sabato 7 marzo 2015

Le donne in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

DONNE AI BALCONI
di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Quante ne vidi mai? Dalle facciate
liete di fiori, garrule di nidi;
sovra un terrazzo pensile librate,
quante ne vidi?

Pellegrine dell'aria, ivi sospese
parean nell'ansia d'un viaggio immoto,
avviate così, verso un paese
strano e remoto.

Io le rivedo tutte. Eran figure
di giovinette dagli intenti sguardi,
affacciate alle vostre ampie culture,
maggi lombardi;

spose balzanti in bianco abbigliamento
dalla notte che avvolge e che seduce,
al saluto del dì, fresche di vento,
bionde di luce.

Dove le vidi mai? Rosee straniere
offerte al vivo della brezza alpina,
verso le nevi e le foreste nere
dell'Engadina.

A Nervi, a Chiaia. tra i perpetui fiori,
forse cercando l'isole serene,
ed a Palermo, pallidi splendori,
di Saracene.

Donne ai balconi! Quante belle forme
ti dà la vita, o aperta anima mia!
Beato l'occhio che giammai non dorme
sulla sua via.

E il tributo d'un sogno, un vago affanno,
una strofa del mio canto errabondo,
sale alle ignote, che librate stanno,
coi cieli in fondo.

Ma per coglier l'omaggio, oh, non si abbassa
quell'inconscia bellezza; ella non bada,
più che non badi al carrettier che passa
qui sulla strada.

Che se mai questi, alzato l'occhio, è tocco
dalla improvvisa immagine gentile,
e traduce l'omaggio in uno schiocco
del suo staffile,

ella, inclinata dall'aerea sede,
avverte almeno il ruvido saluto,
mentre, o poeta, il verso non si vede,
e il sogno è muto.

... Pur via così, con la tua pazza lena,
guardando, a caso, a questo e a quel balcone,
onde spiri su te l'aura serena
d'una canzone.

Non vedi forse oltre le belle ignare,
alte nel vuoto, tutti gli orizzonti
veduti già sul ventilato mare,
sui nivei monti?

Al tuo morente dì forse non basta,
figlio dell'ora, questa lieta prova:
aggiungere ai fratelli una più vasta
anima nuova;

far che ogni bella sia colei che sveli
senza saperlo, ai nostri giorni brevi
la virtù di sognar limpidi cieli,
nitide nevi?

Curioso cuor mio, questo è il poeta:
passar non visto fra beltà straniere;
senza trovar per sé posa né meta,
tutto vedere.

Esser voce che, a notte, alza il suo volo,
e non sai donde muova e dove vada:
esser l'errante che, movendo solo,
lungo una strada,

ode venir da una finestra aperta
un suono, un canto: e, fermo ad ascoltare,
strappa alla siepe un ramoscel d'offerta,
getta e scompare!

(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)





PIÙ T'ALLONTANI E PIÙ MI SEI VICINA
di Girolamo Comi (1890-1968)

Più t'allontani e più mi sei vicina
bruciante e fresca come fuoco e brina,
aurora di un roseto che si sfoglia
ma che in me più potente rigermoglia

come per ricordarmi l'armonia
di un'Età senza giorni - o Creatura -
che rispecchi l'immagine futura
di un'immortalità ch'è Poesia.

(Da "Opera poetica", Longo, Ravenna 1977)





DONNA NEL SOLE
di Oreste Ferrari (1890-1962)

Ti ho vista camminare
nel sole: sempre bella
la persona alta e snella
come pronta a volare.

Andavi, e non sapevi
di esser guardata: il volto
trepidante, più sciolto
il passo in ritmi lievi.

Dal tuo cuore la romba
del sangue e dei pensieri
balenava nei neri 
occhi tuoi di colomba.

Così tu andavi, e, in ogni
gesto, eri tutta un grido
d'amore, verso il nido
segreto dei tuoi sogni.

(Da "Poesie", Tallone, Parigi 1956)





«HISTORIA»
di Guido Gozzano (1883-1916)

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Ricordi? Io la rivedo,
rivedo la compagna,
la classe, la lavagna,
e lei china alla filza
dei verbi greci... Smilza
e mascula: un cinedo
molto ricciuto e bello...
Ricordi? Io la rivedo
bionda, sciocchina, gaia:
un piccolo cervello
poco intellettuale
di piccola crestaia
molto sentimentale.
Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Quella è la casa dove
crebbe fanciulla. Guarda
quella finestra dove
vegliava ad ora tarda;
il biondo capo chino
su pergamene rozze
di greco e di latino,
sugli assiomi nudi...
Ma poi lascia gli studi
maschi, passando a nozze
cospicue: un amico,
pare, un amico antico
della madre, uno sposo
ricchissimo ed annoso,
inglese, che la porta
in terra d'oltremare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Volsero gli anni. Ed ella
esule sul Tamigi
non dava più novella...
Pure, nei giorni grigi,
tra i miei grigi ricordi,
vedevo a quando a quando
i coniugi discordi:
lo sposo venerando
e l'esile compagna
signora in Gran Bretagna...
Quand'ecco fa ritorno
fra noi, senza marito;
e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo... Cercava intorno
col volto sbigottito,
con pupilla assorta,
chi la volesse amare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

(Da "Poesie", Rizzoli, Milano 1995)





È UNA DONNA
di Piero Jahier (1884-1966)

È una donna
bisogna che si senta felice;
"è bella solo quando si sente felice".
È una donna;
bisogna che si senta bella:
"solo quando si sente bella è buona".

(Da "Poesie in versi e in prosa", Einaudi, Torino 1982)





DONNA INCONTRO AL MARE
di Curzio Malaparte (1898-1957)

Nel paesaggio scarno ove la selva
d'asfodeli accoglie il cielo notturno
tu cammini verso estremi orizzonti
il tuo passo solleva
nubi gonfie d'erba e di foglie
tutto quel che ho sofferto in te si posa
amore speranza paura
non temer ch'io mi penta dei miei sacri errori
senza prigione senza ferite senza crudeli inganni
non ha mistero la vita, né misura.
L'ombra dei carrubi dalle foglie lucenti
stormisce intorno, densa di cupa luce,
come coltelli tintinnano le nere bacche
e il grido dei gabbiani apre segrete
vie nel rosso tramonto. La turchina
notte fra poco
scenderà lieve sulla triste riva.
Sotto i pallidi astri bruceranno
i tuoi occhi dolci.
Nessuno ti vedrà
scendere nuda nel purpureo sonno.

