domenica 1 dicembre 2013

C'era una volta il Natale. La festa natalizia nella poesia italiana tra il 1910 e il 1926

LA NATIVITÀ DI GESÙ
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

I

Era il sole d'oro spento
Sopra i monti di Giudea;
Sordo il vento
Per la scura valle cava
Mugolava:
E Maria di Galilea,
Sul giumento,
In Betlemme si rendea.
Ma Giuseppe a pie' seguia
La casta ombra di Maria.

Il presepe ove fumosa
Una tremula fiammella
Senza posa
Agitava fosche larve,
Ecco parve
Una bianca sala bella
Luminosa
A lei curva sulla sella.
Ella disse: - Lode al Ciel! -
E smontò dall'asinel.

Una stuoia in terra stese
Per suo letto, e lì, giuliva,
Sonno prese
Con le palme al petto giunte:
Ma tre punte,
Tre di ferro, ahimé, sentiva
Punte accese
Trapassarla, in sogno, viva!
Nel dolore schiuse gli occhi...
Stava un bimbo a' suoi ginocchi.

Stava ignudo sulla stuoia,
E gemea, ché il gel gli dava
Aspra noia.
Ella involse il fanciullino
Dentro il lino,
Lo depose nella cava
Mangiatoia,
E tremando lo guardava.
Sorrideva il buon Gesù:
Non sentiva il gelo più.


II

Ma i pastori che l'armento
Fissi vegliano alla notte.
Erto il mento
Sul vincastro, visto un lampo
Dentro il campo
Animare l'ombre rotte,
Di spavento
Sobbalzaron nelle grotte,
E cacciaronsi col volto
Sul terreno, ansando molto.

E una voce: - Non temiate, -
Disse: - Gioia in terra porto.
Esultate!
Nato è Cristo, il Salvatore.
Viva amore,
E sia l'odio al mondo morto!
Dio lodate,
Per cui grazia il Figlio è sorto! -
Così l'Angelo ammonì,
L'ali aperse, e poi sparì.

E i pastor', scosse le brine
Via nel vento che urla e strepe,
Per colline
E per monti con affanno
Vanno, vanno,
E ritrovano il presepe
Chiaro, alfine,
E in sull'uscio fanno siepe.
Siepe fanno, ed ecco un nimbo
D'oro avvolge culla e bimbo.

E tre re, che schietta e ardente
Dentro i ceruli vapori
D'oriente
Una stella ebbero a guida
Muta e fida,
In ginocchio co' pastori
Umilmente
Offerivano tesori.
Ma i pastori, ognuno die'
Solo il cuor che avea con sé.


III

Tutta notte ginocchioni
Vecchi re con pastorelli
Davan doni...
Quando alzarono le ciglia,
Meraviglia!
Terra e cieli eran più belli,
E più buoni
Eran gli uomini, - e fratelli!
Mosse il bimbo allora un riso,
E si aperse il Paradiso.

(Da "Il Cestello", 1910)





VESPRO DI NATALE
di Sebastiano Satta (1867-1914)

Incappucciati, foschi, a passo lento 
Tre banditi ascendevano la strada 
Deserta e grigia, tra la selva rada 
Dei sughereti, sotto il ciel d’argento. 

Non rumore di mandre o voci, il vento 
Agitava per l’algida contrada. 
Vasto silenzio. In fondo, Monte Spada 
Ridea bianco nel vespro sonnolento. 

O vespro di Natale! Dentro il core 
Ai banditi piangea la nostalgia 
Di te, pur senza udirne le campane: 

E mesti eran, pensando al buon odore 
Del porchetto e del vino, e all’allegria 
Del ceppo, nelle lor case lontane. 

(Da "Canti barbaricini", 1910)




NOTTE DI NATALE
di Marino Moretti (1885-1979)

Ardon gli astri nell'ombra e le campane
si rispondono querule e sonore;
così una voce piange in fondo al cuore
per desiderio di cose lontane.

Oh avere adesso in questa greve festa
notturna che di buon incenso tepe
una piccola valle di presepe,
anche di cera, anche di cartapesta.

Aver magari tutto un paesaggio
di Terrasanta coi laghi di vetro,
le pie casette col lumino dietro
e la stella che in alto fa viaggio;

e ascoltare con l'anima che sogna
la musica improvvisa che s'aduna
semplicemente, dietro un soffio, in una
esiliata anima di zampogna;

mentre ardon gli astri e piangon le campane
e le finestre sono tanti lumi...
(oh dolce cuore perché ti consumi
in desiderio di cose lontane?).

