lunedì 14 gennaio 2013

10 poesie di 10 poeti italiani sulle maschere di Carnevale

Arlecchino, Pulcinella, Colombina e tante altre maschere di carnevale nacquero circa cinquecento anni fa nella cosiddetta "Commedia dell'arte" che non era precisamente una rappresentazione teatrale ma molto vi assomigliava e molto si basava sull'improvvisazione. Queste maschere carnevalesche divennero sempre più famose nei secoli ed ancora oggi, anche se non come un centinaio di anni fa, sono largamente conosciute. Andando a cercare delle poesie dedicate a loro, ho notato che il personaggio più presente nei versi dei poeti italiani è Arlecchino. Questa maschera nacque in un quartiere di Bergamo ed ebbe il suo periodo d'oro durante il XVII secolo. Il nome deriva dal francese arcaico: "Hellequin" ovvero un diavolo presente in alcune leggende del Medioevo. Arlecchino è raffigurato con un grosso cappello bianco, una maschera nera e un vestito multicolore. Fu Carlo Goldoni a caratterizzare più nettamente questa maschera, rappresentandola nei panni di un uomo del popolo che, malgrado qualche pecca, aveva un comportamento onesto e assennato.
Corrado Govoni in modo irriverente definisce Arlecchino come un "pitocco" che chiede la carità, questo avviene in un sonetto di cui riporto la prima quartina: «Un tempo egli faceva ridere la gente, / ora va in elemosina con la bisaccia, / un tricorno con il codino che si stacca / e sotto il braccio una mandola sofferente».
Più rispettoso di Govoni è Raffaele Carrieri che dedica ad Arlecchino, tra le altre, una poesia in cui lo definisce "principe": «Arlecchino mio buon principe / Delfino primo / Del salto mortale, / Stracca è l'arpa / Per tanto suonare. / Alla fine di ogni vita / Stringe polvere la calamita».
Gianni Rodari nella filastrocca Il vestito di Arlecchino racconta con grande fantasia la nascita del variopinto costume ad opera di vari personaggi, tutti appartenenti alla tradizione popolare delle maschere italiane: «Per fare un vestito ad Arlecchino / ci mise una toppa Meneghino, / / ne mise un'altra Pulcinella, / una Gianduia, una Brighella. / / Pantalone, vecchio pidocchio, / ci mise uno strappo sul ginocchio, / / e Stenterello, largo di mano, / qualche macchia di vino toscano...».
Roberto Mussapi ha scritto una poesia intitolata Il sangue di Arlecchino dove si parla del ritrovamento della maschera vuota di Arlecchino che si affloscia nell'acqua piovana mentre la gente passando guarda attonita quel mistero: «[...] passanti faticosi e attoniti / guardano il suo costume distrutto dalla pioggia, / cercando resti di carne, densità di polpe / tra i brandelli, tra i colori infiniti / confusi dalla morte e dallo stillicidio / in un unico viola attraversato / da trasparenze e cupe o limpide correnti...».
Un'altra maschera popolarissima in Italia è quella di Pulcinella. Col vestito completamente bianco (cappello, camicia e pantaloni larghi), con una maschera nera che copre gli occhi ed il naso, Pulcinella nacque nella città di Napoli nel XVI secolo grazie all'attore Silvio Fiorillo; ossessionato dal cibo, che cerca di procurarsi in tutti i modi, Pulcinella mostra una pancia sproporzionata. Spesso è stato ritratto col mandolino o con un bastone, arma che usa contro i suoi nemici con grande violenza. Remigio Zena scrisse una poesia su Pulcinella dedicandola alla memoria del comico Antonio Petito, divenuto famoso nell'Ottocento quando, interpretando la maschera napoletana, modificò la sua messa in scena, presentandosi davanti al pubblico con un cilindro e una redingote sovrapposta alla camicia bianca. Ecco una strofa della poesia di Zena: «Perchè su quelle tavole / Nell'età tua più bella, / Salisti colla lurida / Veste di Pulcinella? / Era di gloria un sogno, / Cupidigia o bisogno? / Nol so, ma la miseria / T'affisse senza tregua, / Ed il tuo nome in nebbia / Fin d'oggi si dilegua».
