbio popolare: «La domenica dell'ulivo ogni uccello fa il suo nido»; da qui la descrizione che ne scaturisce, di uccelli che, proprio durante la Domenica delle Palme, si industriano nel costruire i loro nidi fatti di foglie secche, radiche e fuscelli.
La seconda poesia è di Marino Moretti, appartiene al volume "Poesie scritte col lapis" e trae spunto dal tradizionale ramoscello d'ulivo, portato in casa dalla madre del poeta, per sviluppare la sua visione grigia (come il colore delle foglie d'ulivo) e malinconica dell'esistenza, pienamente conforme al crepuscolarismo, di cui il Moretti fu un importante esponente.
L'ultima poesia è di Pietro Mastri ed è inclusa nella raccolta "La via delle stelle". In questi versi il poeta, già anziano, sembra instaurare un colloquio esortativo con sè stesso, incoraggiandosi ad andare in chiesa nel giorno in cui si distribuiscono i rami benedetti, e di portarne a casa alcuni per i suoi famigliari più stretti (la moglie e il figlio), continuando così la consuetudine cristiana imparata dai suoi genitori.
LA DOMENICA DELL'ULIVO
di Giovanni Pascoli
Hanno compiuto in questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell'ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l'alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d'un rivo,
nell'ombra mossa d'un tremolìo d'oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d'ape, un vol di maggiolino.
LA DOMENICA DELLE PALME
di Marino Moretti
Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la stanchezza
del giorno domenicale,
mentre la madre mia buona
entra con passo furtivo
nella mia stanza e mi dona
un ramoscello d'ulivo...
E se'n va. Tutto quello
ch'ella vuol dirmi lo dice
a questo suo ramoscello
che adornerà una cornice:
adornerà la cornice
dorata a capo del letto
l'ulivo ch'è benedetto,
l'ulivo che benedice;
porterà pace e abbondanza
nelle casette più sole,
rallegrerà un po' la stanza
dell'infermo, senza sole,
ricorderà poi con tanta
fede l'ingresso solenne
di Cristo a Gerusalemme
nella domenica santa!...
Ulivo, e a me che dirai?
Le stesse cose anche tu?
se una parola: giammai,
se due parole: mai più?
Nulla tu doni al mio cuore
che lo consoli un istante,
ed il mio sguardo tremante
non vede in te che un colore:
il color triste di tutto
il mondo che non à sole
e piange tacito e vuole
vestirsi di mezzo lutto;
il colore della noia
e dei fior di bugia,
il colore della mia
giovinezza senza gioia;
il colore del passato
che ritorna ben vestito,
il color dell'infinito
e di ciò che non è stato;
il color triste dell'ore
così lente a venir giù
dai lor numeri, il colore
che non è colore più!
L'OLIVO BENEDETTO
di Pietro Mastri
Lo sai, che su tutti gli altari,
oggi benedicon l'olivo?...
Domenica dell'olivo:
domenica di pace!
Andiamo, vecchio: entriamo.
La chiesa è pe' tuoi pari;
che lì, se non altro, si tace...
Chiedine un piccolo ramo,
di quell'olivo di pace:
portalo a casa con te.
È ancora umido e vivo
come una fronda novella;
pieghevole come un giunco;
fresco così che le foglie
odorano a troncarle;
odorano più che alle nari,
d'amarognolo, al palato,
come l'olio appena torchiato.
Chi sa da quale adunco
pennato fu còlto stamani!
Chi sa da quali mani,
leggère alle cose leggère
e alle pesanti dure,
fu posto in quel paniere
medesimo, dove si bruca
la nera bacca!... Era di primo giorno
forse; e perciò, vedi?, conserva ancora
su di sé quel pallore
d'alba - allorché la luna mattutina
vanisce nel cielo di perla
come una festuca
incenerita, e ogni stella
si spegne in un pianto di brina...
Portalo teco, sul cuore;
portalo con sereno ciglio.