Sì, sì, anche giocattoli! Oh la chiara
stanza dove una mano frettolosa
e occulta preparò la bella cosa,
la bella cosa che or non più si prepara!

Non le piccole sfere di cristallo
o tremule d'argento né le stelle
di talco ardenti come ceri, quelle
piccole zone d'oro e di metallo...

Ardono gli astri, ed ecco le campane.
Salgon le nebbie pallide dai fiumi.
O dolce cuore, perché ti consumi
in desideri di cose lontane?

(Da "Poesie di tutti i giorni", 1911)




IL PRESEPIO DELLA MIA INFANZIA
di Carlo Chiaves (1882-1919)

Alla nostra impazienza
mamma, ogni anno, interrompeva:
- per quest’anno - e sorrideva -
- non potreste farne senza? -

Farne senza? o idea funesta!
Ed allora tutti quanti,
pazienti come santi,
preparavano la festa.

Mamma e zii con cartapesta,
con colori e con pennelli,
rifacean grotte, castelli,
un deserto, una foresta.

Da una vitrea fontana
un ruscel di filigrana
discendea placido e muto
fra due sponde di velluto.

E, nel fondo, era la stalla.
Il baglior d’un limicino
diffondea una luce gialla
su Maria e sul bambino.

San Giuseppe era tra il bue
e il somaro, che guardavano,
ed il capo dondolavano
gravemente, tutti e due.

I pastori eran di cera,
ché gli zii ne avean costrutti
di gran belli e di gran brutti,
d’ogni età, d’ogni maniera.

I Re Magi avean lor scorta
ed un elefante immenso,
che portava mirre, incenso
e ricchiezze d’ogni sorta.

Discendeva anche papà
verso sera, con quell’aria
un po' arguta e un po' bonaria:
- Bello! Ah! Bello! in verità! -

Ma perché il Moro non sta 
ritto? - Eh! vedi... è un po' sconnesso,
ma... si aggiusta... - E, se è permesso,
come mai Gianduia è quà?

- Per far numero! - Aaah! stupende
quelle rocce! E, se vi intendo,
il brigante e il reverendo,
per far numero? - Eh... s’intende...

Certo misto era il Corteo:
coi pastor venian tre o quattro
burattini del teatro,
fra un arcangelo ed un ebreo.

Sorrideva ora papà:
- Per Natale, a me bambino,
non presepi! E, in su mattino,
non balocchi in quantità...

Poi le visite. Rammento
cinque o sei vecchie signore,
sorridenti, bocca a cuore,
sempre pronte al complimento.

E i compagni... e i portinai...
e fors'anche gli inquilini,
delle mamme... dei bambini
ora medici o notai.

Ora... Or dormono i pastori
coi pupazzi del teatro
in chi sa che recesso atro
d'onde niun li trae più fuori.

L'elefante e il dromedario
- o destin d'ogni giocattolo! -
in chi sa che bugigattolo,
dove polvere è il sudario.

E quei bimbi... or son due uomini
quasi seri, e una signora.
Per colui che ben li ignora,
non è d'uopo ch'io li nomini.

Tutti gli altri... ahi! son più pochi,
e in gran parte non son più!
Se ne andò l'età dei giochi
e or sen va la gioventù.

(Da «La Donna», dicembre 1912)




CANZONE DI NATALE
di Guglielmo Felice Damiani (1875-1904)

Torno, o madre, alla casa. - Apri la porta,
chi già riposa desta,
chiama chi veglia e riaccendi il fuoco;
ché a te mi guida e il mio venir conforta
un tinnito di festa
invisibile; e l'inno umile e fioco
da prima, a poco a poco
crebbe, e nel cuor fu vana ogni paura.
Tal per la notte oscura,
seguendo l'orma del'aereo grido
ritorno stanco pellegrino al nido.

Sopra il mio capo, per i cupi azzurri
passa un canto e dilegua;
poi nel ciel che d'erranti anime brilla,
altri canti, altre note, altri sussurri
corrono senza tregua,
come voce che in cavi antri s'immilla.
Ed io so ben la squilla
che tra l'ombre e gli error mi guida e sprona...
Oh tu, madre, perdona
a chi tornando a questa soglia pia
fece molle del suo pianto la via.