(Dalla rivista «Prospettive», giugno/luglio 1941)





DIVA
di Marino Moretti (1885-1979)

Ospite signorina, io ti ripenso,
e ti rivedo fissarmi con occhi
dilatati, con guardo avido, intenso;
ah, ti rivedo come non t'ho vista
nei sogni, e ridi sfrontata e mi tocchi,
signorina dal bel nome d'artista.

Ridi. Ridesti anche al quattordicenne.
Era il tuo riso più furtivo e folle:
sguardo di donna ch'ei - perché? - sostenne.
Eri povera e bella, eri protetta
da qualche dama, da mia madre. Volle
ospitarti mia madre, o giovinetta.

Abiti, scarpe, ventaglietti, scialli
ella ti diede e tu le sorridesti
felice per il vezzo di coralli,
poi la abbracciasti, la chiamasti mamma:
povera mamma, me la seducesti
per quella foga e quei baci di fiamma.

Io ti osservavo senza tema o fretta
se mi dicevi: «Tu ne avrai, fanciullo,
ah, tu ne avrai». Era una sigaretta.
Credevi ch'io fumassi di soppiatto,
sull'egloga d'Ovidio o di Tibullo,
e ti volgevi a me seria di scatto.

No, non fumavo. Allora mi parlavi
d'altre cose: di uomini, di donne,
di come s'ama, con occhi soavi,
Occhi improvvisi di malinconia,
occhi di vana attesa, occhi d'insonne
ch'eran verdi, turchini, aurei via via.

Occhi ch'io seppi e non amai. Che cosa
vedevi in me che non ti amavo, Diva?
Chi tu vedevi in me, nella mia posa
indifferente che t'indispettiva?

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)





LA MOGLIE DEL BARCAIOLO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Qualche volta nel tiepido sonno dell'alba,
sola in sogno, le accade che ha sposato una donna.

Si distacca dal corpo materno una donna
magra e bianca che abbassa la piccola testa
nella stanza. Nel freddo barlume la donna
non attende il mattino; lavora. Trascorre
silenziosa: fra donne non occorre parola.

Mentre dorme, la donna sa la barca sul fiume
e la pioggia che fuma sulla schiena dell'uomo.
Ma la piccola moglie chiude svelta la porta
e s'appoggia, e solleva gli sguardi nei suoi.
La finestra tintinna alla pioggia che scroscia
e la donna distesa, che mastica adagio,
tende un piatto. La piccola moglie lo riempie
e si siede sul letto e comincia a mangiare.

Mangia in fretta la piccola moglie furtiva
sotto gli occhi materni, come fosse una bimba
e resiste alla mano che le cerca la nuca.
Corre a un tratto alla porta e la schiude: le barche
sono tutte attraccate alla trave. Ritorna
piedi scalzi nel letto e s'abbracciano svelte.

Sono gelide e magre le labbra accostate,
ma nel corpo si fonde un profondo calore
tormentoso. La piccola moglie ora dorme
stesa accanto al suo corpo materno. È sottile
aspra come un ragazzo, ma dorme da donna.
Non saprebbe portare una barca, alla pioggia.

Fuori scroscia la pioggia nella luce sommessa
della porta socchiusa. Entra un poco di vento
nella stanza deserta. Se si aprisse la porta,
entrerebbe anche l'uomo, che ha veduto ogni cosa.
Non direbbe parola, crollerebbe la testa
col suo viso di scherno, alla donna delusa.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





DONNA IN TRAM
di Sandro Penna (1906-1977)

Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l'angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all'altr'uomo
che per «guardare la vita, di fuori»
ti ha lasciata così...

(Da "Croce e delizia", Longanesi, Milano 1958)





LA DUCHESSA
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Framezzo ar montarozzo de le case 
arampicate in cima a la montagna, 
che guardeno curiose la campagna 
come tante donnette ficcanase, 
c'è un gran castello antico ch'assomija 
a la faccia d'un omo che sbadija. 

In quer castello lì c'è 'na duchessa: 
una vecchietta incartapecorita 
che da quattr'anni in qua nun è sortita 
antro che du' o tre vorte p'annà a messa: 
e mó sta a casa tutt'er santo giorno 
a guardà l'antenati che cià intorno. 

Eppuro, 'sta vecchietta, che a vedella 
pare l'illustrazzione d'un disastro, 
se avesse conservato er libbro mastro 
de quer ch'ha fatto ar tempo ch'era bella, 
vedrebbe, da l'entrata e da l'uscita, 
che in fin de conti poi s'è divertita.

Vedrebbe che, ner tempo ch'era forte, 
era forse più debbole d'adesso, 
pe' via che scivolava troppo spesso 
quanno che je faceveno la corte; 
tutti: — Duchessa qua, duchessa là... — 
Quant'era bella cinquant'anni fa! 

Ma mó, Vergine santa, che divario! 
È grinza, arinnicchiata, nun cià denti, 
le labbra, stufe de sbaciucchiamenti, 
je se so' ripiegate a l'incontrario, 
quasi pentite d'avé avuto er vizzio 
d'esse rimaste troppo in esercizzio. 

Puro l'orecchie se so' date pace: 
doppo d'avé sentite tante cose, 
tante parole belle e affettuose, 
mó cianno du' toppacci de bambace: 
bambace che ve dice chiaramente 
che la duchessa è sorda e nun ce sente. 

Ma a lei poco j'importa d'esse sorda, 
ché così pô rimane l'ore e l'ore, 
senza er disturbo de gnissun rumore, 
a ricordà le cose che ricorda... 
Massimamente un certo giovenotto 
che fu l'amico suo ner cinquantotto. 

E nun c'è gnente che l'accori tanto 
come er ricordo de 'st'amore antico: 
s'intenerisce a ripensà a l'amico... 
Ma, appena che una lagrima de pianto 
scivola ner canale d'una ruga, 
la ferma co' la mano e se l'asciuga. 

La ferma e se l'asciuga piano piano, 
rassegnata, tranquilla; poi sospira 
come pe' di': — È finita!... — E se riggira 
la corona d'avorio che cià in mano 
per affogasse le malinconie 
tra le pallette de l'avemmarie. 

E dice fra de sé: — Lo rivedrò? — 
Ma la testa je seguita a tremà 
come a 'na paralitica e je fa 
er movimento de chi dice no... 
Pare che Dio la voja fa' pentì 
d'avé risposto troppe vorte sì!

(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)

domenica 1 marzo 2015

Marzo in altre 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

MARZO
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.

Il fiato del fieno bagnato
è più acre - ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.

