martedì 28 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Tombe su tombe, ve ne sono dappertutto qui, in questo luogo che ispira una calma ineguagliabile. I morti, in realtà, non sono qui, né in un altro luogo. I morti sono scomparsi per sempre, o sono tornati dove erano prima che nascessero: nel nulla. Allora io, quando visito un cimitero, mi diletto a guardare le foto presenti sulle tombe, con le date di nascita e di morte. Ovviamente, rimango colpito quando scopro qualcuno che è deceduto prematuramente, e mi chiedo quale possa esserne stato il motivo. Guardo con curiosità anche i fiori sulle tombe: grandi, piccoli, finti, secchi… E poi i lumini rossi, i pupazzetti, le statuine e chissà quali altri oggetti che qualche parente ha voluto aggiungere nei pressi della tomba di un caro venuto a mancare. Ci sono anche delle frasi, che naturalmente leggo, rimanendo, a volte, perplesso. Amo i cimiteri, perché sono luoghi tranquilli, silenziosi, ordinati, puliti e spesso semideserti. La compagnia dei morti (che se non ci sono) è di gran lunga preferibile alla compagnia dei vivi.




DOLCE DORMIR COSÌ

di Vittorio Betteloni (1840-1910)

A me grato è il pensier, che sotto queste
zolle solinghe avrò riposo un giorno,
ne 'l camposanto umile, a 'l quale agreste
ride Natura sì benigna intorno;

ne 'l camposanto de 'l villaggio, appresso
a 'l padre mio, che qui spontaneo scese,
e de le pene, onde fu in vita oppresso,
a quest'amica terra il termin chiese;

qui accanto a 'l padre dormir voglio anch'io:
né lunge Pietro a riposar qui venne,
il buon fattor, che sotto il tetto mio
già nacque, e vi morì più ch'ottantenne.

Dolce dormir così! Sorgon là dietro
densi i colli di viti e d'uliveti,
dinanzi il lago, come terso vetro,
brilla del sole a i caldi raggi e lieti.

Ultimo asilo d'un poeta è questo
degno davver, fra tanto di Natura
almo sorriso, e degno d'uom modesto,
che oscuro visse, ed avrà morte oscura.

Dolce dormir così, tra l'umil gente,
tra pescatori e tra coloni: io molti
conobbi e amai di questi; e di frequente
stavo con essi intorno a me raccolti,

a ragionar de 'l più e de 'l men; d'amene
oppur di gravi cose: e perché peggio
di me vestiano, e discorrean men bene,
non usavo io però porli in dileggio,

né disprezzarli. Oh! non pensate; allora
che anch'io discenda sotto il verde suolo,
io, come voi, ne l'ultima dimora,
vestito non sarò che d'un lenzuolo,

e non de 'l bel parlare avrò il vantaggio,
che tanto, in vita, sopra voi mi tenne:
qui tutti parleremo egual linguaggio,
de 'l silenzio il linguaggio alto e solenne:

che rotto sol sarà una volta a l'anno,
ma non da noi, quando co i primi algori
de 'l vicin verno, a qui pregar verranno,
e qui i nostri congiunti a sparger fiori.

Dolce dormir così, ne la secura
pace de' campi, in grembo a l'ubertosa
terra, che il vino e il mite olio matura,
lungi da la necropoli fastosa,

lunge da i marmi e da le sculte moli,
fra l'umil gente pria di me qui scesa,
non obbliato, in morte, da que' soli
pochi per cui fu la mia vita spesa.

(Da "Poesie edite e inedite", 1946 )





PAX
di Giovanni Camerana (1845-1905)

L’anima triste dice al corpo affranto:
“Meglio è lasciarci, o misero!”
E una voce laggiù dal camposanto
“Vieni!” par che mi mormori.

Sento attirarmi nella sua malìa
Quella chiostra funerea,
Come se intenta la pupilla mia
Guardasse una voragine.

Sento alle nari ascendermi soavi
Gli effluvi sotterranei;
Sento il tumulto degli istinti pravi
Dileguare in quel balsamo.