Ch'io la pace qui trovi! entro la stanza
rifulgan le visioni
che un tempo giocondar l'umile notte:
un tempo, quando pieni di speranza
noi sognavam coi doni
greggi, presepi e luminose grotte,
e per l'ombre non rotte
ascoltavamo canti di pastori;
quando pur di tesori
carchi andavano i re bianchi col moro
e lunga comitiva era con loro...

E cercheremo, desti a mattutino,
l'orme che il pio passaggio
impresse lasci al nevicato suolo;
e, come un dì, nel rigido mattino
segneremo il viaggio
dicendo: Qui fermò l'aereo volo
e qui posò lo stuolo...
Udiste? udiste come tra un tintinno
d'arpe si levò l'inno?
come un arcano brivido percorse
e cielo e terra e casolari?... O forse?

Forse fu vano l'inno della Pace,
però che la parola
vanì col sogno dietro l'orizzonte,
e nell'anima nostra omai si tace,
né piangendo consola
vinta dal gel che la serrò, la fonte.
Su la pallida fronte
calano a stormi, come nei dì neri,
i torbidi pensieri;
su le labbra riarse, a cui nessuna
coppa fu chiusa, il tedio anche s'aduna.

Stolti! ché troppe vanità ci piacque
accarezzar nel petto,
troppe chimere perseguir col guardo!
surga la fede che fu morta e giacque
dentro al cuor giovinetto
e torni l'occhio a rimirar più tardo;
i desideri ond'ardo
sian fiamma ch'ogni cupa ombra consumi
e la strada m'allumi;
e tu, madre, col gesto che risana
guidami su la via soave e piana.

Apri, o madre, la porta. Eccomi giunto
stanco, pallido, afflitto
là donde mi partian lagrime amare:
trema e sussulta di pietà compunto
il mio cuor derelitto;
le mie pupille sazie di guardare
desideran sognare
siccome nelle pie notti lontane
al suon delle campane;
e per domani giorno dell'amore
cerca la vagabonda anima un cuore.
Ché domani è Natale:
a colui che seguì l'aerea traccia
apri, o madre, le braccia;
sovra il tuo seno, ove superbia tace,
ei trovi col perdono anche la pace.

(Da "Lira spezzata", 1912)




LA NEVE DI NATALE
di Fausto Valsecchi (1891-1914)

Ora nevicherà. Sento l’odore
della neve sospesa nelle stanche
nuvole grigie. E intorno, uno stupore
di cose che fra breve saran bianche.

L’ora ch’io vivo è livida d’attesa.
Una gregge passa, passa lentamente.
L’odore della neve ch’è sospesa
sul mondo sembra quella della mente:

lo stesso odore che le nari agghiaccia,
facendo lacrimare gli occhi stanchi.
Giunge il gregge all’ovile e s’accovaccia,
con gli occhi d’oro sotto i cigli bianchi.

Un altro gregge passa. Ora la neve
incomincia a cadere sugli agnelli.
Io guardo e penso a una carezza lieve
di mani che svaniscono sui velli.

Cade la neve. No, non cade: scende.
E alata. Atterra senza farsi male.
Non s’ode. Io guardo e penso alle leggende...
C’è in terra steso un cielo pastorale.

Gli agnelli andando ne hanno calpestata
la via, così che tutto s’imbruna.
E sul pallore della nevicata
la sera cala come nella luna.

L’ombra è sul gregge, che ha atterrato il muso,
ed in candidi petali si sfoglia.
O giungere così, subito, al chiuso
che ha una lampada accesa sulla soglia!

Laggiù in fondo brillare vagamente
la veggo come in una fiaba truce,
dove l’abisso s’apre, fra la gente
che il buio incalza, e il luogo della luce.

Gli agnelli hanno raggiunto una corrente.
Fra il gregge ed il suo ovile l’acqua scorre:
- la neve cade sempre - lo si sente
belare, ma nessuno lo soccorre.

Come può il cuore reggere allo strazio?
Il lago è senza fine e senza fondo.
Lascio errare lo sguardo nello spazio.
Dimentico di vivere sul mondo.

Fin che un naviglio in grembo al gregge, lieve
come un gran cigno, attratto dai belati,
approda, sosta, e poi riparte, greve
di quei poveri agnelli entro serrati.

Ed io lo guardo andarsene. Dai fianchi
tutti i musi sporgono per bere.
Il gregge soffre. E i remi sono stanchi
di tuffarsi nelle acque quasi nere.

Il lago è senza fine, è senza fondo.
Io penso (perchè penso?) a un naufragio.
Dimentico di vivere sul mondo.
E il gregge affonda adagio, adagio, adagio.