(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1989)





MARZO
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Oggi la primavera
è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi
dove il germe gia cade
come diffusa pioggia.
Fra i rami onusti e prodighi
un cardellino becca.
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce.
Tutto è color di prato.
Anche l'edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione,
lungo i ruderi ombrosi e macilenti
cui pur rinnova marzo il grave manto.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d'umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.

(Da "Opere", Mondadori, Milano 1981)





MARZO
di Arturo Onofri (1885-1928)

Marzo, fanciullo dal lungo sbadiglio,
i tuoi capricci incantevoli
come risa dopo le lacrime
sono trastulli di nuvole e sole.
Col tuo fresco fiato che sa di viole
appanni il verde novizio dei colli,
l’impiumo leggero degli alberi,
per poi rischiararli improvviso.
E il giuoco delle tue dita
dipana il groviglio del cielo
fra nero e sereno,
come in noi rifluisce e s’arresta la vita
divagando sospesa al tuo riso.
Scherzi col nostro cuore,
fanciullo dal lungo sbadiglio,
come fai sulla proda dei campi
con le piccole stille
che le accendi in minuscoli lampi,
per oscurarle di nuvole.

E il fiume che lento induce
i rilievi assolati della terra
verso il sospiro stanco della sera
accompagna il dolce belato
delle pecore al pascolo
secondo le curve indistinte dell’anima
che sogna in se stessa
e sorride al suo proprio pianto,
come te, fanciullo dal lungo sbadiglio.

Ma quando è calato il sole
e resta ancora un chiarore
nell’aria stanca di giuochi,
ecco un soffio più ilare
sgombra il sereno di tutte le nuvole,
e un filo di luce appena
pian piano tira su dall’orizzonte
fin sull’orlo del piccolo colle
la grande luna piena
che s’impiglia fra i rami senza foglie
della rossa robìnia tutta corolle,
come un gran frutto di luce
in mezzo ai suoi fiori.

Allora l’alta pausa notturna
addormenta la terra
dalle montagne lontane,
che sognano ancora turchino,
fino al gorghéggio romito
dell’usignolo fra i lecci,
che saluta il risveglio dell’infinito.

(Da "Arioso", Casa d'Arte Bragaglia, Roma 1921)





MARZO
di Giovanni Papini (1881-1956)

Sole di marzo e polverio di strade
sulle cascie e sul bòssolo patito
ne' vecchi prati margherite rade;
un melo bianco, primaticcio invito

al riprincipiamento intempestivo
d'ogni passione. E par che le sue palme
già protenda alla Pasqua il buon ulivo
che i rami torce sulle piogge calme.

Nel gran cielo di stagno liquefatto
di nuvoli leggeri una famiglia
taglia candidamente il campo intatto
come una primitiva meraviglia.

Un color di stanchezza solitaria,
d'umiltà consolata, di piacere
promesso e di rammarico è nell'aria,
quasi cenere d'altre primavere.

Nell'anime al calore disavvezze
tornano in compagnia memorie e voglie
e tutte le scordate tenerezze
come su' rami giovani le foglie.

(Da "Pane e vino", Vallecchi, Firenze 1926)





MARZO
di Alessandro Parronchi (1914-2007)

La brina s'è crettata sulle labbra dei campi 
e già il vino dell'alba s'è versato nel fango
macinato dai carri. La carne fra le coltri
troppo al caldo s'affina: ma la bocca del forno
fiata sull'erba odore di farina.

Con dolore ora preme alle radici
il nero della terra, con dolore
l'acqua serra i ginocchi della roccia
entro ceppi di ghiaccio, dalla rossa ferita
del sole, già richiusa, in tumori viola
pallida nel segreto ora filtra la vita.

Si scioglie un suono d'organi, si sveglia alle gengive
l'aceto, nella stanza tutta luce di vetri
passa e ripassa la mamma in faccende
come vista nel cavo d'una lente.

Senti come se tutti in te si riconoscano
veri ma tu non possa riconoscerti in loro.
Sei vivo, ma di terra. Nei cavalli che vanno
vedi il cielo che fuma vedi il giorno di nuvole.

(Da "Diadema. Antologia personale 1934-1997", Mondadori, Milano 1998)





MARZO
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Ieri, giochi di marzo, i praticelli
incipriati di neve e il Po nero;
oggi sereno che abbaglia su l'acque,
e le barche già cullano l'estate.
Torino, in una frale filigrana
d'alberi con le rivelate strade,
bella, e con quell'assistere di monti.

(Da "Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949)





PRESAGI DELLA NUOVA STAGIONE
di Giuseppe Raimondi (1898-1985)

Marzo, 
che fai sbatter
le persiane alle finestre,
e nei giardinetti
vai risvegliando
le adolescenti
in blusa verde,
concedimi
di riposar la mia
freddolosa scontentezza invernale
sotto un cielo mattutino
di zaffiro,
ammorbidisci
la luce in fronte
alle bianche ville.

[Da "Poesie (1924-1982)", Scheiwiller, Milano 1999]





MARZAIOLA
di Mercurino Sappa (1853-1926)

Già da la neve fuor, che in sé trapela,
I petali sporgea bruni a guardare
Una mammola, un cuor nato ad amare,
Che nel tacito effluvio si rivela.

E un'alauda invisibil, che s'inciela,
In note diffondea squillanti e chiare
L'anima, che nel sole odi tremare,
E 'l mondo abbraccia e a l'infinito anela.

E quell'inno parea tutto fragrante,
E parea quel profumo una melode
Sopra la terra candida, aspettante.

Sentìasi un'aura di lontane prode
Nunzia di primavera in quell'istante.
L'anima delle cose apresi e gode.

(Da "Il manipolo", Streglio, Torino-Genova 1908)





MARZO
di Diego Valeri (1887-1976)

Marzo è lassù nella sua nuvola
di vento e sole, di fumo e argento.
Tu sei quaggiù nella tua favola
d'anima e carne, di gioia e tormento.