Danne una ciocca a tua moglie
e una ciocca a tuo figlio.
Fa come un tempo la madre
tua, benedetta!, faceva con te.
domenica 25 marzo 2012
Incipit di "Sostiene Pereira" (in ricordo di Antonio Tabucchi)
(Da "Sostiene Pereira" di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, Milano 1995, p. 7)
Notturno
e m'ha d'improvviso destato:
rintocco di qualche campana
lontana lontana lontana,
pispiglio di topo fugace,
stridìo di tignuola vorace,
o pianto di bimbo malato
in van dalla madre cullato?
Guaìto di cane errabondo,
canto a stesa di vagabondo,
furtivo richiamo d'amante,
o rantolo d'agonizzante?
Un suono indistinto ha echeggiato,
e m'ha d'improvviso destato.
"Notturno" è una poesia di Mario Venditti (1889-1964), scrittore partenopeo oggi praticamente ignorato che ebbe discreta fama verso la fine della seconda decade del XX secolo, quando fu collaboratore di riviste letterarie valide come "La Diana" e pubblicò alcune raccolte poetiche come "Il terzetto" (1911), da cui è tratta questa poesia, e "Il cuore al trapezio" (1921). "Notturno" risente molto della poetica di Giovanni Pascoli; lo si nota facilmente se si legge, del poeta emiliano, la sezione "Misteri" di "Myricae". Venditti vuole qui accentuare il carattere enigmatico del "suono indistinto" che lo ha destato dal sonno per giungere ad una considerazione: la vita è piena di episodi misteriosi che percepiamo, ma che mai saremo in grado di spiegare.
sabato 24 marzo 2012
Da "Canne al vento" di Grazia Deledda

venerdì 23 marzo 2012
Poeti dimenticati: Giacinto Ricci Signorini

Opere poetiche
"Rime", Vignuzzi, Cesena 1888.
"Il libro delle rime", Vignuzzi, Cesena 1890.
"Romagna", Zanichelli, Bologna 1891.
"Thanatos", Società Coop. per l'arte tipogr., Cesena 1892.
"Elegie di Romagna", Società Coop. per l'arte tipogr., Cesena 1893.
"Poesie e prose", Zanichelli, Bologna 1903.
"Poesie e prose scelte", Galeati, Imola 1966.
Presenze in antologie
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 346-351).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume terzo, pp. 371-377).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 667-673).
giovedì 22 marzo 2012
Gli animali nella poesia italiana decadente e simbolista
Poesie sull'argomento
Diego Angeli: "Una rondine" in "L'Oratorio d'Amore" (1904).
Antonio Beltramelli: "Nei giorni lontani..." in "I Canti di Faunus" (1908).
Enrico Cavacchioli: "Le procellarie" in "L'Incubo Velato" (1906).
Enrico Cavacchioli: "Il girino scettico in amore" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Il Chiù" in "Le consolatrici" (1905).
Sergio Corazzini: "L'agnello" in «Capitan Fracassa», dicembre 1902.
Sergio Corazzini: "Il gatto e la luna" in «Marforio», ottobre 1904.
Federico De Maria: "Le Colombe", "Gli Agnelli" e "La Canzone dell'Usignolo" in "Voci" (1903).
Federico De Maria: "I Tarpan" in "La Leggenda della Vita" (1909).
Alessandro Giribaldi: "Le mosche" e "Le formiche" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "Passero solitario" e "I paoni" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Le litanie del mao" in "Fuochi d'artifizio" (1905).
Corrado Govoni: "La chiocciola", "Le farfalle", "Le api" e "Ai corvi" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Gli aironi" e "L'usignuolo" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "L'amico delle crisalidi" in "La Riviera Ligure", Agosto 1909.
Guido Gozzano: "Le farfalle" in "Poesie e prose (1961).
Arturo Graf: "Corvo" in "Medusa" (1880).
Amalia Guglielminetti: "L'etéra" in "Le Seduzioni" (1909).
