lunedì 6 febbraio 2012

Cinque epigrammi sull'inverno

Esorcizzare la stagione invernale con 5 epigrammi spiritosi: questo è un tentativo per rendere meno crudele e maggiormente accattivante questo periodo dell'anno particolarmente difficile per svariati motivi. E che l'inverno possa passare in un baleno!



L'INVERNO
Di Giovanni Gherardo De Rossi

Da quel foco ti scosta, in questa face
assai più dolce troverai calore,
disse all'Inverno Amore.
Ma il vecchio replicò: lasciami in pace,
so quanto all'età mia debile e frale
la tua fiamma è fatale.
 
 


PRESO DAL FREDDO...
di Giacomo Leopardi

Preso dal freddo, Empedocle gittossi
nell'Etna ardente: una simil pazzia
forse in estate fatta non avria.
 


 
LE STAGIONI
di Renato Fucini

Dicea la Primavera: «Io porto amore
e ghirlande di fiori e di speranza».
Dicea l'Estate: «Ed io, col mio tepore,
scaldo il seno fecondo dell'abbondanza».
Dicea l'Autunno: «Io spando a larga mano
frutti dorati alla collina e al piano».
Sonnecchiando, dicea l'Inverno annoso:
«Penso al tanto affannarvi, e mi riposo».
 


 
OGGI CH' È IL SEI
di Ernesto Ragazzoni

Oggi ch'è il sei
Dio degli Dei,
è Santa Brigida,
giornata rigida...
e... vilipendio,
non c'è stipendio!...
 


 
BREVE STORIA
di Leonardo Sinisgalli

Piovve tutto l'inverno quell'anno
di scuola, di chiesa, di cortile.
A quell'età bisognava morire.

domenica 5 febbraio 2012

Le acque ferme nella poesia decadente e simbolista italiana

Le acque ferme, spesso rappresentate nella poesia simbolista dalla palude e, più raramente, dallo stagno, simboleggiano una situazione esistenziale statica, di totale immobilità. Questa situazione di stasi è in genere portatrice di sventura che si materializza soprattutto in grave malattia (esistevano ancora, un centinaio di anni fa, in alcune zone palustri della penisola, molti casi di malaria), la quale, conseguentemente, è causa di morte. Non trascurabile è anche il riferimento ad una regressione individuale. Da ricordare infine che l'acqua ferma può riflettere il volto di chi si sporge verso di essa, ecco perciò spiegati alcuni rimandi allo specchio e quindi al proprio inconscio.
 
 
Poesie sull'argomento
Alfredo Baccelli: "Palude romana" in "Poesie" (1929).
Giovanni Camerana: "Maremma" in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Il pozzo" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Francesco Cazzamini Mussi: "Lo stagno" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Gabriele D'Annunzio: "Nella belletta" in "Alcyone" (1904).
Cosimo Giorgieri Contri: "Argine del Brenta" in "Mirti in ombra" (1913).
Alessandro Giribaldi: "Giglio Solitario" in "Il 1° libro dei trittici" (1897).
Guido Gozzano: "Domani" in "Il Piemonte", dicembre 1904.
Arturo Graf: "All'acqua morta" in "Le Rime della Selva" (1906).
Marco Lessona: "Stagno" in "Versi liberi" (1920).
Giuseppe Lipparini: "Al pozzo" in "Stati d'animo e altre poesie" (1917).
Mario Malfettani: "Lo Stagno" in "Il 1° libro dei trittici" (1897).
Remo Mannoni: "La palude" in «Marforio», luglio 1903.
Marino Marin: "I riflessi de l'acqua" in "Il Marzocco", luglio 1897.
Marino Marin: "Le acque rettili" in «Nuova Antologia», luglio 1903
Pietro Mastri: "L'acqua e la stella" in "L'arcobaleno" (1900).
Nino Oxilia: "Col tremolante ventre al sole..." in "Canti brevi" (1909).
Salvatore Quasimodo: "Acquamorta" in "Notturni del re silenzioso" (1989).
Antonio Rubino: "Accidia palustre" in "Versi e disegni" (1911).
Giovanni Tecchio: "Palude" in "Canti" (1931).
 
 
Testi
PALUDE ROMANA

Su la deserta vetustà degli archi
in rosso foco il vespero s'indugia:
nel piano brullo, interminato, stagna
plumbea palude.

Di fra le canne fischia 'l piviere:
gracchia la rana da le verdi muffe:
di malta e strame, povere capanne
sorgono a ripa.

Lividi aspetti, misere parvenze:
lungi, la mandra di lunate corna
il cavalcante bùttero compone,
pungendo a tergo.

Ultimo un colpo dalla caccia s'ode,
mentre la notte desolata cala.
Batte la Febbre a l'umide capanne:
la Morte passa.

(Da "Poesie" di Alfredo Baccelli)

Poeti dimenticati: Giovanni Alfredo Cesareo

Giovannni Alfredo Cesareo nacque a Messina nel 1860 e morì a Palermo nel 1937. Poeta e critico letterario, si laureò in Giurisprudenza; iniziò ad insegnare alle scuole medie, poi ottenne una cattedra di letteratura italiana all'Università di Palermo; si occupò anche di estetica e pubblicò un saggio dichiaratamente anticrociano. La sua opera poetica mostra influssi classicisti e decadenti.
 
 
Opere poetiche
"Sotto gli aranci", David, Ravenna 1881.
"Don Juan", Giannotta, Catania 1883.
"Le Occidentali", Triverio, Torino 1887.
"Gl'inni", Giannotta, Catania 1895.
"Le consolatrici", Sandron, Milano 1905.
"Poesie", Zanichelli, Bologna 1912.
"I canti di Pan", Zanichelli, Bologna 1920.
"I poemi dell'ombra", Zanichelli, Bologna 1923.
"Colloqui con Dio", Zanichelli, Bologna 1928.
"Luci e Ombre", Trimarchi, Palermo 1937.
 