Marco Lessona s'inventa una Epistola di Pulcinella a Colombina nella quale la maschera partenopea esorta la bella Colombina a concedersi alle sue avances: «Bella Colombina, vuoi dirmi di sì? / Del fiore, / Che sboccia dentro il tuo cuore, / Vuoi darne anche un petalo a me? / Vuoi darmi / Un poco d'amore? / Vuoi farmi / Assai più contento d'un re?».
Pierrot è una maschera italiana malgrado il nome francese, nacque nel XVI secolo nella Commedia dell'Arte con le caratteristiche del servo astuto (il cosiddetto Zanni) e col nome originario di Predolino; la maschera divenne famosa anche in Francia ma solo nel secolo successivo, prendendo il nome di Pierrot e assumendo quelle peculiarità per cui ancora oggi è conosciuto; Pierrot è infatti un mimo pallido e malinconico attratto dalla luna che indossa una papalina, una casacca e pantaloni di seta lunghi e bianchi. Il poeta Gian Pietro Lucini scrisse un libro intitolato I monologhi di Pierrot in cui dà la parola alla maschera triste con l'intento di polemizzare e criticare aspramente un certo tipo di società; eccone un passo tratto da Luna crescente: «Contano i gentiluomini che non faticano, / o che miglior fatica dicon l'amore, Gentiluomini frolli / a cui l'onore siede sul cordon bleu, o pur nei molti ornati / justacorps à brevet. I Persiani in Francia. / Salamelech, Salamelech; Pierrot e Pierrettes / fan grandi riverenze alle parvenze d'una celebrità, / e tutto appare azzurro ed ingemmato [...] ».
Olindo Guerrini nei due sonetti che portano il titolo di Giovedì grasso, descrive, all'apparir del giorno, l'uscita di Pierrot e di Colombina da un locale dove si sono appena conclusi i festeggiamenti di carnevale; i due, dopo la veglia, sono stravolti dall'eccesso di cibo e di alcol: «Pierrot, disfatto che mettea spavento, / mezzo briaco e mezzo addormentato, il ritratto parea del pentimento / / e Colombina intanto a lui da lato, / balbettando dicea: - Bada... mi sento... - / E con la testa al muro ha vomitato».
Gustavo Botta immagina un convegno di maschere in una notte di luna piena: «Nel bianco lume, radunate a crocchio / certe maschere attorno a Pulcinella / giulivo, che narrando strizza l'occhio, / s'incantano. E Rosaura ricciutella / squadra Arlecchino, dritto, con la mella / sott'il braccio ed al viso la canina / sua nera grinta. / Rosea, Colombina / ride [...] ».
Tito Marrone infine, vede le maschere dimenticate in un luogo buio tra le cose che non servono più a nulla: «Nell'antro dell'inutile ciarpame, / tra Capitan Spaventa / che si addormenta / per non fare il gradasso / e Arlecchino avvizzito / che basisce di fame / e la magra donzella Colombina / che non trovò marito, / Pantalone si esercita sul contrabbasso. / / Una vita da cani! Senza maschera, / son tutti in maschera!».
 



DIECI POESIE SULLE MASCHERE DI CARNEVALE


"Pulcinella" di Remigio Zena, in "Tutte le poesie", Cappelli, Bologna 1974.
"Luna crescente" di Gian Pietro Lucini, in "I monologhi di Pierrot", Lampi di Stampa, Milano 2003.
"Giovedì grasso" di Olindo Guerrini, in "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903.
"Plenilunio" di Gustavo Botta, in "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952.
"Arlecchino pitocco" di Corrado Govoni, in "Poesie 1903-1958", Mondadori, Milano 2000.
"Troppe maschere" di Tito Marrone, in "Antologia poetica", Guida, Napoli 1974.
"Epistola di Pulcinella a Colombina" di Marco Lessona, in "Poesie", S.E.L.P., Torino 1930.
"Arlecchino mio buon principe" di Raffaele Carrieri, in "Stellacuore", Mondadori, Milano 1970.
"Il vestito di Arlecchino" di Gianni Rodari, in "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1960.
"Il sangue di Arlecchino" di Roberto Mussapi, in "Poesie", I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993.

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