Al fastidio del sole, alla stanchezza
Che l’azzurra vertigine
Mi spiove, sento sottentrar l’ebbrezza
Strana del fuoco fatuo.

Un poco d’erba, un po’ di terra smossa,
Un cataletto squallido;
E sull’ospite immoto de la fossa
Un tranquillo sudario;

In eterno svaniti e gaudii, e ardenti
Baci, occhi bruni e ceruli;
Ma svaniti in eterno anche i tormenti
Dell’affanno e del tedio;

In quel gelido oblìo soli compagni
Aver gli orrendi lòmbrici;
Ma non più nelle viscere i grifagni
Strazi patir dell’odio;

A poco a poco diventar l’informe
Orgia de la putredine;
Perdermi a poco a poco nell’enorme
Caligine degli atomi...

È questo il sogno mio; questo il pensiero
Che un sorriso mi suscita
Allor ch’io veggo uno scheletro nero
Apparirmi al crepuscolo.

Dunque schiudasi l’urna. E tu m’appresta,
Sorella, amica ed angelo,
Coi fiori che orneran la bara a festa,
L’amplesso tuo più splendido.

Voglio morire come il sol si muore
In braccio dell’ocèano;
Voglio morir nell’ocèano d’amore,
Morire in braccio all’estasi!...

Al mio frale talvolta il cor ti guidi.
E là, se il duol ti soffoca,
Muta commedia, e sul mio capo ridi;
Io nol saprò, quel ridere!...

(Da "Poesie", 1968)





AL CIMITERO DI GHEVIO
di Felice Cavallotti (1842-1898)

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

— Sorella, non senti pel calle
Che lungo di frondi stormir?
E lenti quassù da la valle
I canti del vespro salir?

Sorella, già fresca è di vespero
La brezza... già l’ama s’oscura...
A valle, giù a valle ne aspettano...
De’ morti non hai qui paura?

Se ad essi qui dài la preghiera,
La nonna non chiede di più...
Tu soffri... e già fredda è la sera...
È l’ora di scendere giù. —

— Oh, l’ombre che a valle si stendono
A me son cortesi e son pie:
M’è cara la brezza di vespero,
Mi porta sì dolci armonie!

Un canto di fiori sì mesto
La nonna qui or or mi narrò...
Discendi, fratello... io qui resto...
Dei morti paura non ho.

Te triste! che a valle t’aspettano
I giorni di cantici privi!
Oh, no, non dai morti che t’amano,
Ti guarda, fratello, dai vivi!

Non dalle memorie che pia
La terra per sempre coprì:
Da l’altre, da l’altre ti svia
Che vive passeggiano al dì!

Te triste! non ora di requie
Per te non è l’ombra che cade!
Non dolce a te farmaco piovono
Le molli notturne rugiade!

Nell’ora che il piangere è bello,
Nell’ora che è dolce obliar,
Tu torni, tu torni, o fratello,
Sul labbro lo scherno, a lottar!

Pur io te l’ho vista la lagrima
Che lenta dal cor ti salìa:
Io sola t’ho visto nell’anima
La fitta che il riso mentìa!

Oh dolce, fra il nulla de’ giorni,
Non rider, non fingere più!
Te triste, che al mondo ritorni,
Che a fingere torni laggiù!

Ma quando la tacita lagrima
Laggiù, fra le pugne, dia schianto,
E rompa all’eterno fantasima
Ch’è teco, le fonti del canto,

Qua, in vetta, alla margine bella
Non giunge di tristi rumor!
Qua riedi, alla morta sorella
Che dorme tranquilla tra i fior! —

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

Scompare nell’ombra... Gemendo
Fa il vento le frodi stormir...
Addio, mia sorella! io discendo
Il triste mio fato a compir.