(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1962)





ACQUERELLO DI MARZO
di Bruno Vignola (1878-1956)

Giù nella strada
sotto la mia finestra aperta su un cielo biadetto di marzo
c'è un subito stropiccio di passi.
M'affaccio: un funerale. Sul grande
carro ammantato di ghirlande
rosse batte ora un vivo sprazzo di sole
di questo sole così nuovo, così buono - - -
Va lento e grave il carro, e passa
con dietro il suo sommesso scalpiccio.
E c'è nell'aria un odore così strano:
di fiori:
come un filamento di primavera,
se non ci fosse insieme anche questo odor di cera:

che mi fa pensare al morto
che là in fondo, di via in via, fino al cimitero,
agli urti del carro che traballa
su l'acciottolato
tentennando i suoi pennacchi neri,
scrolla nell'inchiodato
buio della cassa
la sua ermetica faccia gialla:

ora... che su pe' muri dei giardini
bianchi di ghiaia a brune macchie di fresche aiuole
i glicini scuotono alla brezza
in fitti grappoli azzurrini
i loro mille bùbboli di odore - - -

(Da "Gamma", Taddei, Ferrara 1918)

venerdì 20 febbraio 2015

La raffinata poesia di Adolfo De Bosis

Nacque ad Ancona nel 1863 e ivi morì nel 1924. Laureato in legge, direttore di società commerciali, ebbe una fervente passione letteraria che lo spinse a fondare e a dirigere una prestigiosa rivista: Il Convito, pubblicata tra il 1895 ed il 1907. All'interno delle pagine del Convito si trovano, tra l'altro, molte poesie di Giovanni Pascoli che in seguito furono stampate nei Poemi conviviali. Ma anche De Bosis si dedicò alla scrittura di versi, con ottimi risultati. Già diciottenne pubblicò un volumetto di Versi, ma è del 1900 il suo libro più significativo: Amori ac silentio sacrum. La poesia di De Bosis fu definita da molti critici estetizzante; seppur sia impossibile negare ciò, va comunque sottolineata la grandissima abilità poetica dello scrittore marchigiano, che ebbe certamente delle simpatie nei confronti di D'Annunzio e di Pascoli, ma che comunque trovò il modo di esprimersi in maniera originale e squisita. Anche nei successivi versi, riuniti poi nel definitivo volume del 1914 e ristampato nel 1924, si trovano autentici capolavori poetici che purtroppo pochi oggi ricordano. Il De Bosis fu etichettato anche quale poeta decadente, preraffaellita e, addirittura, stilnovista. Ma è piuttosto da evidenziare che alcuni suoi versi mostrano peculiarità non distanti da quelle che si riscontrano nelle opere poetiche di due "mostri" della poesia mondiale, tra l'altro tradotti dal nostro: Percy B. Shelley e Walt Whitman. Insomma si può definire De Bosis un poeta molto bravo e completamente immerso nel suo tempo, capace di attingere, con ottimi risultati, sia dalla poesia nostrana che da quella straniera. Chiudo, dopo un elenco delle sue opere poetiche e delle antologie in cui è possibile leggere poesie di De Bosis, pubblicandone tre componimenti fra i miei preferiti.


Opere poetiche

"Versi", Pasqualis, Fano 1881.
"Amori ac silentio sacrum", Tip. dell'Unione Cooperativa Editrice, Roma 1900.
"Amori ac Silentio e le Rime Sparse", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914.





Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 137).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (p. 355).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 201-223).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 317-318).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 200-202).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 238-241).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 293-294).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1217-1227).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 145-148).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp.753-759).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 1224-1228).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (volume secondo, pp. 93-99)
"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 472-476).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo primo, pp. 55-59).



Testi

ANIMA ERRANTE

Odoravano le viole
nel chiuso breve (rammenti?...)
e tra le nubi fuggenti
piovevano raggi di sole.

Tacevamo. Io dissi: "Morire".
Null'altro io dissi. Le cose
risposero elle, o rispose
un'eco nel core...? "Morire".

E d'intorno accennavan neri
cipressi al vento; le fronti
adamantine de' monti
si ergevan da lungi in pensieri

degni soli ne l'infinita
pace d'azzurro e di neve...
O doglia umana! E tu, breve
piangevole favola, o Vita!

E mi parve il mondo un altare,
a le cui soglie la nostra
anima errante si prostra,
ma un attimo solo, a pregare:

poi per una deserta riva
che non ha foce, obliosa
fluttua con ogni altra cosa,
per sempre, né morta né viva.

E per quella eterna fiumana
(deh leniente!) si sciolse
l'anima, via... Né si volse.
Tu, eri nel mondo; lontana.


"Anima errante" è la ventunesima poesia compresa nella sezione "Amori ac silentio" del volume "Amori ac Silentio e Le Rime sparse", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914 (pp. 59-60). Uscì anche nella rivista "Il Convito" del dicembre 1907. Molti critici hanno parlato, a proposito di questa lirica, di atmosfere pascoliane; ma a me sembra che questi versi, più che al Pascoli, siano vicini allo Gnoli (alias Giulio Orsini) di "Fra terra e astri".





ULTIMAMENTE...

Ultimamente, poi che il limitare
di giovinezza taciturno scesi,
odo per entro i miei spiriti illesi
pur di lunge la sua voce chiamare.

Però mi volgo, ad esplorar le chiare
vette ove indarno il mio gran sogno attesi
non già ch'io speri alfin mi si palesi,
scarso, omai, faro a mio selvaggio mare.

Ma temo forte aver lasciato in cima
d'un'erma torre, diva ospite sola,
Una che chiama, non mai scorta prima

E per lei ricercar dietro li sguardi
l'anima figgo; e d'ogni sua parola
non mi giunge che questa unica: TARDI.


Questa poesia, come la successiva riportata, uscì nel 1914 sia sul volume sopra citato, sia sulla rivista "La Riviera Ligure". Sono versi certamente malinconici, con, in più, una figura misteriosa personificata da una donna che chiama, da un'erma torre, il poeta, dicendogli parole non comprensibili a parte una: quel "tardi" evidenziato da lettere maiuscole, che riassume il rimpianto di "ciò che poteva essere e non è stato".





TORBIDA, LA NOTTE CALA

Torbida, la Notte cala,
con un brivido, da l'arco
del cielo. - Non odi l'ala
sua rader l'ombra del parco? 

Non trema vetta né stelo:
e l'anima perchè trema? 
Una tristezza suprema
fluisce dal muto cielo,

simile ad un tardo fiume
che tragga fra cupe rive
senza né rombo né lume
le vite nostre malvive.

E ne la notte silente
taluno (o il Tutto?) a ginocchi,
da' suoi smisurati occhi
piange, inconsolabilmente.