(Da "Versi e novelle")




CANTO DI NATALE
di Ettore Fabietti (1876-1962)

Crepita il ceppo su l'alare, l'ultimo
ceppo che il babbo ha tolto alla foresta;
lascia ch'io vegli fin che sia consunto:
la notte è lunga e non ho sonno punto.
Lasciami, mamma, reclinar la testa
sovra il tuo grembo, accanto al fuoco, dove
tu m'hai cullato quando ero fanciullo.
Vorrei d'allora i sogni risognare!
Guarda come son chiare
le stelle in questa notte di Natale!
Vicino a te m'assale
un desiderio di tornar fanciullo.
Prendimi, mamma, il capo entro le mani,
e delle tempie quietami l'ardore;
ma non contare i miei capelli bianchi.
Fin che l'olio non manchi
a la lucerna e crepiti la fiamma,
se non ti stanchi, mamma,
narrami la leggenda di Natale:
sono ancora un fanciullo in fondo al core.
- Lasciami, amore, lasciami pensare,
ch'io la ricordi; assai tempo trascorse,
e la memoria è vuota, come un bruno
doglio, o una casa ove non sia nessuno.
Ecco:
      "Una notte da le stelle chiare,
entro un presepe nacque il mio Gesù;
le stelle incominciarono a guardare
fisse con gli occhi al mondo di quaggiù"

"Era la valle tutto un vasto mare
di neve, e neve non cadeva più;
le stelle incominciarono a parlare
del prodigio alle genti ài lassù.

"Giù dal cielo una fata e un cavaliere
sceser, del sole risplendenti più;
magi e pastori trassero a vedere
come povero a noi venne Gesù.


"Oro e profumi..."
                          - No, mamma al natale
dei derelitti non fa festa alcuno:
Io vedeste quand'io ti venni al mondo.
- V'erano in cielo molte stelle chiare,
come stanotte, ma in casa nessuno:
babbo era via per procacciarsi il pane.
A piè del Ietto ardea quella lucerna
com'ora: io t'avea fatto un pannerello
e poche fasce con gli ultimi cenci
che portai meco quando venni sposa.
Dissi tra me: Se nasce,
o mio Signore, come Io riscaldo?
Non v'è stilla di fuoco per la casa!
Strinsi que' cenci in piccolo fardello,
sotto le coltri, al caldo;
ed aspettai che tu venissi al mondo.
Sola ero, come in fondo
al suo covo una lupa. In sul mattino
la donna del vicino
venne e trovò che tutto era finito;
l'avea chiamata il tuo primo vagito.

(Da "Canti del Trifoglieto", 1913)




LA PASTORALE
di Achille Leto (1872-1963)

I.

Ceppo vuol la chiesina di montagna
col suo campaniluccio e le casette
affumicate; vuole la campagna

bianca di neve, e bianche vuol le vette
e le tegole; vuole i focolari
coronati di bimbi e di vecchiette;

ma, soprattutto, vuol gli zampognari.


II.

Ecco per la città le cornamuse.
Ci destano, sull'alba, i vecchi accordi
che passan molli per le imposte chiuse.

Un sorriso e una lacrima, concordi,
ci sentiam dentro. Nella solitaria
alba gelata, salgono i ricordi

da un otre pieno, con tre canne, d'aria.

(Da "Piccole ali", 1914)




NATALE
di Guido Gozzano (1883-1916)

La pecorina di gesso,
sulla collina in cartone,
chiede umilmente permesso
ai Magi in adorazione.

Splende come acquamarina
il lago, freddo e un po' tetro,
chiuso fra la borraccina,
verde illusione di vetro.

Lungi nel tempo, e vicino
nel sogno (pianto e mistero)
c'è accanto a Gesù Bambino,
un bue giallo, un ciuco nero.

(Da "Le dolci rime", 1917)




NATALE
di Giuseppe Ungaretti (1888-1970)

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(Da "Allegria di naufragi", 1919)




NOVENA DI NATALE
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Un rustico presepe.
«U ciarameddaru» discese
chissà
da qual bianca città
di neve, perduta
tra i greppi: discese
per la novena
colla zampogna
che saluta
il Bimbo Gesù,
nenia dolcissima, piena del sogno
che fu.