(Da "Il libro dei versi", 1921)





UMILI CROCI DI LEGNO
di Giovanni Cena (1870-1917)

Umili croci di legno,
brune recenti, grige antiche, segno
di dolori obliati nei riposi perenni,
errai tra voi come in calvario antico.
Un giorno dell'autunno qui riverente venni,
un giorno bianco al pari di canizie giuliva,
in cui Natura assume l'aspetto virgineo, pudico,
quasi d'una rinascita. Veniva
il padre accanto faticosamente.
Non era ancor la croce di lei. Sostò repente,
chinossi e ricordando impallidì:
«È qui...»

Egli si pose a ginocchi.
Radi fili ingiallivano sopra la terra nera.
Mi si velaron gli occhi;
ma non dissi, com'egli, la preghiera
consueta. S'udiva tristissimo dal rio
vicino un mormorio
qual d'umane parole.
Ma il cielo era sì bello, sì prodigioso il sole!
Guardai intorno i campi sterminati,
e le foreste gialle che sul fiume sonoro
parevan tutte d'oro, e i tersi monti,
che già nevosi, tra nubi di fiamma
splendeano quali fronti
alto levate in un'apoteosi:
e dal soggetto borgo sùbiti scampanii
ruppero. Trasalii:
«O MAMMA,»

sclamai: «A TE FIN CH'IO VIVA
LA FESTA DELLA VITA CH'HAI DONATA
CON DOLORE E PERDUTA TROPPO IMMATURAMENTE
E QUESTA VOCE UMANA DI GIOIE E DI SPASIMI VIVA
E IL PALPITO ROMPENTE FUOR DELL'ABISSO ENORME
E I COLORI E LE FORME
E QUEL CHE VIVE NELLA VITA E FUOR DELLA VITA
E QUEST'ANIMA MIA, QUEST'ANIMA MIA CHE S'ACCENDE
COME UN ASTRO ED ASCENDE
VERSO I CIELI SERENI DELLA LUCE INFINITA
PER SEMPRE».

(Da "Poesie", 1922)





AL CIMITERO
di Augusto Ferrero (1866-1924)

Sempre ch'io ti costeggio, o camposanto,
ove i miei nonni giacciono sotterra,
nel pensier della morte il cor si serra.
Dormir laggiù, sotto le zolle ignote,
che la bufera oltraggia e il sol percote,
né dei vivi ascoltare altro che il pianto...

Non più sentir gli uccelli a primavera
e l'infrondarsi de' novelli maî
tutta la mite fragranza de' rosai;
né intenerirsi alla calante sera,
quando sui colli ottobre impallidisce,
e si colora il bosco a varie strisce...

Il bacio di mia madre la mattina
più l'augurio pel dì non mi darebbe,
onde il collegio agli anni verdi increbbe;
né, come oggi, d'un palpito segreto
tremante mi farei, mi farei lieto,
per una fronte a salutarmi inchina...

No! Vo' vivere ancor! Sole ed amore,
gloria ed amor vogl'io sul mio sentiero,
sempre bramati al fervido pensiero.
Voglio vivere ancor. Voglio agitarmi
nella lotta dell'opere e dei carmi,
dovesse infranto rimanervi il core!...

Così, s'io ti costeggio, o camposanto,
o ai mesti giorni varco le tue porte,
non mi parla desìo vile di morte.
Penso degli avi la virtù, la gloria,
ond'ei vivono ancor nella memoria
e di noi nel durevole compianto.

Virtù, gloria vo' anch'io. Tenera faccia
di mia madre, sorridimi lunghi anni,
confortatrice ne' stringenti affanni.
Tu sorridimi ancor, pallida imago,
occhi limpidi come acqua di lago,
che in me lasciaste incancellabil traccia.

Meglio viver così, voi ripensando,
degne di voi serbando opre e pensiero,
o miei nonni giacenti al cimitero,
che questa nostra età, piagnucolando
seguir nei dubbi e nella brama imbelle,
maledicendo alle inimiche stelle.

(Da "Nostalgie d'amore", 1893)





NEL CIMITERO DI PADOVA
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

I.
Seguii dentro le arcate al mondo ascose
D'una lanterna spenzolata il lampo.
Vi sapea di putredine e di rose;
Fuori piovea sul tenebroso campo.