Colma di atmosfere misteriose, questa poesia può definirsi tra le più simboliste dell'autore. Per alcuni versi molto somiglia a certe liriche suggestive e lugubri di Arturo Graf; ma, come anche "Anima errante", non è lontana dall'ultimo modus poetandi di Domenico Gnoli.

mercoledì 18 febbraio 2015

Il fascino nella poesia italiana simbolista e decadente

Il fascino è qui riferito alla seduzione e alla bellezza tipicamente femminili, che nelle poesie dei simbolisti acquistano significati diversi. Sotto la fascinazione provocata da una donna si può nascondere l'essenza del male o, al contrario, lo splendore del divino. Una bellissima ragazza diviene a volte il simbolo della felicità; altre volte assume le caratteristiche del mistero che sovrasta il mondo intero. Una signora che possiede un fascino tutto particolare può essere collegata alla malinconia ed alla tristezza, essendo portatrice di una bellezza che mostra i segni del tempo ed è, quindi, prossima a sfiorire. Ci sono poi i ricorrenti riferimenti alla morte, che si mostra affascinante perché promette l'oblio e la pace eterna. Il personaggio leggendario maggiormente ricordato in questo contesto dai poeti simbolisti è senz'altro Salomé: incarnazione del fascino, dell'erotismo e soprattutto del male, visto che, in cambio della sua ipnotica esibizione, spietatamente e senza un motivo plausibile, chiede ad Erode la testa del Battista.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Ricordo di un giorno d'estate" e "Inno all'anima crepuscolare" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Sandro Baganzani: "Ave" in "Senzanome" (1924).
Gustavo Botta: "Madrigale" in "Alcuni scritti" (1952).
Alfredo Catapano: "Per giovane donna canuta" in "Dai Canti" (1929).
Francesco Cazzamini Mussi: "Desiderio della donna in lutto" in "Le allee solitarie" (1920).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Gratiae plena" in "Le consolatrici" (1905).
Girolamo Comi: "Le furie di carezze non sentite" in "Lampadario" (1912).
Adolfo De Bosis: "Vien ne la notte..." e "Ben per quante costringe isole" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Luigi Donati: "L'Eletta" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Vincenzo Fago: "Il bagno d'Egle" e "Torna forse l'antica melodia" in "Discordanze" (1905).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il nostro sogno" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Corrado Govoni: "Incoronazione" e "Invocazione" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Contrasto" in "Gli aborti" (1907).
Luigi Gualdo: "Resurrecta" in "Le Nostalgie" (1883).
Amalia Guglielminetti: "Fascini" in "Le Seduzioni" (1909).
Virgilio La Scola: "Speculum Danae" in "La placida fonte" (1907).
Giuseppe Lipparini: "Stephana" e "L'incantesimo" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "Idolo strano, sotto un padiglione" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Enzo Marcellusi: "Oh, la grazia, la grazia d'una bionda " in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Tito Marrone: "Beatrix" e "Evocazione" in "Sonetti dell'estate e dell'autunno" (1900).
Tito Marrone: "Il fresco" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).
Mario Morasso: "L'Apparizione" in "I Prodigi" (1894).
Angiolo Orvieto: "Le due Etrusche" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Antonio Rubino: "Mare con onde" in «Poesia», ottobre 1908.
Emanuele Sella: "Nella notte illune" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Emanuele Sella: "Monteluce" in "Monteluce" (1909).
Emanuele Sella: "Intus alit" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'òmero", "Il braccio" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Remigio Zena: "La conocchia" in "Olympia" (1905).



Testi

FASCINI
di Amalia Guglielminetti

Colei che a un riso di seduzioni
tutta sola sen va, volgesi e gode
or dei fascini belli ed or dei buoni.

Talora si sofferma e una sua lode
sorridendo susurra, ma sì piano,
che niuno fuor del suo silenzio l'ode.

Ascolta il mare urlar tragico un vano
suo amore, oppur gioisce in numerare
gl'intrichi delle vene in una mano.

Sosta in ansia d'attesa al limitare
d'un vecchio parco, oppur s'abbaglia al gioco
d'arcobaleno delle gemme rare

sotto rovesci calici di fuoco.

(Da "Le seduzioni", 1909)





MADRIGALE
di Gustavo Botta

Nel dorato mattino, altro non vidi
che la tua fronte pallida e i tuoi grandi
occhi, sotto le ciglia che son ali;
e la bocca rossissima, ove nidi
al desiderio schiudono i tuoi blandi
sorrisi, ed i capelli ardenti, quali
fogliami effusi al sole mattutino.
Odimi: non vidi altro in quel giardino.


(Da "Alcuni scritti", 1952)

giovedì 29 gennaio 2015

Poeti dimenticati: Mario Vugliano

Nacque a Vestignè, in Piemonte, il 9 marzo del 1883. Laureatosi in legge, si interessò di giornalismo e di letteratura; divenne redattore-capo del quotidiano La Perseveranza e pubblicò suoi scritti su varie riviste di inizio Novecento. Scrisse qualche romanzo, un libretto d'operetta e, in collaborazione con Egidio Possenti, anche un'opera teatrale. Non pubblicò mai in volume le sue poesie, seppure la rivista Riviera Ligure, nell'ottobre del 1904, avesse annunciato a breve l'uscita di un libro intitolato: Prima del sole. Morì nel 1964.


Testi

LA CAMPANA

Fievole or sì, or no, mi reca il vento
nell'ombra vespertina una lontana
soave e mesta voce di campana
singhiozzante in un tremito d'argento.

Dan, dan, dan... forse vien da un convento:
la suona un frate nella chiesa vana;
forse romba sui monti qualche frana,
nel mondo giacque qualche umano spento.

Dan, don, dan, don..., pietà, pietà, Signore,
per quei che cadde vinto nella guerra,
pace, pietà per quei che nasce o muore.

Tutto il divino bene che rinserra
soavemente l'urna del tuo cuore,
sparga, o Signore, sopra questa terra.