Il presepe
è un altare dipinto, da un qualche
pittore che adopera
del bianco del rosa dell'oro
così senza posa,
per fare più bello
un manto, più biondo
il capino
d'un cherubino.
Sul muro nero tutto crepe
un verde festone
(pungitopo? mortella?)
greve
di frutti d'arancio,
cosparso di fiocchi di lana
(la neve!).
E la zampogna suona.
Ecco il presepe.

Ma scende nel cuore
un'angoscia lontana
verso il tramonto quando
i bimbi cantano
e alla fontana
le brune fanciulle
con l'anfora colma
vengono vanno
e tornano i greggi
ed i pastori ànno
quasi una sacra religiosità.
Scampanano stonati
i campanili.
E sui sottili fili
del ricordo
l'anima sogna
dietro la nenia della zampogna
quel che più non sarà.

(Da "Arie paesane", 1920)




LUNARE NATALIZIO
di Lionello Fiumi (1894-1973)

Andremo a plenilunio invernale
che il rotolìo della "vettura a nolo" ondulerà
con cerchi ampi d'opale
i corsi deserti a trapezi di buio a losanghe di chiaro.

Ma scesi fuori porta col cartoccio di marrons glacés
nella spianata màcera di luna
il solitario viale di avancittà
avrà apprestato pei suoi stivaletti mordoré
taciturne magnolie di piumosità.

Vedremo lontano i rigidi nastri
approvare le leggi prospettiche
triangolate d'ombre a carbone
come modellini scolastici di cartone,
e lei anche scoprirà banchine di cera
dormienti in pose catalettiche.
Ogni palo telegrafico
avrà il suo zoccolo d'ombra nera nera
come un tondino ritagliato di liquirizia.

E in quel paesaggio fragile e sommesso,
di carta e di gesso,
uscito quasi per regalo da una scatola natalizia
tutto brina fittizia
di mica e bambagia,
sarà voluttuoso complemento
tentare con ardimento
la sua fragilità novizia
di grande bambola di maiolica.

(Da "Mussole", 1920)




NELLA NOTTE DI NATALE
di Umberto Saba (1883-1957)

Io scrivo nella mia dolce stanzetta,
d'una candela al tenue chiarore,
ed una forza indomita d'amore
muove la stanca mano che si affretta.

Come debole e dolce il suon dell'ore!
Forse il bene invocato oggi m'aspetta.
Una serenità quasi perfetta
calma i battiti ardenti del mio cuore.

Notte fredda e stellata di Natale,
sai tu dirmi la fonte onde zampilla
improvvisa la mia speranza buona?

È forse il sogno di Gesù che brilla
nell'anima dolente ed immortale
del giovane che ama, che perdona?

(Dal "Canzoniere", 1921)




L'ALBERO NATALIZIO
di Guido Marta (1882-?)

Natale. Penso il Natale
nella mia casa, vicino
al grande mio focolare:
e là in fondo al viale
l'abete colossale,
che in casa non ci può stare.

Così, con le braccia tese
tra l'uno e l'altro orizzonte,
quasi a ridosso del monte
azzurro e lontano,
con qualche lume di stella,
con tanti doni di neve,
— incappucciato e greve
come un gran vecchio malato —
sembra lì preparato,
nella solitudine agresta,
per la nostra festa.

(Da "La neve in giardino", 1922)




LA NOTTE DI NATALE
di Giuliano Donati Petténi (1894-1930)

Ne l'ora che la notte più brillanti
accese gli astri, gli Angeli raccolti
le melodie intonarono coi volti
chini su le dorate arpe vibranti.

Simile al suono di celesti sfere
nei profondi silenzi ancora udito,
quando a noi giunge ne le calme sere
da l'azzurro de l'etere infinito,

era l'inno diffuso sotto gli archi
dei cieli come un canto universale
di speranza pei Santi e i Patriarchi
veglianti ne la notte di Natale.

Presso il gregge assonnato ora i pastori
sotto gli olivi stavano d'argento,
quasi a custodia de le stelle, armento
pascolante del cielo fra i bagliori.

Solo i più giovinetti affaticati
dai sollazzi e dall'opere diuturne
s'erano con gli agnelli addormentati
al cader delle prime ombre notturne.

Gli anziani no, ché dei silenzi amico
è il vecchio. Spesso ei si raccoglie a sera
memore d'un presagio ch'egli spera
per sé s'avveri e compia un sogno antico.

Posati infatti a terra i lor vincastri,
pensavano: - Non forse si compiva
un vaticinio s'ora giù da gli astri
dolce un'arcana musica veniva?

(Da "Intimità", 1926)

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