sabato 7 marzo 2015

Le donne in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

DONNE AI BALCONI
di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Quante ne vidi mai? Dalle facciate
liete di fiori, garrule di nidi;
sovra un terrazzo pensile librate,
quante ne vidi?

Pellegrine dell'aria, ivi sospese
parean nell'ansia d'un viaggio immoto,
avviate così, verso un paese
strano e remoto.

Io le rivedo tutte. Eran figure
di giovinette dagli intenti sguardi,
affacciate alle vostre ampie culture,
maggi lombardi;

spose balzanti in bianco abbigliamento
dalla notte che avvolge e che seduce,
al saluto del dì, fresche di vento,
bionde di luce.

Dove le vidi mai? Rosee straniere
offerte al vivo della brezza alpina,
verso le nevi e le foreste nere
dell'Engadina.

A Nervi, a Chiaia. tra i perpetui fiori,
forse cercando l'isole serene,
ed a Palermo, pallidi splendori,
di Saracene.

Donne ai balconi! Quante belle forme
ti dà la vita, o aperta anima mia!
Beato l'occhio che giammai non dorme
sulla sua via.

E il tributo d'un sogno, un vago affanno,
una strofa del mio canto errabondo,
sale alle ignote, che librate stanno,
coi cieli in fondo.

Ma per coglier l'omaggio, oh, non si abbassa
quell'inconscia bellezza; ella non bada,
più che non badi al carrettier che passa
qui sulla strada.

Che se mai questi, alzato l'occhio, è tocco
dalla improvvisa immagine gentile,
e traduce l'omaggio in uno schiocco
del suo staffile,

ella, inclinata dall'aerea sede,
avverte almeno il ruvido saluto,
mentre, o poeta, il verso non si vede,
e il sogno è muto.

... Pur via così, con la tua pazza lena,
guardando, a caso, a questo e a quel balcone,
onde spiri su te l'aura serena
d'una canzone.

Non vedi forse oltre le belle ignare,
alte nel vuoto, tutti gli orizzonti
veduti già sul ventilato mare,
sui nivei monti?

Al tuo morente dì forse non basta,
figlio dell'ora, questa lieta prova:
aggiungere ai fratelli una più vasta
anima nuova;

far che ogni bella sia colei che sveli
senza saperlo, ai nostri giorni brevi
la virtù di sognar limpidi cieli,
nitide nevi?

Curioso cuor mio, questo è il poeta:
passar non visto fra beltà straniere;
senza trovar per sé posa né meta,
tutto vedere.

Esser voce che, a notte, alza il suo volo,
e non sai donde muova e dove vada:
esser l'errante che, movendo solo,
lungo una strada,

ode venir da una finestra aperta
un suono, un canto: e, fermo ad ascoltare,
strappa alla siepe un ramoscel d'offerta,
getta e scompare!

(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)





PIÙ T'ALLONTANI E PIÙ MI SEI VICINA
di Girolamo Comi (1890-1968)

Più t'allontani e più mi sei vicina
bruciante e fresca come fuoco e brina,
aurora di un roseto che si sfoglia
ma che in me più potente rigermoglia

come per ricordarmi l'armonia
di un'Età senza giorni - o Creatura -
che rispecchi l'immagine futura
di un'immortalità ch'è Poesia.

(Da "Opera poetica", Longo, Ravenna 1977)





DONNA NEL SOLE
di Oreste Ferrari (1890-1962)

Ti ho vista camminare
nel sole: sempre bella
la persona alta e snella
come pronta a volare.

Andavi, e non sapevi
di esser guardata: il volto
trepidante, più sciolto
il passo in ritmi lievi.

Dal tuo cuore la romba
del sangue e dei pensieri
balenava nei neri 
occhi tuoi di colomba.

Così tu andavi, e, in ogni
gesto, eri tutta un grido
d'amore, verso il nido
segreto dei tuoi sogni.