 
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 101-108).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1272-1277).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 337-338).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 73-81).
"Adunata della poesia", seconda edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 142-146).
"La poesia italiana di questo secolo", a cura di Pietro Mignosi, Ciclope, Palermo 1929 (pp. 37-42).
"La nuova poesia religiosa italiana", a cura di Gino Novelli, La Tradizione, Palermo 1931 (pp. 94-100).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 67-69).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 166-168).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 352-358).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 242-256).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 134-136).
"Antologia della Poesia Italiana Cattolica del Novecento", UPSCI, Roma 1959 (pp. 67-70).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 725-733).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. III, pp. 67-74).
"L'altro Novecento, Volume V", a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi, Foggia 1999 (pp. 34-35).
"Sicilia, poesia dei mille anni", a cura di Aldo Gerbino, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001 (pp. 352-354).
 
 
Testi
CAMPANA A SERA

O arcana
Campana
Lontana,

Che in questo silenzio de' campi t'effondi
Con dondi gementi, soavi, profondi,
E i sensi d'ignara mestizia confondi,

O arcana
Campana
Lontana,

Qual'onda di sogni, d'amari rimpianti,
Tu al core mi mandi, ma incerti, ma erranti,
Ma solo all'umana tua voce balzanti!

O arcana
Campana
Lontana,

È l'ora che l'ombre si fanno maggiori,
E affiocano i trilli de' grilli sonori;
È l'ora che han tregua nel sonno i dolori.

O arcana
Campana
Lontana,

Divina è la pace che piove da' cieli :
S'inclinano i fiori su gli umili steli,
E orano in coro le rane fedeli.

O arcana
Campana
Lontana,

Ma erede d'oscuri misfatti che sento
Nel petto echeggiarmi con lungo lamento
Io solo, se t'odo, più cupo divento,

O vana campana che muori nel vento.

(Da "Le consolatrici")

sabato 4 febbraio 2012

Le acque correnti nella poesia decadente e simbolista italiana

Le acque correnti rappresentate da ruscelli, torrenti, canali o cascate simboleggiano una situazione di rinnovamento o comunque in divenire. Analizzando alcune poesie, in "Quiete" di Umberto Saffiotti, è possibile notare un effetto ipnotico provocato dallo scrosciare delle acque, che porta il poeta ad uno stato di estasi e di sogno. In una poesia di De Bosis le acque scorrono con sinistro rumore e trasportano cadaveri, questo orrendo spettacolo è offerto, come lo stesso poeta chiarisce negli ultimi versi, dal "Fiume del Tempo". "Il Canale" di Domenico Tumiati, descrive un'atmosfera incantata: sul corso d'acqua passa una barca di pescatori ed il poeta sente il loro canto malinconico e ne rimane affascinato. Luigi Gualdo da' ascolto ad una voce misteriosa che fuoriesce dalle acque di una cascata, la quale gli suggerisce di far scorrere, dalla sorgente della sua anima, l'acqua dell'amore eterno. Sia Marin che Govoni nei loro sonetti parlano di canali le cui acque scorrono lente e placide, ma nel primo la calma del corso d'acqua, apparentemente innocua, è in realtà portatrice di malattie. Pietro Mastri infine, osservando le acque di un torrente, scorge la propria inquieta anima e gli chiede il motivo di questo suo perpetuo andare.
 
 
Poesie sull'argomento
Mario Adobati: "Lo specchio tra le ninfee" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Pompeo Bettini: "La roccia ha visto molt'acqua passare" in "Poesie" (1897).
Carlo Chiaves: "La sorgente" in "Tutte le poesie edite e inedite" (1971).
Adolfo De Bosis: "Rombano acque correnti per la tenebra" in "Amori ac silentio sacrum" (1900).
Diego Garoglio: "Il rivolo" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Alla Lys" in «Nuova Antologia», ottobre 1907.
Corrado Govoni: "Il canale" in "Gli aborti" (1907).
Luigi Gualdo: "La cascata" in "Le Nostalgie" (1883).
Giorgio Lais: "Il ruscello" in "La Vita Letteraria", luglio 1905.
Marino Marin: "Il canale" in «Nuova Antologia», luglio 1903.
Pietro Mastri: "Il torrente" in "L'arcobaleno" (1900).
Fausto Salvatori, "L'Acqua" in "In ombra d'amore" (1929).
Domenico Tumiati: "Il Canale" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Domenico Tumiati: "Canzone del torrente" in "Liriche" (1937).
Umberto Saffiotti: "Quiete" in "Le Fontane" (1902).

 

Testi
IL CANALE

Stanco, ne la sua lunga uggia, il canale
d'andar per valli e di veder paesi,
se accade che, al frinir de le cicale,
ristagni sotto i salici cortesi.

sembra, tant'è silenzioso e uguale,
un olio che alimenti i cieli accesi ;
e, a notte chiara, dal suo grembo sale
un lucicchìo di perle e di turchesi.

Non baciò mai più terse acque la luna
nè venne mai da' salici d'argento
più dolce tenerezza a le palpebre:

un sogno: e dir che quante nebbie aduna
l'alba, tra le due rive, e caccia il vento,
Circe fatale, attossica la febre.

(Marino Marin)
 
 
 

L'acqua nella poesia decadente e simbolista italiana

L'acqua secondo la filosofia antica è uno dei quattro elementi che costituiscono l'universo, ciò spiega la sua rilevanza sia nel versante esoterico, sia nella poesia dei decadenti e dei simbolisti; tra questi ultimi assume una simbologia variabile che può riferirsi alla vita così come all'anima, all'energia così come alla purezza. Per ciò che concerne il simbolo della vita, l'acqua è stata associata alla nascita (dell'universo in particolare) e di conseguenza alla fecondità e all'essere femminile (in quanto portatore di vita).
 
