a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido;
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese rinnoverà di gente ogni anno;
e nell'angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito...
E me ne andrò; e sarò solo, senza casa, senz'albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido...
E resteranno gli uccelli a cantare.
(Juan Ramon Jiménez)
Da "Poeti del Novecento italiani e stranieri", Einaudi, Torino 1960
È una bellissima poesia di Juan Ramon Jiménez incentrata sulla morte e sulla vita. La morte che sancisce la perdita di tutto ciò che abbiamo: dei nostri luoghi cari, delle persone che ci hanno amato; per questo il poeta s'immagina, avvenuto il trapasso, che il suo spirito vaghi, inconsolabilmente solo, nel suo giardino fiorito, accorgendosi che oramai è morta tutta la gente da lui conosciuta, perché la vita va avanti inesorabilmente, e le generazioni si susseguono. È, in sostanza, un'amara constatazione: ciò che a noi fu più caro e prezioso scomparirà per sempre con la nostra dipartita e nulla rimarrà oltre ai luoghi che ci videro vivere, gioire ed amare. Un altro poeta, Camillo Sbarbaro, ribadisce il medesimo concetto in questi versi tratti da un'altra splendida poesia: «Di ciò che abbiam sofferto / di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore / non rimarrà il più piccolo ricordo».
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