(Dalla rivista: "La Riviera Ligure", ottobre 1904)

mercoledì 28 gennaio 2015

La poesia ironica e malinconica di Pompeo Bettini

È certamente da annoverare tra i migliori poeti del secondo Ottocento italiano, il nome di Pompeo Bettini, nato a Verona nel 1862 e vissuto quasi sempre a Milano, dove è morto nel 1896. Povero, malato fin dall'adolescenza e senza affetti per buona parte della sua esistenza, lavorò come correttore di bozze presso l'editore Sonzogno. Si interessò di politica e aderì al socialismo. Pubblicò i suoi versi in un volume uscito nel 1887, in collaborazione con l'artista Attilio Pusterla. Altri versi ancora, alcuni dei quali erano usciti su riviste dell'epoca, furono stampati in un libro edito l'anno successivo alla sua morte. Bettini fu anche egregio prosatore, drammaturgo e traduttore, ma è indubbio che come poeta egli diede il meglio di sè; ciò è dimostrato pure dal fatto che alcuni illustri intellettuali italiani si interessarono alla sua opera in versi: Benedetto Croce per esempio, che mezzo secolo dopo la sua dipartita pubblicò un volume che raccogliesse tutte le sue poesie. Considerato da alcuni quale prosecutore della poetica scapigliata, da altri anticipatore di certo crepuscolarismo, Bettini fu sicuramente poeta ironico, a volte malinconico e contemplativo; più raramente polemico e impegnato. Forse i suoi versi migliori sono proprio quelli in cui emerge una sincera disperazione, dovuta sia alle precarie condizioni fisiche, sia ad una tendenza spontanea verso la tristezza (in questo preciso contesto indimenticabili sono le sue Liriche di primavera)Chiudo riportando, dapprima l'elenco delle opere poetiche di Bettini, quindi un elenco di antologie che comprendono i suoi versi, infine tre liriche fra le mie predilette.    



Opere poetiche

"Versi e acquerelli", Quadrio, Milano 1887.
"Poesie", Brigola, Milano 1897.
"Le poesie", Laterza, Milano 1942.
"Poesie e prose", Cappelli, Bologna 1970.





Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 268-269)."Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. I, pp. 93-101).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 169-171).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 47-49).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp.1009-1025).
"Poeti della scapigliatura", a cura di Mario Petrucciani e Neuro Bonifazi, Argalia, Urbino 1962 (pp. 273-281).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 105-113).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 743-752).
"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (volume secondo, pp. 1927-1940).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp.1152-1160).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 26-27)
"Dio borghese", a cura di Adolfo Zavaroni, Mazzotta, Milano 1978 (pp. 125; 218-219).
"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1978 (pp. 281-289).
"Poeti italiani dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 465-471).
"Poeti del riflusso", a cura di Rina Gagliardi, Savelli, Roma 1979 (pp. 57-58; pp. 67-68).
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 303-318).
"Dagli scapigliati ai crepuscolari", a cura di Gabriella Palli Baroni, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000 (pp. 338-380).




Testi

I. NELLA VALLE SONORA MANCA IL GIORNO

Nella valle sonora manca il giorno,
giran le nubi per le cime intorno.
Io salgo al cimitero.

Coi bracci aperti disperatamente
le croci chiaman nell'ombra crescente
al loro amplesso fiero.

Saltan gli insetti per il cupo verde,
fischia un convoglio, e nel sasso si perde:
la nebbia stende il velo.

Io guardo ai monti che mi dicon forte:
Ama d'un sol amor fino alla morte,
e guarda spesso in cielo.


Porta la data: Wassen, agosto 1885 e fu quindi scritta nella località svizzera dove il poeta stava trascorrendo le vacanze estive. Riguardo al verso 8, ecco cosa scrisse il grande critico Luigi Baldacci nell'antologia Poeti minori dell'Ottocento: Wassen è un villaggio del cantone di Uri nel cui territorio corrono le gallerie elicoidali della ferrovia del Gottardo.





II. A UN TRATTO LE CAMPANE

A un tratto le campane
che annuncian mezzodì
mi dan voglia di piangere.
Quando le udii cosi?

Stamane m'ero alzato
con la mente serena,
ma poi sempre il passato
idee tristi rimena.

Oh che pensiero amaro
è quello di morire!
T'amo come un avaro,
o mio corto avvenire!


Questa è la settima delle dieci Liriche di primavera uscite per la prima volta sulla rivista Vita moderna nel marzo del 1892. Furono poi ristampate in Poesie, Brigola, Milano 1897 e in tutte le successive raccolte poetiche di Bettini.  È uno dei componimenti in cui si ravvisa di più la poetica dei crepuscolari; c'è una percezione della morte prossima a verificarsi, che in qualche modo ricorda certi versi di Guido Gozzano.





III. LE MIE BRACCIA SON GREVI

Le mie braccia son grevi
come rami coperti dalle nevi,
la mia faccia è severa
e fisso gli occhi nella primavera.

Cammino a passo lento,
guardo le cose ad una ad una, e sento
invadermi un languore
ch'è senza oggetto, ma sarebbe amore.

Il vento soffia e rade
i viali e le strade;
i fiori delle piante, fecondati,
lascian cadere i petali sui prati,

e nuvole grandiose,
senza tinte scherzose,
viaggiano nel cielo a somma altezza,
sospese in una frigida purezza.


È l'ottava Lirica di primavera in cui si palesa sia un amore fortissimo nei confronti della natura, sia una fatica di vivere, sottolineata già nei primi versi da una pesantezza corporea e una predisposizione dell'animo alla rigorosità (quest'ultimo concetto è evidenziato dal verso 3: la mia faccia è severa), sia una velata consapevolezza di vivere in una realtà indifferente e distante (come dimostra l'ultimo verso in cui le nuvole sono viste sospese in una frigida purezza). 

domenica 25 gennaio 2015

Due poesie di Paolo Buzzi

Accanto al più conosciuto Paolo Buzzi: poeta impetuoso, ribelle e propenso agli esperimenti, ve n'è un altro ben diverso, quasi contrastante col primo. È un uomo meditativo, che sembra a volte rattristarsi per ciò che non è successo e che poteva succedere; altre volte i suoi versi evidenziano un rimorso per dei comportamenti istintivi sbagliati, che lo hanno posto ai margini della società. Certamente Buzzi non è stato mai vicino alla poetica dei crepuscolari, come successe invece ad altri futuristi, ma esistono anche nei suoi versi delle tristezze e delle malinconie che qua e là affiorano, ed è quindi facile metterle in evidenza, come ho fatto riportando queste due poesie. La prima proviene dalla raccolta Aeroplani, del 1909, ed è uno dei volumi poetici più importanti del movimento futurista; la seconda appartiene al Poema dei quarantanni (1922), che è una sorta di autobiografia in versi di eccezionale valore. Sono due poesie bellissime, che meritano nuova attenzione, così come la merita il poeta, troppo sbrigativamente etichettato e considerato soltanto nell'ambito del movimento futurista.


Paolo Buzzi (Milano 1874 - ivi, 1956)



I BIMBI

Quasi più non vivo coi bimbi.
Quasi, li ignoro.
E quelli ch'erano bimbi con me
perdon le chiome o imbiancano, han già le lunghe barbe.
E molti bimbi fecero.
Io, bimbi, no. I miei fratelli, pure,
son orfani di figli. Stagna il mio sangue
come gora fra sassi alti, nel continuo torrente della vita.