 
 
Poesie sull'argomento
Paolo Buzzi: "Getti d'acqua sulle montagne" in "Aeroplani" (1909).
Paolo Buzzi: "Dramma d'acque" in "Bel canto" (1916).
Enrico Cavacchioli: "Ballata delle acque" in "L'Incubo Velato" (1906).
Guelfo Civinini: "La grazia" in "L'urna" (1900).
Sergio Corazzini: "Acque lombarde" in "Dolcezze" (1904).
Marcus De Rubris: "I ruscelli i torrenti e le fiumane" in "Anima nova" (1906).
Luigi Donati. "L'acqua" in "Le Ballate d'Amore e di Dolore" (1897).
Luisa Giaconi: "Il laghetto" in "Tebaide" (1909).
Corrado Govoni: "L'acqua" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Acqua chiara" in "Medusa" (1880).
Giovanni Pascoli: "La guazza" in "Canti di Castelvecchio" (1903).
Giovanni Pascoli: "Il naufrago" in "Nuovi poemetti" (1909).
Raffaele Salustri: "La musica delle acque" in "Poesie" (1891).
Alice Schanzer: "Incantesimo" in "Motivi e canti" (1901).
Emanuele Sella: "Trittico dell'allegoria dell'acqua" in "Monteluce" (1909).
 
 
 
Testi
INCANTESIMO

Me tiene l'incantesimo
de l' acque. Per i diafani
veli, più bianchi appaiono
delle ninfee i calici.

Basso gli alcioni volano
sulla corrente fulgida,
Scherzan del sole i tremuli
chiarori, e 'l verde fluido.

Le nubiformi tornano
nel desiderio, immagini
muliebri. Fra le mitiche
fonti vorrei, Castalie,

fra le silvane, gelide,
seguir fuggenti najadi;
mirar le chiome cèrule
dell'ondine germaniche.

Vorrei del Sen Cumanico
tuffarmi a' vivi zaffiri,
o dove aperti Liguri
flutti sonori infrangonsi.

Tra palafitte e gondole
fender canali taciti;
vogar, silente, al fremito
dell'onda Ciparissia.

Memore di Sakùntala
trar l'acque al sacro, ondifero
Gange. A carezze glauche
l'ignote valli attraggonmi.

Me attraggon dolci numeri
della fluente, ritmica
bellezza: e inebria l'algida
onda nel verso celere.

(Alice Schanzer)

Antologie: Poesia italiana contemporanea 1909-1959


"Poesia italiana contemporanea 1909-1959" è il titolo di un'antologia curata da Giacinto Spagnoletti e pubblicata da Guanda in Parma nel 1964. Il curatore era un critico e un poeta italiano che realizzò molte antologie sulla poesia novecentesca italiana; questa non è altro che l'ampliamento di un'opera pubblicata nel 1950: "Antologia della poesia italiana 1909-1949" che riscosse un discreto successo e consigliò quindi il curatore di provvedere ad un aggiornamento col quale furono apportate modifiche e aggiunte in modo da rendere l'opera più completa ed esauriente possibile. Così, dai 44 poeti presenti nell'edizione del '50 si passò a 61 e da 462 pagine a 834. Singolare definirei la decisione di porre come primo poeta all'inizio dell'antologia Aldo Palazzeschi, come d'altronde era stata singolare la scelta dell'edizione precedente (per quel che riguarda il medesimo argomento) del "Manifesto del futurismo". Ma se si tiene in conto che il periodo temporale di cui il libro si occupa è ben delimitato e parte dal 1909, tutto ciò si spiega facilmente. Il futurismo infatti è il movimento poetico novecentesco che si dimostrò maggiormente innovativo sia in Italia che in Europa, e rappresentò un taglio netto rispetto al modo di far poesia del periodo precedente grazie all'uso del verso libero e - novità davvero sconvolgente - agli esperimenti delle "parole in libertà". A distanza di molti anni da questo rivoluzionario movimento, è possibile stabilire con ragionevole certezza che le opere poetiche migliori del futurismo furono scritte da due poeti: Aldo Palazzeschi e Corrado Govoni, che avevano attraversato già altre correnti e si accingevano ad attraversarne ancora delle altre. In particolare Palazzeschi fece il suo ingresso nel movimento futurista proprio nel 1909 con la raccolta "Poemi", che, insieme a "L'incendiario" (1910) si rivelò come una delle sue opere più nuove e ardite rispetto a quei tempi. Da qui la scelta di Spagnoletti e la conseguente esclusione di tutti quei poeti, tra cui i crepuscolari, che avevano ancora a che vedere col vecchio modo di comporre versi. Singolare è anche l'idea del curatore di introdurre le poesie di ogni autore con brevi frammenti in prosa dei poeti stessi, tratti dalle loro opere o da altre come "Antologia popolare dei poeti del Novecento" dove i poeti presenti nel volume ebbero anche l'incarico di presentare le loro poesie. Per ciò che concerne la scelta dei poeti, può sorprendere la presenza di nomi come Bruno Barilli e l'esclusione di altri che pure erano presenti nella prima edizione, in particolare quelli di Emilio Cecchi e di Libero De Libero; a parte questi dettagli, l'antologia è da considerarsi completa, vista anche l'inclusione di nomi allora emergenti e poco conosciuti come Andrea Zanzotto, Bartolo Cattafi, Roberto Roversi e Alda Merini; quest'ultima era già, sorprendentemente presente già nell'edizione del '50. Ecco infine l'elenco completo degli autori selezionati da Spagnoletti.
 
Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici, Corrado Govoni, Giovanni Papini, Clemente Rebora, Piero Jahier, Enrico Pea, Sibilla Aleramo, Diego Valeri, Camillo Sbarbaro, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Villaroel, Arturo Onofri, Girolamo Comi, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Angelo Barile, Luigi Fallacara, Adriano Grande, Carlo Betocchi, Giorgio Vigolo, Luigi Bartolini, Corrado Pavolini, Sergio Solmi, Bruno Barilli, Filippo De Pisis, Enrico Fracassi, Giulio Arcangioli, Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese, Leonardo Sinisgalli, Attilio Bertolucci, Sandro Penna, Alfonso Gatto, Giorgio Caproni, Luca Ghiselli, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari, Vittorio Sereni, Antonio Rinaldi, Giorgio Bassani, Gaetano Arcangeli, Michele Pierri, Umberto Marvardi, Lino Curci, Siro Angeli, Margherita Guidacci, Umberto Bellintani, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Elio Filippo Accrocca, Bartolo Cattafi, Giancarlo Artoni, Rocco Scotellaro, Roberto Roversi, Saverio Vollaro, Cesare Vivaldi, Alda Merini.