(Da "Poesie", Tallone, Parigi 1956)





«HISTORIA»
di Guido Gozzano (1883-1916)

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Ricordi? Io la rivedo,
rivedo la compagna,
la classe, la lavagna,
e lei china alla filza
dei verbi greci... Smilza
e mascula: un cinedo
molto ricciuto e bello...
Ricordi? Io la rivedo
bionda, sciocchina, gaia:
un piccolo cervello
poco intellettuale
di piccola crestaia
molto sentimentale.
Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Quella è la casa dove
crebbe fanciulla. Guarda
quella finestra dove
vegliava ad ora tarda;
il biondo capo chino
su pergamene rozze
di greco e di latino,
sugli assiomi nudi...
Ma poi lascia gli studi
maschi, passando a nozze
cospicue: un amico,
pare, un amico antico
della madre, uno sposo
ricchissimo ed annoso,
inglese, che la porta
in terra d'oltremare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

Volsero gli anni. Ed ella
esule sul Tamigi
non dava più novella...
Pure, nei giorni grigi,
tra i miei grigi ricordi,
vedevo a quando a quando
i coniugi discordi:
lo sposo venerando
e l'esile compagna
signora in Gran Bretagna...
Quand'ecco fa ritorno
fra noi, senza marito;
e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo... Cercava intorno
col volto sbigottito,
con pupilla assorta,
chi la volesse amare...

E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.

(Da "Poesie", Rizzoli, Milano 1995)





È UNA DONNA
di Piero Jahier (1884-1966)

È una donna
bisogna che si senta felice;
"è bella solo quando si sente felice".
È una donna;
bisogna che si senta bella:
"solo quando si sente bella è buona".

(Da "Poesie in versi e in prosa", Einaudi, Torino 1982)





DONNA INCONTRO AL MARE
di Curzio Malaparte (1898-1957)

Nel paesaggio scarno ove la selva
d'asfodeli accoglie il cielo notturno
tu cammini verso estremi orizzonti
il tuo passo solleva
nubi gonfie d'erba e di foglie
tutto quel che ho sofferto in te si posa
amore speranza paura
non temer ch'io mi penta dei miei sacri errori
senza prigione senza ferite senza crudeli inganni
non ha mistero la vita, né misura.
L'ombra dei carrubi dalle foglie lucenti
stormisce intorno, densa di cupa luce,
come coltelli tintinnano le nere bacche
e il grido dei gabbiani apre segrete
vie nel rosso tramonto. La turchina
notte fra poco
scenderà lieve sulla triste riva.
Sotto i pallidi astri bruceranno
i tuoi occhi dolci.
Nessuno ti vedrà
scendere nuda nel purpureo sonno.

(Dalla rivista «Prospettive», giugno/luglio 1941)





DIVA
di Marino Moretti (1885-1979)

Ospite signorina, io ti ripenso,
e ti rivedo fissarmi con occhi
dilatati, con guardo avido, intenso;
ah, ti rivedo come non t'ho vista
nei sogni, e ridi sfrontata e mi tocchi,
signorina dal bel nome d'artista.

Ridi. Ridesti anche al quattordicenne.
Era il tuo riso più furtivo e folle:
sguardo di donna ch'ei - perché? - sostenne.
Eri povera e bella, eri protetta
da qualche dama, da mia madre. Volle
ospitarti mia madre, o giovinetta.

Abiti, scarpe, ventaglietti, scialli
ella ti diede e tu le sorridesti
felice per il vezzo di coralli,
poi la abbracciasti, la chiamasti mamma:
povera mamma, me la seducesti
per quella foga e quei baci di fiamma.

Io ti osservavo senza tema o fretta
se mi dicevi: «Tu ne avrai, fanciullo,
ah, tu ne avrai». Era una sigaretta.
Credevi ch'io fumassi di soppiatto,
sull'egloga d'Ovidio o di Tibullo,
e ti volgevi a me seria di scatto.

No, non fumavo. Allora mi parlavi
d'altre cose: di uomini, di donne,
di come s'ama, con occhi soavi,
Occhi improvvisi di malinconia,
occhi di vana attesa, occhi d'insonne
ch'eran verdi, turchini, aurei via via.

Occhi ch'io seppi e non amai. Che cosa
vedevi in me che non ti amavo, Diva?
Chi tu vedevi in me, nella mia posa
indifferente che t'indispettiva?

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1966)





LA MOGLIE DEL BARCAIOLO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Qualche volta nel tiepido sonno dell'alba,
sola in sogno, le accade che ha sposato una donna.

Si distacca dal corpo materno una donna
magra e bianca che abbassa la piccola testa
nella stanza. Nel freddo barlume la donna
non attende il mattino; lavora. Trascorre
silenziosa: fra donne non occorre parola.