Era freddo, era scuro e la pensai
Adagiata nel torrido fulgor
Del suo salotto, porger la mirai
La sigaretta in alto e il suo vapor,

Lieve lieve blandirsi il negro fiume
Della chioma possente in se ritorta,
Abbandonar al molle boa di piume
Lenta la mano come spoglia morta.

Mirai cangiar i grandi occhi sinceri
Col vento che nel cuore or viene or va,
Dolci dolersi ed oscurarsi austeri,
Dar vampe ora di orgoglio or di umiltà.

Con subito la vidi impeto onesto
Levarmi incontro il volto acceso e scuro,
Pria di parlar con disdegnoso gesto
Significando il suo pensier sicuro;

E la viril parola udii vibrata
Che mai non scese basso né mentì.
Si arrestô la lanterna spenzolata,
Disse una voce indifférente: «è qui.»


II.
Davanti una piramide di fiori
Ginocchion sul funereo pavimento,
Acceso nel pregar parvi di fuori;
Dentro ero tutto un gelo di sgomento

Perché attraverso i sigillati marmi
Ella veniva lentamente in me
E la sentivo attonita guardarmi
Nel più occulto dell'anima; perché

Troppo indegno a me stesso si scoverse
Nello sguardo di lei l'occulto mio,
L'occulto che il mio labbro non le aperse,
Ch'ella non seppe, che sol vede Iddio.

Si rigirava torbida, inquieta,
Amara la Invisibile laggiù
Senza voce dicendo: ecco il poeta,
Ecco l'altezza ed ecco la virtù!

Allora le parlai: o fiera, o forte
Anima che ti offendi, abbimi a sdegno!
Ma poi che nella notte della morte
Mi dai del viver tuo sicuro segno,

Di' se quando lo spirito e l'Eterno
lo confessai veemente illusa t'ho.
Mi rispose la triste dall'interno:
So che soffro e che spero, altro non so.


III.
Ritornai alle tenebre piangenti;
Vi sapea di putredine e di rose.
Per chiarori e clamor di vie frequenti
Camminai dentro arcate al mondo ascose.

Nel treno in fuga ella salì, si assise
A me di fronte, lenta disvelò
Il volto, lagrimando mi sorrise:
So che soffro e che spero, altro non so.

(Da "Le poesie", 1908)





QUIETE LUNARE
di Arturo Graf (1848-1913)

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.

(Da "Le poesie", 1922)





UNA VOCE 
di Luigi Gualdo (1847-1898)

Era deserto il vasto cimitero, 
Nella pace suprema silenzioso; 
Qua e là pel verde prato, maestoso 
S'alzava un monumento alto e severo. 

E tra una fila di cipressi tristi 
Stavan gli umili avelli al par sacrati; 
Molti che qui passarono obliati 
Alfin dormivan là cheti e non visti. 

Pendean dal tempo scolorite e storte 
Le antiche croci in legno nero - rotte 
E infracidile ognor dalle dirotte 
Pioggie inondanti il campo della morte.

Qualcuna si vedea su cui d'affetto 
Ultimo pegno stava ancor posata 
Una ghirlanda misera e sfiorata 
Che la mestizia ne risveglia in petto. 

Coperte di mal erbe e insiem d'oblio 
Altre vedeansi ove taceano i lai: 
Stavano là da niun compiante mai, 
Con le due nere braccia aperte a Dio. 

E nel vento spirante intesi voce 
Lugùbre e fioca da una tomba uscita: 
Era suon che venìa dall'altra vita: 
Mi piegai per udir sovra la croce. 

- «O voi felici cui riscalda il sole!... 
Dimmi, mortal, che fate ancor tra i vivi? 
O voi che avete il cielo, il mare, i rivi, 
La terra, i fior, le piante, e le parole, 

«Sospirate? Piangete ancor? Sperate? 
Che fate là? V'amate ognor? Gioite? 
Ancor chiedete al tempo le infinite 
Gioie fuggenti già in dolor mutate? 