Da "I puri di cuore" di Marino Moretti

L'inverno si annunziava rigidissimo.
«Muoion tutti gli uccelli» pensava Luca soffiandosi sulla punta delle dita.
Aveva nevicato due volte; due volte la neve era stata gettata nel canale gonfio e lutulento dalle squallide rive; ma i cortili incassati nelle muraglie, privi sempre di sole, come il cortile di Luca, sarebbero rimasti chiazzati e sudici di neve per qualche mese ancora, fin verso pasqua e primavera. Passavano di continuo carri irti di lastre di ghiaccio, diretti alle principali conserve che ne facevan provvista per l'estate giacché l'acqua dei fossi gelava ormai tutte le notti.

(Marino Moretti, "In verso e in prosa", Mondadori, Milano 1987, da "I puri di cuore" - p. 465)

venerdì 3 febbraio 2012

Da "Peter Camenzind" di Hermann Hesse


La scena si svolge nella mezza montagna, al principio dell'inverno, mentre soffia un vento basso e caldo. La principessa della neve appare col suo piccolo seguito, scendendo da una enorme altezza, e cerca un angolo per ripararsi nelle ampie conche montane o su una larga cima. Invidiosa la falsa tramontana vede l'ingenua sdraiarsi, guizza furtiva verso l'alto in direzione della montagna, e l'aggredisce di sorpresa, all'improvviso, furibonda e fragorosa. Lancia contro la bella principessa lembi lacerati di nere nuvole, la deride e la insulta, vorrebbe scacciarla. Per un po' la principessa è inquieta, attende sopportando, e talvolta risalendo nuovamente, piano, con tono di scherno e scrollando il capo, sulle sue altitudini. Talvolta però raccoglie improvvisamente attorno a sé le amiche spaventate, scopre il proprio splendido volto regale, e respinge freddamente il folletto nemico. Questi indugia, urla, fugge. Ed essa giace alfine tranquilla, avvolge le sue postazioni per largo tratto nella pallida nebbia, e quando questa si è diradata, conche e vette appaiono chiare e splendenti, coperte di pura, morbida neve.

(Hermann Hesse, "Peter Camenzind", Newton Compton, Roma 1993, pp. 42-43)

L'uomo primitivo tra di noi

È l'uomo primitivo quello che detta legge nella mia città e, probabilmente, in moltissime altre città italiane. Spesso ignorante, sempre scorretto, prepotente, presuntuoso, incapace di portar rispetto per chiunque, la fa da padrone per le strade cittadine con la sua automobile che non di rado è di grandi dimensioni. Gli piace violare il codice stradale e lo fa continuamente parcheggiando in seconda fila, sorpassando a destra, superando di gran lunga il limite di velocità. Quando poi, questo mostro dei nostri tempi scende dalla sua auto, si mette in mostra per la sua cafonaggine innata, per la sua maleducazione di cui si vanta: molte volte usa un linguaggio scurrile e, quasi sempre, non conosce la lingua italiana; se entra in un ufficio postale o in un negozio, studia tutti i modi per evitare le file e "fregare" chi segue le regole. Se ci parli ti racconta di come lui, "il furbo", non ha pagato mai le tasse, di come ha sempre imbrogliato lo stato e la comunità intera, e si aspetta anche ammirazione per questi suoi sciagurati comportamenti, magari che tu gli dica: «Bravo, quanto vorrei essere uguale a te!». I suoi argomenti di conversazione preferiti sono il calcio, il sesso e i soldi; a proposito di questi ultimi, l'uomo primitivo ammira senza limiti tutti coloro che ne hanno tanti, non importa come li abbiano fatti (questo essere infatti è totalmente privo di etica) e se vede in strada passare uno di costoro dice: «Quello lì c'ha i soldi».
Molto frequentemente, se discuti di politica (anche se lui ha un'idea della politica decisamente particolare), scopri che è un nostalgico del fascismo, o, comunque, di destra, e ce l'ha con tutti gli extracomunitari e gli zingari a cui darebbe fuoco così come fece Nerone coi romani.
Non è fantasia questa, ma triste realtà di tutti i giorni, e mi chiedo come mai il progresso, la cultura e la civiltà che avrebbero dovuto portare dei miglioramenti sempre più marcati e visibili nei comportamenti umani abbiano fallito, almeno in Italia, così miseramente.

Chi chiude il conto

Chi chiude il conto fa un bilancio, arriva ad una conclusione definitiva. Chi chiude il conto fa testamento.
Sì, la vita gli arrise nei primi anni di vita (quei tempi!...) Ma ora sono seppelliti, anche se gli rimangono i ricordi, che valgono quel che valgono.
Pure è bello per chi non ha più nulla oltre a quelli, tornare con la mente ai tempi andati; ripensare a quei giorni incredibili, ai giochi, al mondo fantastico che non esisteva ma che era possibile creare, era vero perchè la mente diceva così.
La fantasia dei bambini è una cosa imparagonabile, è nell'infanzia che nascono questi mondi impossibili, bellissimi, reali, che si sgretolano a poco a poco mentre si cresce, fino a scomparire completamente con l'arrivo della piena maturità.
Ci si accorge che gli occhi di oggi non sono più quelli di ieri; infatti non solo il corpo si deteriora col tempo, ma anche la fantasia e la purezza, la meraviglia e la scoperta. Ci si ritrova vuoti, qualunque spettacolo, perfino quelli della natura, lasciano gli occhi quasi indifferenti, alla ricerca di quelle emozioni provate tanto tempo addietro, che ora sono impraticabili: è la completa aridità, spirituale e materiale.