Gian Pietro Lucini: "Mitico serpe candido e rosato" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini: "Rondini" in "Poesia", agosto/settembre/ottobre 1909.
Mario Malfettani: "I gufi" in "Fiori vermigli" (1906).
Tito Marrone: "Gli usignoli" e "Il gatto" in "Liriche" (1904).
Fausto Maria Martini: "Le colombe" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "La lucciola e il serpente" in "Panem nostrum" (1907).
Fausto Maria Martini, "Le rondini" in «Noi e il Mondo», maggio 1914.
Pietro Mastri: "L'usignuolo", "Il giumento bendato" e "Il cuculio" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Pietro Mastri: "L'ultima cicala" e "Le pecorelle" in "La fronda oscillante" (1923).
Marino Moretti: "La domenica dell'orso" in "Poesie scritte col lapis" (1910).
Angiolo Orvieto: "L'alcione" e "Rondini" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Giovanni Pascoli: "La civetta" e "Il passero solitario" in "Myricae" (1900).
Giovanni Pascoli: "Il cane notturno" in "Odi e Inni" (1906).
Guido Ruberti: "Volo di corvi" e "La mandra" in "Le fiaccole" (1905).
Fausto Salvatori: "La Rana" in "La Terra promessa" (1907).
Emanuele Sella: "I cani" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'airone" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "Il pappagallo" in "Viburna" (1905).
Diego Valeri: "Rondini" in "Crisalide" (1919).
Giuseppe Zucca: "Le civette" in "Io" (1921).
Testi
I TARPAN
di Federico De Maria
L'ardor della caucasëa pianura
in estate li inebbria come fieno
che fermenti, spandendo a l'aria pura
un suo veleno
Lussurioso; una frenata e pazza
sete di spazî prende allor l'armento
dei poledri che, libero, scorazza
emulo al vento.
Allor, d'un tratto, come ad un comando
improvviso, si slancia la grande schiera
serrata a corsa folle, svolazzando
ogni criniera
Sovra i mobili dorsi: e tutte sono
simili a scapigliata selva a volo.
Sotto il galoppo con fragor di tuono
rimbomba il suolo.
Forse ànno visto a l'orizzonte. Al lume
del tramonto, il profilo di più calme
e fresche plaghe: un lago d'oro, piume
verdi di palme,
Frescure ombrose, pascoli fioriti,
tutta una meraviglia non mai vista
nella lor steppa ignuda: e son partiti
a la conquista.
Sono partiti, e il loro calpestìo
frenetico schizzar fa sterpi, fanga
e ciottoli: rovescian da un pendìo
come valanga,
S'arrampicano coi garetti elastici
pei clivi scabri, con balzi magnifici
i borri e i fossi varcano, fantastici
come ippogrifi,
Protesi gli occhi al miraggio: Sfavilla
la viva roccia talora a l'attrito
de l'ugna, e tra l'ansimar spesso squilla
qualche nitrito.
Ma quando l'ombra, come una palude
aerea lenta cielo e steppe invade
da occidente, ed ai lor occhi chiude
tutte le strade,
S'arrestan essi (e sotto la lor pelle
fumante i tesi muscoli ancor vibrano):
un'aurea nube tra le prime stelle
sola si libra
Su l'orizzonte dove sfolgorare
videro il portentoso paesaggio:
la notte ferma su l'erboso mare
il lor viaggio.
Ma non importa: bella fu la corsa!
Essi lungo rammarico non sanno.
Stanotte sotto il pio raggio dell'orsa
riposeranno,
E se domani splenderà nel cielo
ancor la visione che fu tolta
loro da l'ombra, qual turbine anelo
un'altra volta
andranno. Andranno: essi giocan con quella
visïone che correre li fa.
È loro gioia sol la corsa bella
in libertà.