Amo, senza invidiarli, i bimbi.

Io non so se m'amino. Uno s'appressa
al pianoforte ov'io suono Danze Macabre sovente.
E mi guarda come si guarderebbe un Dio. Un'altra
(bella come l'amore che non s'incontra)
mi siede sulle ginocchia, quando scrivo,
e mi domanda - Tu scrivi alla Madonna?

Innocenze. Son figli

di stranieri. Nulla so
de' lor sangui, de' lor sogni: donde vengano,
chi li aspetti.
Entrano dalla mia porta aperta sempre.
E se ne vanno con qualche chicca in bocca.
Certo han le madri giovani. Ed io le fuggo
per non dar loro fratelli adulterini.
Lui m'ha chiamato - Zio! - ieri.
Lei, domani, può chiamarmi - Nonno! -
Sentono che son vecchio.
E, in fondo, già mi burlano
per tale. Se mi vedessero cadere nel fango, in istrada,
sarebbe un'altra risata, come pel vecchio Parini.
Ed io m'avrei quel tema per un'altra Ode.
Tutto ciò è un poco triste.
Ma non bisogna uccidersi, per questo. Anche i bimbi
diventano vecchi, a giorno a giorno.

(da "Aeroplani", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1909, pp. 159-160)





MISANTROPIA

Non amo gli uomini.
Nessun male profondo mi fecero
ché nessun male, pur lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia mia è di sfuggirli.
Pagherò questo capriccio da sultano.
Morrò senza due righe di commento alle gazzette
assai simile all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno delle meraviglie,
io che veramente avrò vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi nei cantoni. Il buio
in solitudine mai m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte, ai testi. Per ciò
credo alla futura e eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli uomini dimenticati.

(da "Poema dei quarantanni", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1922, pp. 346-347) 

martedì 20 gennaio 2015

Chiamò il mio cuore...

Chiamò il mio cuore, una mattina chiara,
con profumo di gelsomino, il vento.

- In cambio di questo aroma,
tutto l'aroma delle tue rose voglio.
- Non ho rose; fiori
nel mio giardino non ne ho più: sono tutti morti.

Porterò via il lamento delle fonti,
le foglie gialle e i petali appassiti.
Fuggì il vento... Il cuore sanguinava...
Anima mia, che hai fatto al tuo povero orto?




COMMENTO

Poesia di Antonio Machado (1875-1939) che possiede caratteristiche prettamente crepuscolari. In una bella mattina luminosa il poeta, che probabilmente si trova nel suo giardino, percepisce l'arrivo improvviso del vento che porta con sé un gradevole odore di gelsomino. Quindi, sorprendentemente e segretamente, il vento comincia a parlare rivolgendosi all'anima (il cuore) del poeta e gli propone una sorta di baratto: in cambio del suo aroma vorrebbe il piacevolissimo odore delle rose del suo giardino. Ma il poeta confida al vento l'impossibilità di un simile scambio, essendo il suo giardino completamente arido e, quindi, senza alcun fiore profumato. Si ripropone però di portare via le foglie ingiallite e i petali appassiti che coprono il suolo. Però il vento non prende in alcuna considerazione il tentativo del poeta e se ne va, lasciando quest'ultimo nella più completa desolazione (il cuore sanguinante). L'ultimo verso, che ne ricorda un altro famosissimo di Paul Verlaine, è insieme una domanda ed una triste constatazione: il poeta infatti chiede alla propria anima il motivo del suo inaridimento, il perché di una situazione esistenziale che non trova più alcun motivo per sperare e gioire, rimanendo assolutamente indifferente e inerte a qualsiasi spinta vitale.    

Morire...

Morire... Cadere, goccia
di mare, nel mare immenso?

O essere chi non fui mai:
privo dell’ombra e del sogno,
un solitario che avanza
senza una via, senza specchio.



COMMENTO

Pochi versi nudi e crudi del grande poeta spagnolo Antonio Machado (1875-1939). Da quanto scrive, l'autore sembra si trovi ad un bivio esistenziale che non lasci alcuno scampo: scegliere la morte o la vita. Ma ambedue le scelte sono dolorose e non portano a nulla di buono: la morte perché rappresenterebbe la fine di tutto e l'inizio di un vuoto, un nulla paragonato ad una goccia d'acqua che cade nel mare. La vita perché continuerebbe ad essere qualcosa di falso e di desolante, come il fare una lunga strada senza compagnia e senza speranza, che, come è naturale, porterebbe, dopo lunga fatica ed agonia, alla morte.

domenica 18 gennaio 2015

"Il purosangue" di Massimo Bontempelli



È cosa certa che, nella illustre carriera letteraria di Massimo Bontempelli (Como, 1878 - Roma, 1960) la poesia ha una importanza marginale. Eppure i suoi esordi dimostrano un interesse quasi esclusivo per la lirica, anche se poi Bontempelli ripudiò le numerose opere in versi che pubblicò nei primissimi anni del XX secolo, le quali, pure se non posseggono grandi qualità, influenzarono in parte qualche poesia dell'amico Guido Gozzano. L'unico volume di versi "salvato" da Bontempelli è Il purosangue. L'ubriaco, uscito nel 1919, in un periodo in cui lo scrittore lombardo si era da poco stabilizzato a Milano e aveva trovato il modo di avvicinarsi alquanto al futurismo. L'opera, come si evince dal titolo, è divisa in due sezioni: la prima vede la presenza di poesie molto vicine alla corrente letteraria fondata da Marinetti, ma non lontane da certo surrealismo e, come hanno indicato alcuni illustri critici, dalla metafisica (che è una scuola prettamente pittorica). La seconda parte vede delle poesie il cui argomento è la Grande Guerra, alla quale Bontempelli partecipò; l'aria che vi si respira è però del tutto differente da quella dei versi ungarettiani che uscirono negli stessi anni; in L'ubriaco (e il titolo parla da solo) l'autore sembra sdrammatizzare e addirittura ridicolizzare l'evento bellico e persino la sofferenza del soldato che vi partecipa.
La prima edizione de Il purosangue. L'ubriaco uscì presso l'editore Facchi di Milano nel 1919. Una prima ristampa del volume si ebbe nel 1933 (La Prora, Milano). Infine, nel 1987, è stato l'editore Scheiwiller in Milano a riproporre nuovamente i versi di Bontempelli.
Ingiustamente poco ricordata da critici, saggisti e autori di antologie poetiche del '900, l'opera poetica di Bontempelli fu premiata da Pier Vincenzo Mengaldo, che la inserì nella severa selezione della famosa antologia Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978.