Chi chiude il conto sa che non si può aspettare nulla dal futuro, che quello che è stato è perso per sempre, che quello che è non vale nulla.
L'entusiasmo è una delle prime cose che se ne vanno, ed è anche la prima tappa verso la completa aridità. Non si è più attratti da alcuna cosa, anche ciò che era semplice, banale e magari insignificante, una volta scatenava nella mente mille attrattive, era la forza della vita che dentro lavorava per dirci: «Guarda quante cose belle! Quanti anni hai ancora davanti a te, quante sorperese la tua esistenza ti presenterà, vivere è una cosa stupenda!». Ora le cose non stanno più così.

Chi chiude il conto ha la netta sensazione che ormai la vita non possa riservare nulla di buono, anzi, che soltanto la morte può risolvere tutti i problemi accumulatisi col tempo. Si finisce per attendere soltanto la chiusura del conto.
Pure l'adolescenza, fase della vita transitoria e problematica, ha le sue attrattive; ancora è possibile sognare, come nell'infanzia, è possibile immaginare che l'amore esista veramente, che sia un sentimento sincero, puro e divino; è ancora troppo presto per le disillusioni, ma già si ha la percezione di aver perso qualche cosa d'importante, che non tornerà mai più, ed è la fantasia del bambino.

Chi chiude il conto medita sulle tappe della sua vita, e si rende conto che gli anni passati somigliano ad un fiumiciattolo le cui acque, scorrendo, diminuiscono sempre più, fino a che il corso d'acqua si estingue e rimane solo un solco arido. Sì, il percorso della vita è sempre in perdita graduale.
Tristi anni della gioventù, eppure anche quegli anni, seppur grami, nei ricordi sembrano belli, probabilmente perchè nutriti ancora di speranze, visto che la vita si immagina ancora lunga e un ottimismo inconscio spinge a pensare che il futuro sarà migliore. Così non è stato.

Chi chiude il conto non ha grandi rimpianti per la giovinezza, il periodo che spesso l'umanità rimpiange maggiormente, quello del grande amore, dei grandi ideali e del vigore e della forza alla sua massima espansione. Addio gioventù, non sei esistita mai e mai esisterai più.
Si arriva alla mezza età e ancora, magari, si spera in chissà cosa, ma ora è evidente che la vita non potrà riservare più sorprese inimmaginabili; quello che doveva accadere è accaduto, non altro ci sarà di sconvolgente; semmai, se si analizza la situazione, si comincia a provare un dolore profondo, perchè le perdite divengono pesantissime: la morte si è portata via persone care che non torneranno mai più!

Chi chiude il conto non spera di ritrovare gli affetti perduti, non crede che potrà vivere in un ipotetico al di là; queste speranze sono già cadute da molto tempo, il periodo delle favole è finito: davanti agli occhi c'è solo la cruda, dura e triste realtà. Dopo la morte non c'è nulla.
Ma la morte è un pensiero ricorrente in chi, superata la mezza età, vede appropinquarsi la vecchiaia. Spesso capita di pensare: «meglio morire prima di diventare vecchi». Il fatto è che noi siamo stati programmati per vivere e non per morire, per questo si va avanti, si prosegue una strada già tracciata, che hanno già percorso quelli che ci hanno preceduto, e tutti (escluso nessuno), alla fine della strada si sono trovati davanti ad un burrone; anche se preferivano tornare indietro hanno dovuto proseguire...

Chi chiude il conto non vuole giungere al burrone, pensa che non ci sia alcuna ragione per arrivare fino a lì. Stanco ormai del percorso già fatto, non spende altre forze per andare avanti. Chiude il conto.

giovedì 2 febbraio 2012

Da "Disjecta" di Igino Ugo Tarchetti

Io canto la morte della mia giovinezza. Felice chi può cantarla a suo tempo, quando divennero canuti i suoi capelli, e l'età gli addita la tomba della vita! Lasciate che io pianga i miei sogni e le mie speranze. Piove la rugiada dal cielo sul fiore che ebbe un solo giorno di vita, e chi non avrà una lacrima per la creatura animata? A venti anni, io canto la morte della mia giovinezza. Tre grandi epoche segnarono il cammino della mia vita. Bella è la vita rallegrata dal sorriso della speranza, soave è la voce dell'amore negli anni della giovinezza. Io rammemoro il tempio della foresta, i colli di Valnera, e gli occhi di Malvina. Ancora io sogno le emozioni di questo passato. Altro non è la vita che un sogno, oh lasciatemi, lasciatemi dunque sognare.
Dove mi trasporti o incanto misterioso della fantasia? Io riveggo le antiche muraglie del tempio della foresta: inni ardenti di fede, canzoni d'amore eccheggiate sotto le sue volte, di voi non mi è rimasto che una memoria. Nelle tenebre della notte si versano le lacrime della natura: nel segreto della mia anima, io piango gli anni felici della mia giovinezza.
Oh ripide colline della mia valle! Oh consolanti reminiscenze della mia giovane vita! intendo la voce misteriosa delle vostre memorie. Agile cacciatore della montagna, chi potea togliermi la mia felicità? Ohimè! io non aveva peranco conosciuto l'amore. Oh lasciate che tornino al mio cuore queste memorie. Soave è il pensiero della felicità negli anni della sventura. Io sogno l'esistenza di quindici anni...
Oh lasciate, lasciate dunque che io sogni.
Più dolce del canto dell' usignuolo, più ardente dell'occhio della gazzella, erano la tua voce, e le tue pupille, o Malvina. Oh perchè non mi affatico io di dimenticarle? Cento notti trascorsero dall'ora della nostra separazione. Io benedico la notte, perocché dessa sia compagna della mia solitudine. Sola conobbe la nostra felicità, sola conosce la nostra sventura; splende il patetico raggio della luna, anche sull'infelice... Volgono ora nella mia anima tristi pensieri di morte, abbandonatemi al mio dolore... una morte io debbo piangere, ed è quella della mia giovinezza.
Come trascorrono le acque del fiume sotto la superficie gelata, così passano ignorati fra le lacrime, e velati da un sorriso menzognero i giorni della mia vita; il mio destino li ha numerati e il mio destino è governato dall'amore. E perchè dovrò io vivere senza di esso?... Voi non tornerete, o tiepide primavere, che per gli amanti felici... Cadono appassiti i vostri fiori dalle mani di un giovine sventurato. Benedetto il tempio, e le valli, e l'amore della mia fanciulla: essi passarono come la mia felicità: ma chi potrà rapirmene la memoria ? Essi verranno meco nella tomba della mia giovinezza.