Mentre dorme, la donna sa la barca sul fiume
e la pioggia che fuma sulla schiena dell'uomo.
Ma la piccola moglie chiude svelta la porta
e s'appoggia, e solleva gli sguardi nei suoi.
La finestra tintinna alla pioggia che scroscia
e la donna distesa, che mastica adagio,
tende un piatto. La piccola moglie lo riempie
e si siede sul letto e comincia a mangiare.

Mangia in fretta la piccola moglie furtiva
sotto gli occhi materni, come fosse una bimba
e resiste alla mano che le cerca la nuca.
Corre a un tratto alla porta e la schiude: le barche
sono tutte attraccate alla trave. Ritorna
piedi scalzi nel letto e s'abbracciano svelte.

Sono gelide e magre le labbra accostate,
ma nel corpo si fonde un profondo calore
tormentoso. La piccola moglie ora dorme
stesa accanto al suo corpo materno. È sottile
aspra come un ragazzo, ma dorme da donna.
Non saprebbe portare una barca, alla pioggia.

Fuori scroscia la pioggia nella luce sommessa
della porta socchiusa. Entra un poco di vento
nella stanza deserta. Se si aprisse la porta,
entrerebbe anche l'uomo, che ha veduto ogni cosa.
Non direbbe parola, crollerebbe la testa
col suo viso di scherno, alla donna delusa.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





DONNA IN TRAM
di Sandro Penna (1906-1977)

Vuoi baciare il tuo bimbo che non vuole:
ama guardare la vita, di fuori.
Tu sei delusa allora, ma sorridi:
non è l'angoscia della gelosia
anche se già somiglia egli all'altr'uomo
che per «guardare la vita, di fuori»
ti ha lasciata così...

(Da "Croce e delizia", Longanesi, Milano 1958)





LA DUCHESSA
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Framezzo ar montarozzo de le case 
arampicate in cima a la montagna, 
che guardeno curiose la campagna 
come tante donnette ficcanase, 
c'è un gran castello antico ch'assomija 
a la faccia d'un omo che sbadija. 

In quer castello lì c'è 'na duchessa: 
una vecchietta incartapecorita 
che da quattr'anni in qua nun è sortita 
antro che du' o tre vorte p'annà a messa: 
e mó sta a casa tutt'er santo giorno 
a guardà l'antenati che cià intorno. 

Eppuro, 'sta vecchietta, che a vedella 
pare l'illustrazzione d'un disastro, 
se avesse conservato er libbro mastro 
de quer ch'ha fatto ar tempo ch'era bella, 
vedrebbe, da l'entrata e da l'uscita, 
che in fin de conti poi s'è divertita.

Vedrebbe che, ner tempo ch'era forte, 
era forse più debbole d'adesso, 
pe' via che scivolava troppo spesso 
quanno che je faceveno la corte; 
tutti: — Duchessa qua, duchessa là... — 
Quant'era bella cinquant'anni fa! 

Ma mó, Vergine santa, che divario! 
È grinza, arinnicchiata, nun cià denti, 
le labbra, stufe de sbaciucchiamenti, 
je se so' ripiegate a l'incontrario, 
quasi pentite d'avé avuto er vizzio 
d'esse rimaste troppo in esercizzio. 

Puro l'orecchie se so' date pace: 
doppo d'avé sentite tante cose, 
tante parole belle e affettuose, 
mó cianno du' toppacci de bambace: 
bambace che ve dice chiaramente 
che la duchessa è sorda e nun ce sente. 

Ma a lei poco j'importa d'esse sorda, 
ché così pô rimane l'ore e l'ore, 
senza er disturbo de gnissun rumore, 
a ricordà le cose che ricorda... 
Massimamente un certo giovenotto 
che fu l'amico suo ner cinquantotto. 

E nun c'è gnente che l'accori tanto 
come er ricordo de 'st'amore antico: 
s'intenerisce a ripensà a l'amico... 
Ma, appena che una lagrima de pianto 
scivola ner canale d'una ruga, 
la ferma co' la mano e se l'asciuga. 

La ferma e se l'asciuga piano piano, 
rassegnata, tranquilla; poi sospira 
come pe' di': — È finita!... — E se riggira 
la corona d'avorio che cià in mano 
per affogasse le malinconie 
tra le pallette de l'avemmarie. 

E dice fra de sé: — Lo rivedrò? — 
Ma la testa je seguita a tremà 
come a 'na paralitica e je fa 
er movimento de chi dice no... 
Pare che Dio la voja fa' pentì 
d'avé risposto troppe vorte sì!

(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)

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