giovedì 15 gennaio 2015

Antologie: "Le notti chiare erano tutte un'alba"



Penso che l'antologia Le notti chiare erano tutte un'alba, curata da Andrea Cortellessa e pubblicata da Bruno Mondadori nel 1998, sia un'opera unica nella sua fattispecie; vi sono selezionate e raccolte infatti le poesie italiane che hanno come tema la "Grande Guerra", ovvero il primo conflitto mondiale del XX secolo che ci vide coinvolti direttamente. A quanto ne so, erano già state pubblicate antologie che avevano come argomento portante la guerra, o che mettevano in risalto gli scritti di poeti morti in un evento bellico, ma nessuna di esse può essere equiparata a questa. Qui si possono leggere sia i famosissimi versi di poeti importanti come Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Umberto Saba ed altri ancora, sia quelli di scrittori oggi dimenticati (Vittorio Locchi, Carlo Stuparich, Vann'Antò, Manlio Dazzi per citarne alcuni), che però, negli anni successivi alla fine del conflitto, ebbero il loro momento di notorietà. Da notare che, famosi o sconosciuti, quasi tutti questi poeti furono coinvolti direttamente nella guerra di trincea e in parte vittime del fuoco nemico. L'antologia si avvale di una prefazione di Mario Isnenghi ed è divisa nelle seguenti sezioni (tutte presentate e commentate):

Antefatto - La guerra attesa
La guerra-festa
La guerra-cerimonia
La guerra-comunione
La guerra-percezione
La guerra-riflessione
La guerra lontana
La guerra-follia
La guerra-tragedia
La guerra-lutto
La guerra ricordata
Post factum - La guerra postuma

Come si può capire dai titoli delle sezioni presenti, il curatore ha voluto inserire separatamente, in modo più cospicuo ed efficace possibile, le emozioni, le speranze, i sentimenti, le sensazioni, le meditazioni, i rimpianti, le rabbie, i dolori e i ricordi provati direttamente o indirettamente dai poeti che combatterono o videro combattere la Grande Guerra. Fa eccezione l'ultima poesia (di Andrea Zanzotto) il cui contenuto spiega come possa sentirsi e quali pensieri possa avere chi, dopo molti anni dalla fine del conflitto, visita i luoghi dove si svolse la 1° Guerra Mondiale e osserva le sepolture dei soldati caduti.
Ecco infine i nomi dei poeti che sono presenti in questa originale antologia.



LE NOTTI CHIARE ERANO TUTTE UN'ALBA

Corrado Alvaro, Bruno Aschieri, Giulio Barni, Carlo Betocchi, Ugo Betti, Bino, Binazzi, Giovanni Boine, Massimo Bontempelli, Giuseppe Bottai, Paolo Buzzi, Ferdinando Caioli, Dino Campana, Francesco Cangiullo, Mario Carli, Carlo Carrà, Giovanni Comisso, Primo Conti, Silvio Cremonesi, Auro d'Alba, Gabriele D'Annunzio, Manlio Dazzi, Lionello Fiumi, Luciano Folgore, Carlo Emilio Gadda, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Piero Jahier, Vittorio Locchi, Curzio Malaparte, Biagio Marin, Filippo Tommaso Marinetti, Fausto Maria Martini, Armando Mazza, Francesco Meriano, Eugenio Montale, Nicola Moscardelli, Luciano Nicastro, Giacomo Noventa, Arturo Onofri, Nino Oxilia, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Clemente Rèbora, Umberto Saba, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro, Ettore Serra, Ardengo Soffici, Sergio Solmi, Carlo Stuparich, Enrico Thovez, Trilussa, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri, Vann'Antò, Andrea Zanzotto.




venerdì 9 gennaio 2015

I fantocci nella poesia italiana simbolista e decadente

Fantocci, manichini, burattini e marionette sono personaggi usuali soprattutto nei versi dei poeti crepuscolari; in genere vogliono significare una totale assenza, da parte dei corpi umani, di un'anima, uno spirito vitale che li distingua dai semplici oggetti. Come dice Camillo Sbarbaro nella sua prosa poetica Ai fantoccini meccanici, essi rappresentano e sono la "vita" che, composta soltanto da esseri inanimati, vuoti e ridotti a cose, perde qualsiasi significato, viene svilita, ridotta a pura meccanicità in tutte le sue espressioni.



Poesie sull'argomento

Massimo Bontempelli: "Attaca, bimbo, quattro fili" in "Il purosangue. L'ubriaco" (1919).
Gustavo Brigante-Colonna: "Come mi sento allocco" in "Gli ulivi e le ginestre" (1912).
Enrico Cavacchioli: "Tragedia di burattini" in "Cavalcando il sole" (1914).
Sergio Corazzini: "Dialogo di Marionette" in "Libro per la sera della domenica" (1906).
Federico De Maria: "Fantocci" in "La Ritornata" (1932).
Marco Lessona: "Chiamata" in "Versi liberi" (1920).
Tito Marrone: "Il manichino" in «Vita letteraria», marzo 1907.
Nicola Moscardelli: "Burattinata sentimentale" e "La lettera del burattino" in "Abbeveratoio" (1915).
Aldo Palazzeschi: "Il castello dei fantocci" in "I cavalli bianchi" (1905).
Guido Pereyra: "Canto Sesto" in "Il Libro del Collare" (1920).
Camillo Sbarbaro. "Ai fantoccini meccanici" in "Trucioli" (1920).
Aurelio Ugolini: "Marcia funebre d'una marionetta" in "Viburna" (1905).



Testi

ATTACCA, BIMBO, QUATTRO FILI
di Massimo Bontempelli

Attacca, bimbo, quattro fili
agli estremi d'un'anima sensitiva.

Così. Tira un filo poi l'altro:
vedi alza un piede poi l'altro
si drizza si muove va.

Cammina impettita - scatta.
Quanti angoli - acuti
ottusi - puntuti.
Anima matta.

Allenta quel filo: si china.
Spingila in mezzo, pigia:
apre le braccia come se fosse in croce.

Le giunture scricchiolano
ma l'anima va imperterrita
i membri si stirano
i pezzi si contorcono
ha fatto un giro come un acrobata.

S'è un po' schiantata? non importa
sembrava vera.
                             O vedi vedi gli occhi
piange? ma è vera?
non importa è solo d'anima

su bambino, via i giocattoli
e a letto, se no non si cresce.

(Da "Il purosangue. L'ubriaco")