(Igino Ugo Tarchetti, "Disjecta", Zanichelli , Bologna 1879, pp. 69-72)





I Canti del cuore di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) rappresentano qualcosa di straordinario nell’ambito della poesia italiana del XIX secolo; purtroppo, lo scrittore piemontese non li pubblicò mai in volume, anche a causa della sua prematura morte; perciò uscirono nel 1879, all’interno della raccolta postuma intitolata Disjecta, che comprendeva tutte le poesie di Tarchetti, già pubblicate in svariate riviste del secondo Ottocento. La straordinarietà dei Canti del cuore risiede nel fatto che sono delle prose poetiche, e furono scritte in tempi in cui tale forma letteraria era praticamente assente in Italia; soltanto in Francia, grazie a immensi poeti come Charles Baudelaire ed Arthur Rimbaud,  la poesia in prosa si era già diffusa, ottenendo un notevole consenso di pubblico. Nel frammento che ho riportato, è facile riscontrare l’enorme talento di Tarchetti: un poeta a metà tra romanticismo e scapigliatura, che, almeno nelle prose dei Canti del cuore, mostra chiari influssi dalla poesia leopardiana.


Da "Fosca" di Igino Ugo Tarchetti

Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla - isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura - ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio.
Il difficile è trovare il centro della propria anima!


(da: Igino Ugo Tarchetti, "Fosca", Sonzogno, Milano 1874, p. 10)




Fosca è il titolo di un romanzo di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 – Milano 1869). Questa può essere definita la migliore opera in prosa dello scrittore piemontese, ed anche una delle più significative della Scapigliatura: corrente letteraria italiana diffusasi all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, che ebbe come principali esponenti, oltre a Tarchetti, Emilio Praga, Arrigo Boito e Giovanni Camerana. Il frammento che ho riportato, si trova nelle prime pagine di una riedizione di Fosca, risalente al 1874 (la prima è del 1869); chi voglia leggere questo ottimo libro, può anche vedere l’altrettanto ottimo film di Ettore Scola: Passione d’amore (1981), che si rifà direttamente al testo di Tarchetti.


mercoledì 1 febbraio 2012

Poeti dimenticati: Giuseppe Chiovenda

Giuseppe Chiovenda nacque a Primosello, in provincia di Novara, nel 1872 e morì a Novara nel 1937. Giurista di fama, insegnò presso gli istituti universitari di Parma, Bologna, Napoli e Roma; fu accademico dei Lincei e pubblicò molte opere di diritto che ancora oggi sono conosciute. Come suo fratello Tito, insigne diplomatico, anche Giuseppe coltivò la passione per la poesia, pubblicando in gioventù dei libriccini di versi che mostrano un'anima tardo-romantica e intimista.
 

Giuseppe Chiovenda


 
Opere poetiche
"Poesie", La Società Laziale, Roma 1891.
"Agave", Unione Cooperativa Editrice, Roma 1895.
 
 
Presenze in antologie
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume quarto, pp. 308-311).
 
 
 
Testi
IL PICCOLO FORZIERE

Ho riaperto il piccolo forziere,
Che la storia chiudea del nostro amor;
I suoi biglietti, le sue ciocche nere,
i suoi poveri fior.

Queste reliquie ho visto sul braciere
Divampare con livido baglior;
E m'è rimasto il piccolo forziere
Vuoto come il mio cuor.

(Da "Agave")

Poeti dimenticati: Willy Dias

Willy Dias è lo pseudonimo con cui si firmò la scrittrice Fortunata Morpurgo Petronio, nata a Trieste nel 1872 e ivi morta nel 1956. Autrice di vari romanzi rosa, è stata anche giornalista del "Caffaro"; firmò un importante documento a favore della libertà di stampa ai tempi del fascismo; dal 1946 entrò nella redazione de "L'Unità". Scrisse pochi versi che pubblicò su riviste importanti come "Domenica Letteraria" e "Poesia" ma purtroppo non esiste attualmente un volume che raccolga la sua opera poetica. Le sue liriche mostrano chiari influssi pascoliani e decadenti.
 
 

Willy Dias



Presenze in antologie
"Poeti italiani d'oltre i confini", a cura di Giuseppe Picciòla, Sansoni, Firenze 1914 (pp. 247-249).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 104-107).




 
Testi
LA BAMBOLA E LA BIMBA

Tanti, tanti anni or sono. E una gioconda
fanciulla inconscia, ignara
sognava sempre una bambola bionda
che lunghi, aurei capelli
avesse, e gli occhi belli.
- Era una bimba ignara. –

Ed ella ebbe la bambola, ma al breve
corpo di crusca pieno
senza saperlo una ferita lieve
con uno spillo un giorno
che le giocava intorno,
ella infisse nel seno.

E la bambola bionda un po’ per volta
la crusca – ahimé – perdeva.
Non se ne avvide pria, la bimba stolta,
del dì che floscio e vuoto
il picciol corpo immoto
più forma non aveva.

Tanti, tanti anni or sono. A una gioconda
fanciulla, inconscia, ignara,
una ferita nel cuore profonda
venne inflitta scherzando,
venne inflitta giocando.
- Era una bimba ignara. –

E nessuno, nessun, lo seppe mai
ed ella nulla disse;
da quel giorno apparì mutata assai,
scherzò delle speranze,
folleggiò tra le danze.
- Ma nulla, nulla disse. –

E presto si sentì stanca, la lieta
gioventù non le arrise;
nel cuor portava la morte segreta…
Ella no’l disse mai;
nessun lo seppe mai;…
la ferita l’uccise.
 