(Da "La Leggenda della Vita")
mercoledì 21 marzo 2012
Spariranno anche le rondini
martedì 20 marzo 2012
Prima primavera vera
qui sulla terra non l'ho vista mai,
con que' vostri augelletti innamorati
che stanno gorgheggiando a' dolci rai
e i fiorellini che smaltano i prati
e gli amanti che giran tra' rosai...
Io vedo campi verdi oppur vangati
con qua e là meli bianchi e letamai,
eppoi quercioli secchi e fiori gialli,
e per le strade di già polverose
merde fresche di manzi e di cavalli,
e nelle sere vagamente afose
il cucco e il chiù nemmeno a bastonalli
smetton le lor chiamate lamentose.
L'esordio poetico di Giovanni Papini avvenne nel novembre del 1912, quando pubblicò sulla rivista "La Voce", quattro componimenti in versi raggruppati sotto il titolo: "Sonetti plebei". Ciò è dichiarato dallo stesso Papini alla fine di tali pubblicazioni, nel seguente testo:
«M'induco a pubblicare i primi quattro d'una sessantina di sonetti plebei di spiriti e di forme che scrissi in campagna tre anni fa. È la prima volta in vita mia, che stampo versi e forse sarebbe stato meglio aspettar dell'altro».
Il titolo scelto da Papini, vorrebbe specificare il carattere non altissimo di questi sonetti; in effetti leggendoli è facile capirlo: trattasi infatti di composizioni giocose, ironiche e alcune volte provocatorie che possono ben rientrare nella poesia satirica. Questo discorso vale anche per i versi riportati sopra, in cui l'autore gioca a cominciare dal titolo e prosegue sullo stesso tono nel contenuto, che parla di una primavera tutt'altro che idilliaca e poetica; insomma il contrario, come afferma lui stesso nei primi due versi, della stagione descritta generalmente e banalmente dai poeti: c'è anzi un abbruttimento evidente, che coinvolge la vista (del letame e dello sterco presenti sul terreno), e l'udito (dei lamenti degli uccelli come il cuculo e l'assiuolo) di chi osserva e sente ciò che offre la natura nel tempo primaverile.
"Prima primavera vera", così come gli altri tre "Sonetti plebei" non fu più pubblicato dal Papini (e nemmeno lo furono i futuri sonetti annunciati). Lo si ritrova soltanto nel volume che comprende l'intera opera dello scrittore toscano: "Tutte le opere", edito da Mondadori alla fine degli anni '50 del XX secolo.
lunedì 19 marzo 2012
Da "Ricordi di scuola" di Giovanni Mosca

domenica 18 marzo 2012
Marzo
rompi e l'ombra delle chiese.
Ed il pavido borghese
che nell'essa porta il gelo
dell'inverno trapassato
e col corpo imbarazzato
geme il reuma ed il torpore,
che nel volto porta il velo
della noia ed il pallore
della diuturna morte,
si rinchiude frettoloso
si rinvoltola accidioso
e rincardina le porte.
Se lo scuoti e lo palesi,
marzo giovane pazzia,
la sua trista nostalgia
sogna il sonno di sei mesi.
Ei ti teme, dolce frate
marzo, terrore giocoso
ma tu passi vittorioso
sbatti gli usci e le impannate
con le tue folli ventate.
E la densa polve sveli
nel tuo raggio popolato
e sul legno affumicato
i vetusti ragnateli.
Poich'il termine al riposo
canti, marzo adolescente,
t'odia questa buona gente,
marzo luminoso.
Ma se t'odiano addormiti
nelle coltri riscaldate
ed i passeri impauriti
nelle siepi denudate,
t'ama il falco su nell'aria
sabato 17 marzo 2012
Fiorita di marzo
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.
Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo — e al tuo passar l'erba germoglia
o Primavera, o gioja de' miei occhi.
Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell'orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,
essi, ne' loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l'aria densa di languori;
e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!...