«Ai raggi incantatori della luna 
Sentite ancor le bramosìe nascose? 
Sonvi le selve ancor? Sonvi le rose 
Ch'esalano l'amore ad una ad una? 

«Ti parlo qui, mortal, dall'altra riva, 
Dalla riva ove il vero è senza velo. 
Mi appar chiara la terra e aperto il cielo, 
Benchè giaccia quaggiù di luce priva. 

«Son qui da sola, in questo avel, gelata 
Ultima stanza ove s'attende Iddio, 
- Verrà l'anime a scioglier dall'oblìo 
Dell'angelo divino la chiamata? 

«Ma fino allora, oh! quanto è questa cella 
Gelido albergo per il corpo stanco! 
 -Rigida sta nel suo lenzuolo bianco 
Colei che un giorno fu chiamata bella.» 

Gorgheggiavano intanto gli augelletti 
Smentendo tutte le tristezze umane. 
Splendeva il sol sulle iscrizioni vane, 
Sui nomi già scordati - o benedetti. 

Mormoravan le piante all'aura estiva, 
E volsi il guardo al calmo firmamento, 
Limpido come il ver, pien di contento, 
Eterno sulla vita fuggitiva. 

E dissi allor: Sognai. La tomba tace. 
La tomba è vuota. In tutto il cimitero 
Compie natura il suo vital mistero; 
Sorgono fiori dal terren ferace. 

È lieto il cimiter, natura è lieta, 
Il dolore è nell'uomo e nella vita. 
Il resto è pien della gioia infinita, 
Della gioia immortale a noi segreta, 

O voce ch'io credeva udir dal suolo 
Sorger vêr me con un mesto susurro, 
Piomba dall'alto invece e per l'azzurro 
Fino quaggiù discendi ratta a volo!

Volsi lo sguardo al ciel - l'orecchio invano 
Tesi aspettando l'implorata voce. 
Scordavo il duol della vicina croce, 
Ma il verbo non venìa dal ciel lontano. 

(Da "Le nostalgie", 1883)





IL PESCO 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero 
di vecchi morti; ove a dormir con essi 
niuno più scende; sempre chiuso; nero 
              d’alti cipressi. 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede, 
di là dell’erto muro e delle porte 
ch’hanno obliato i cardini, si crede 
              morta la Morte, 

anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile, 
sopra quel nero vidi, roseo, fresco, 
vivo, dal muro sporgere un sottile 
              ramo di pesco. 

Figlio d’ignoto nòcciolo, d’allora 
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti? 
ed ora invidii i mandorli che indora 
              l’alba negli orti? 

od i cipressi, gracile e selvaggio, 
dimenticàti, col tuo riso allieti, 
tu trovatello in un eremitaggio 
              d’anacoreti?

(Da "Myricae", 1900)





AMORE MORTO
di Remigio Zena (Gaspare Invrea, 1850-1917)

Lisa, se è ver che i morti a mezzanotte 
       Raccolti stinchi ed ossa 
       Escano dalla fossa, 

E vadan brancicando fra le rotte 
       Croci del Camposanto 
       Non bagnate di pianto,

Che ogni morto scordato e solitario 
A cui mancan dei vivi le preghiere 
Debba dir per se stesso il Miserere,
Lisa, tu puoi restar nel tuo sudario, 
Perchè la mamma tua tutte le sere 
Dormicchiando ti brontola il rosario 
E al Curato io fui lesto a provvedere 
Quattro scudi pel primo anniversario.

(Da "Poesie grigie", 1880)

domenica 26 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Mi ricordo che, bambino, una sera d’autunno andai al cimitero di Ostia Antica con mia zia. Lei portò con sé dei fiori da mettere sulle tombe di alcuni suoi cari estinti. Io, mentre lei si apprestava a fare ciò per cui era venuta, mi guardavo intorno; ad un certo punto vidi una tomba quasi staccata da tutte le altre, in un angolo del cimitero, era di pietra grigia e consunta, e non c’erano fiori su di essa, ma soltanto foglie secche mosse dal vento autunnale. Chiesi allora a mia zia perché quella tomba si trovasse in tali condizioni; la zia rispose: «Non lo so perché, forse i parenti di quel defunto sono già tutti scomparsi, o forse lo hanno dimenticato». Fu una delle prime volte in cui provai una tristezza profonda, dovuta a quella tomba desolata, abbandonata… E ancora oggi, con tutto che è passato mezzo secolo, me la ricordo perfettamente.