(Dalla rivista «Poesia» del novembre 1908)

Poeti dimenticati: Ulisse Tanganelli

Ulisse Tanganelli nacque ad Arezzo nel 1853 e morì a Firenze nel 1931. Dopo la laurea in Giurisprudenza esercitò la professione di avvocato e, in seguito, di magistrato. Grande fu la passione per la letteratura che il Tanganelli dimostrò pubblicando varie raccolte di versi, le quali inizialmente mostrano un poeta molto polemico e sarcastico, in linea con la poetica di Olindo Guerrini; nelle opere della maturità la vena satirica si spegne per essere sostituita da una attenzione verso la natura che il poeta osserva con meraviglia e ammirazione.
 
 
Opere poetiche
"Autumnalia", Brigola, Milano 1878.
"Aestiva", Arte della stampa, Firenze 1886.
"Monasteri", Landi, Firenze 1889.
"La buona dea", Paggi, Firenze 1892.
 
 
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 384).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 311-315).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 613-619).
"Dio borghese: poesia sociale in Italia 1877-1900", a cura di Adolfo Zavaroni, G. Mazzotta, Milano 1978 (pp. 116-117).
 
 
Testi
OMBRA

Dalle foglie dei cerri e dei castani
La verd'ombra discende in ogni proda;
Sembra il bosco novello una pagoda
Che aspetti i sacerdoti a riti arcani.
La calma vegetale
Non turba piè d'armento o frullo d'ale.

All'alte rame vivamente brilla
Del suo fiero splendor l'estivo sole;
Ma, penetrando le silvestri gole,
Come per dubbio tra le foglie oscilla:
All'incostante brezza
Or sì or no la verde ombra si spezza.

Solca le borraccine umide e scure
Dei frantumati raggi il luccicore;
Si mesce a quel de la ginestra in fiore
L'olezzo delle fragole mature,
Che allungano dai cespi
Gli involucretti porporini e crespi.

(Da "La buona dea")
 

lunedì 30 gennaio 2012

Il rimpianto dell'infanzia nei poeti ermetici meridionali

Salvatore Quasimodo (1901-1968), Alfonso Gatto (1909-1976), Libero De Libero (1906-1981) e (Leonardo Sinisgalli (1908-1981) sono stati quattro poeti italiani che la critica letteraria più avveduta accomunò definendoli ermetici, insieme ad altri poeti come Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Vittorio Sereni ecc. Ma i quattro hanno altre caratteristiche in comune che vanno oltre l'ermetismo: a cominciare dal fatto che tutti provenivano dall'Italia meridionale, che tutti (a eccezione di De Libero) ben presto lasciarono la loro terra d'origine per trasferirsi nell'Italia del nord, e infine tutti scrissero dei versi in cui si percepiva una struggente nostalgia per il periodo infantile trascorso nelle loro terre; che parlavano di quella fase della loro vita come fosse un momento magnifico, lo descrivono somigliante ad un vero e proprio mondo mitico, fatto di paesaggi naturali incontaminati, di persone straordinarie che vivevano in quei luoghi, oramai perse per sempre per motivi dovuti alla loro morte sopraggiunta nel frattempo o alla perdita di ogni possibile contatto con loro; a quest'ultimo proposito sono i parenti più stretti (genitori, fratelli, sorelle) e gli amici dei giochi dell'infanzia ad essere maggiormente rimpianti da questi poeti costretti (per motivi di lavoro) ad abbandonare i luoghi amati. Ecco allora una brevissima selezione delle loro poesie più significative al riguardo, tutte tratte dalle loro opere iniziali, perché è proprio lì che si avverte di più questo rimpianto misto a dolore, per la consapevolezza di avr perso qualcosa di irritrovabile, qualcosa che per alcuni di loro va al di là della fanciullezza perduta e diviene quasi impressione netta di vivere una vita presente totalmente inutile: si avverte lo strazio interiore di chi sa di aver lasciato tutto ciò che contava laggiù, nel sud, insieme ai loro genitori ormai scomparsi, ai loro amici persi di vista, e alla loro infanzia mitica.
 
 
 
VENTO A TINDARI
di Salvatore Quasimodo


Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima.

A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.

(Da "Ed è subito sera")
 

 
 
INFANZIA
di Alfonso Gatto


Il bambino, sorpreso alla finestra
della sera tranquilla, odorava
la leggerezza tepida dei fiori
sollevati nell'aria celeste.
Inquietamente raccoglieva il volto
in un silenzio scolorito
e calmo la sua vergogna ridonava
all'impalpabile sera
assiepata dall'erbe e dai tetti.
Sognava: nella piazzetta antica
la chiesa era un piccolo chiosco
con la bandierina allegra:
alla cupola di maiolica
s'illuminavano gli scarabei
sulle lastre d'acqua verdina.
Il silenzio dell'umido erboso
acquetava le scale,
i balconcini coi tralci, le stive
dei fondaci colmi di frutta.
Così s'accendeva il fanale,
a poco a poco aggregato dall'acque,
sulla laguna invernale.
Affondavano le case
in lontananze distrutte,
sgretolate senza rumore:
trasaliva il bambino invecchiato
intirizzito all'ombrello.

Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi:
traboccava allegra pioggia
sul piccolo porto di legno,
ed una gioia strana
lo flagellava col vento
in un presagio del mare.

(Da "Poesie")
 

 
 
QUESTA PIOGGIA
di Libero De Libero


Questa pioggia di città
(saluto all'inverno con acqua
gentile come un sognato canto
nella stanza della sera)
mi riporta a una collina
amata per un viaggio di cavalli,
al paese in collina
abbrancato nei castagni,
al tempo e all'odore
dei giorni contadini,
a mia madre rimasta
nei figli e nel pane
e nell'amore di mio padre
e per lui morta,
a tutta la mia gente antica
mandriana di palude.