È questa di Ada Negri, una delle poesie che fanno parte della raccolta "Dal profondo", uscita nel 1910. Segna un passaggio decisivo, da parte della poetessa lodigiana, verso toni marcatamente più contemplativi e, nello stesso tempo, meditativi. È così anche in "Fiorita di marzo", dove la Negri osservando lo spettacolo dei bellissimi, minuti e fragili fiori che compaiono verso la metà del terzo mese dell'anno sui rami di alcuni alberi da frutta, si rende conto di quanto essi siano simili al periodo della vita umana che coincide con la gioventù; periodo meraviglioso ma di brevissima durata, così breve che, una volta passato si ha l'impressione di aver vissuto in un sogno e non nella realtà. Quando scrisse questi versi Ada Negri si apprestava a raggiungere la soglia dei quarant'anni, che per una donna spesso voleva dire l'inizio della vecchiaia (si parla di un secolo fa naturalmente), ecco il motivo di tale e tanta amarezza provocata nell'animo della scrittrice dal vedere l'imparagonabile rappresentazione della rinascita vitale che si manifesta, in primavera, principalmente con la nuova fioritura delle piante.
venerdì 16 marzo 2012
Poeti dimenticati: Giuseppe Cesare Molineri
Opere poetiche
"Al'aperto", Casanova, Torino 1876.
"Poesie (1865-1906)", Lattes, Torino 1915.
Presenze in antologie
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 245-250).
"La poesia scapigliata", a cura di Roberto Carnero, Rizzoli, Milano 2007 (pp. 435-440).
mercoledì 14 marzo 2012
Antologie: "Poeti minori del secondo Ottocento italiano"

domenica 11 marzo 2012
Da "Il taglio del bosco" di Carlo Cassola
Il taglio del bosco è il titolo di un racconto lungo scritto da Carlo Cassola (Roma 1917 – Montecarlo 1987). Uscì per la prima volta sulla rivista Paragone, nel dicembre del 1950. Cassola poi lo inserì, a partire dal 1954, in edizioni che comprendevano anche altri suoi racconti. Il frammento che ho trascritto – per me significativo – l’ho estratto dal libro omonimo (vi si legge tale racconto insieme a Rosa Gagliardi e Le amiche), pubblicato dalla Rizzoli di Milano nel 1980.
Prima di leggere il libro, vidi, in replica su un canale della Rai, un film per la televisione assai bello, ispirato proprio al racconto; la regia è di Vittorio Cottafavi, mentre il protagonista principale: Guglielmo, è interpretato da Gian Maria Volontè.
Ciò che maggiormente mi colpì, sia guardando il film che leggendo il libro, fu il malessere esistenziale di Guglielmo - vedovo da poco tempo e padre di due bambine - che praticamente rinuncia alla vita a causa del forte dolore non mai superato completamente. Guglielmo è un uomo solo e avvilito, che continua a vivere soltanto perché deve farlo, ovvero perché ha il dovere di crescere nel miglior modo possibile le due piccole figlie. Non vuole più ricominciare, né sperare in una nuova vita sentimentale; per questo motivo vorrebbe che il tempo passasse velocemente, e che le figlie fossero già grandi e lui vecchio; in tal modo avrebbe ancora poco tempo da vivere, e la sofferenza, insieme alla sua morte, finalmente svanirebbe.
Da "Il mistico sogno" di Gabriele D'Annunzio

sabato 10 marzo 2012
Ohimè che cosa è accaduto
venerdì 9 marzo 2012
[Marzo lucendo nell'aria]
giovedì 8 marzo 2012
Una poesia per Miss Cavell
LA FUCILAZIONE DI MISS CAVELL
Lo scrocco secco dei fucili
suonò di contro al muro unto di sole
seguito dalla scarica vadente.
S'allontanarono battendo i piedi.
Più non c'era sull'erba così verde
che un mucchietto di cenci
spruzzolato di sangue.
Ma più buona e più pura, oh quanto!
eri tu, o terra, con intorno
come un odore nuovo di viole;
ma nell'infame giorno
più bello e santo
tu eri, o sole.
(Da "La Diana", novembre/dicembre 1916)