Un po' di terra smossa.
Non un fiore,
non un pianto,
solo qualche sguardo fugace.
Questo è il timbro
dei dimenticati.
Pur riconoscendo i miei evidenti limiti, anch'io ho avuto la sfacciataggine di scrivere dei versi. I primi risalgono a cinque lustri or sono, più o meno; fu, probabilmente, all'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, ovvero quando nacque in me la passione per la poesia. Intitolai questo mio primo componimento Una croce di legno. È sicuro che non faticai più di tanto nel redigerlo, visto che è così breve da definirsi, più appropriatamente, un epigramma; d'altronde, all'epoca mi rincuorava il fatto che, celebri poeti come Ungaretti e Quasimodo, avessero scritto poesie più corte della mia. L'argomento riguarda i poveri morti dimenticati: coloro che hanno lasciato la vita in condizioni di povertà estrema e di solitudine totale. Tutto scaturì dalla mia prima visita al cimitero romano di Prima Porta, nel lontano 1985, in occasione della morte di mio nonno. All'interno del camposanto vidi un campo trascurato, con tante croci di legno; su alcune di esse c'era appeso un cartello che serviva ad identificare il defunto. Io domandai a mia madre il perché di quelle croci così scarne, e lei mi disse che, molto probabilmente, si trattava di persone morte in povertà. Per la verità, io, a ripensarci oggi, non sono affatto sicuro che fosse questa la spiegazione reale, e nemmeno sono a conoscenza di come vengano tumulate le salme dei poveri; fatto sta che quell'immagine rimase a lungo nella mia testa, insieme al pensiero di tutti quegli esseri umani, come i barboni, che concludono la loro misera esistenza completamente soli e privi di qualsiasi affetto; poi, appena morti e seppelliti, cadono nel dimenticatoio per sempre. Ebbene, a distanza di un lustro o poco più, quell'immagine ancora balenava nel mio cervello, così intensamente da farmi decidere di scrivere pochi versi (i primi) proprio sul tema dei morti dimenticati. Li riportai quindi su un'agenda vecchia, da me ritrovata e rispolverata tra gli oggetti in disuso dei miei genitori. In quest'agenda riportai anche molte ulteriori poesie trovate nei libri di scuola e non solo, insieme a qualche altra mia poesiola. I versi li scrivevo in stampatello, senza maiuscole o minuscole; i titoli delle poesie con la penna ad inchiostro rosso, il resto con la penna ad inchiostro blu. L'autore lo riportavo su una riga al di sotto dell'ultimo verso, sulla destra, in corsivo. Quando ricopiai la mia prima poesia, ebbi vergogna di firmarmi col vero nome, e allora adottai uno pseudonimo: Lamberto Barzeri; col medesimo nome mi firmai anche quando scrissi altri versi.
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