Questa pioggia di città
(dell'inverno fredde radici
e stanche palpebre d'acqua
e timida sera della stanza)
mi riporta alla casa con sedie
tante e della morte sola novità,
al collegio con tanti occhi
e nel segreto meglio si giocava,
a tutta l'infanzia dal corpo
assediata e dalle stagioni.
È questa l'acqua attinta
ai pozzi di Monte Calciano,
acqua venuta dal mare
e il mare molesta il sonno
al fanciullo che il gatto pianse
lapidato nel bosco coi compagni.

(Da "Scempio e lusinga")
 

 
 
LA LUCE ERA GRIDATA A PERDIFIATO
di Leonardo Sinisgalli


La luce era gridata a perdifiato
Le sere che il sole basso
Arrossava il petto delle rondini rase.
Ora e sempre più viva
Sarà la smania di far notte in me solo
E cercar scampo e riposo
Nella mia storia più remota.
Ogni sera mi vado incontro a ritroso.

(Da "Vidi le Muse")
 
 
 
 

Tabernacoli d'oro alza la sera

Tabernacoli d'oro alza la sera
per celebrare i mistici sponsali
fra la terra che freme primavera
e il cielo che n'ha già brividi d'ali.

La melodia dell'erba è sì leggera
che insieme a lei sembra ogni zolla esali
su nella luce; e il cielo, alla preghiera,
si sciolga in caldi baci nuziali.

L'anima che in quel fremito è rapita,
obliando i suoi poveri tormenti,
risorge a quella luce: a quella vita

cosmica, in armonia con gli elementi,
quando al coro degli angeli era unita,
sposa di tutti gli esseri viventi.


Questa lirica appartiene alla seconda fase poetica di Arturo Onofri (1885-1928), poeta romano che nelle sue prime raccolte ("Liriche", 1907; "Poemi tragici", 1908; "Canti delle oasi", 1909) fu attratto e influenzato dalle tematiche del decadentismo e del crepuscolarismo, staccandonese col tempo per approdare ad una poesia del tutto nuova (non solo in Italia) che nasce da una profonda tensione esistenziale e sfocia in una ricerca della purezza intesa dal poeta come rinascita, rigenerazione universale rappresentata dalla natura in un contino evolversi e in una perenne sintesi con l'elemento divino. Molto influirono sulle ultime opere onofriane le teorie religiose e antroposofiche di Rudolf Steiner (1861-1925) filosofo austriaco che a sua volta si rifaceva alla teosofia (varie dottrine mistico-filosofiche collegate tra di loro) ed al pensiero indiano. La poesia è tratta da "Vincere il Drago!" (1928), si tratta di un sonetto che rientra pienamente nella fase più filosofica e mistica di Onofri; l'arrivo della sera sembra annunciare un rito iniziatico in cui si celebrano la Terra ed il Cielo intesi come divinità vere e proprie; nella Terra prevale l'elemento musicale e spirituale mentre il Cielo rappresenta quello di un amore caldo e sensuale. Nelle due terzine diviene protagonista l'anima umana che, assistendo allo spettacolo si libera dei problemi e dei tormenti terreni per obliarsi ed estasiarsi nella luce e nella vita cosmica, in un mondo ultraterreno in cui ha già vissuto e in cui è destinata a ritornare.

sabato 28 gennaio 2012

Da "Vivere ancora" di Ruth Klüger


Si fece umido, poi molto freddo. Era l'inverno '44-45, che nessuno che fosse ancora in Europa dimenticherà mai. La mattina ci svegliavano con una sirena o un fischietto, e nel buio stavamo in piedi per l'appello. Stare in piedi, stare semplicemente in piedi mi ripugna ancor oggi a tal punto, che a volte esco da una coda e me ne vado quando tocca quasi a me, solo perché non voglio restare in fila un istante di più.




Ruth Klüger nacque a Vienna nel 1931, ed è morta a Irvine, in California, nel 2020. Vivere ancora, che uscì per la prima volta nel 1992, è il primo, struggente romanzo della scrittrice viennese, in cui racconta la sua drammatica vicenda umana, ai tempi in cui fu deportata insieme alla madre, nel 1942, dapprima a Theresienstadt e poi ad Auschwitz; entrambe sopravvissero all’Olocausto e, finita la guerra, si trasferirono negli Stati Uniti, dove Ruth professò l’insegnamento.

Il toccante frammento che ho riportato sopra, proviene dall’edizione italiana di Vivere ancora, pubblicata da Einaudi, in Torino nel 1992 (il frammento si trova nella riedizione del 1995, a pagina 145).



venerdì 27 gennaio 2012

Da "Se questo è un uomo" di Primo Levi

In quel modo con cui si vede finire una speranza, così stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti quando siamo usciti dalla baracca per andarci a lavare: non c'erano stelle, l'aria buia e fredda aveva odore di neve. In piazza dell'Appello, nella prima luce, alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato. Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l'anno scorso a quest'epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile.

(Da: Primo Levi - "Se questo è un uomo", Ed. San Paolo, 1997, p.144)

Da "Diario" di Anne Frank


Ecco che cos'è difficile in quest'epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. E' molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all'intima bontà dell'uomo.
Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare!

Sabato 15 luglio 1944




Questo frammento è tratto dal celebre Diario di Anne Frank (Francoforte sul Meno 1929 – Bergen-Belsen 1945), ovvero dall’unica, straordinaria e altamente commovente opera letteraria di un’adolescente che, insieme alla sua famiglia,  nell’agosto del 1944 fu deportata ad Auschwitz e poi, qualche mese dopo, a Bergen-Belsen, dove morì.

In queste pochi pensieri è facile comprendere l’eccezionale maturità di Anne, che, pur essendo consapevole di trovarsi in un tempo ed in una situazione personale dai risvolti estremamente drammatici, riesce a trovare dei motivi per sperare, per pensare che il suo, come quello dei suoi familiari e dei suoi conoscenti  (trovatisi uniti ad Amsterdam, in un luogo nascosto, in attesa della fine della guerra), sia soltanto un periodo negativo, destinato presto a concludersi. Non ci sono parole per descrivere l’ottimismo ad oltranza di questa ragazzina che, ahimè, di lì a pochi mesi avrebbe trovato la morte in un campo di concentramento tedesco.