CAMPOSANTO SUL MARE

di Mario Alessandrini

Un muricciolo mezzo diroccato
tiene in grembo sul greto
il camposanto vecchio:
quattro croci fiorite
fra l'erba alta battuta dal vento.
Il mare mugghia sotto la scogliera,
drizza l'onde squamate sulle rocce.
È tutto irsuto: si dibatte e squassa
e di rabbia s'imbava e vane schiume.
I morti han pace e gli elementi guerra.

(Dalla rivista «Maestrale», febbraio/marzo 1941)





DAI CIMITERI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Noi siamo i più reclusi dei reclusi, noi.
Non ci han voluto neppure più sulla terra.
Potevano gettarci capofitti nel mare
appenderci ad un aerostato senza ritorno.
Ci diedero la bolgia di Papa Bonifazio;
le sere, venite a vedere le fiamme se rampollano!
Siamo i più queti, non i più morti, credete!
Le nostre folle incubano i vostri letarghi.
Il terremoto, forse, è la nostra convulsione di noia.
Giorno verrà che dietro ogni porta, nelle vostre case,
a sera bassa, troverete uno scheletro di sentinella.
Allora darete tutte le salme alla pira!
Il mondo avrà più fiamma, più luce, più libertà.
Frattanto, noi ci gloriamo de' nostri fosfori freddi,
dei nostri fiori notturni pieni di lucciole bianche
e delle nostre lampade flebili
aspettando gl'incendi cadaverici dell'Avvenire!

(Da "Aeroplani", 1909)





IL CAMPOSANTO NUOVO
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Un sol morto nella pallida deserta
vastità del camposanto... Quattro muri,
bianchi, nuovi, un cancel nero e un morto, solo...
Un giallognolo rialzo, e il verde magro
della zolla intorno intorno, qualche paglia...
Una croce, senza croci in compagnia...
L'ombra, in terra, d'una croce che s'allunga,
con l'aiuto della luna, a ricercare...
Una lampadina sola, nella notte
di novembre, che si dondola a far segno
di lontano, verso i vivi. Ma niun ode
ciò che grida a' suoi fratelli il derelitto.
- Perché - grida, mi lasciate così solo?
Pur, m'avete, coricandomi, cantato:
Dormi in pace!... Ma non è la pace, questa.
È il deserto con intorno quattro muri.
O fratelli, nessun viene? (Io ben verrei,
tanta gioia è star coi vivi): - Ohimè, venite -
grida l'uomo abbandonato. E scuote il suo
lumicino, quando già da ore ed ore
con un soffio gliel'ha spento il vento.

(Da "La stellata sera", 1933)





CAMPOSANTO DEGLI INGLESI
di Franco Fortini (1917-1994)

Ancora, quando fa sera, d'ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d'edera e i cipressi
del Camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi.
                                               Verde
il fumo delle frasche
come quello dei carbonai nei boschi
di montagna.
                     Morivano
quelle sere con dolce strazio a noi
già un poco fredde. Allora m'era caro
cercarti il polso e accarezzarlo. Poi
erano i lumi incerti, le grandi ombre
dei giardini, la ghiaia, il tuo passo pieno e calmo
e lungo i muri delle cancellate
la pietra aveva, dicevi, odore d'ottobre e il fumo
sapeva di campagna e di vendemmia.
Si apriva la cara tua bocca rotonda nel buio
lenta e docile uva.
                   Ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo
anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze ove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d'alloro.

(Da "Versi scelti", 1990)





CIMITERO
di Guido Marta (1882-?)

Presso la chiesa bianca, al limitare
del villaggio, la Morte un suo giardino
pien di croci s'è fatto, un suo giardino
con un muro, due pietre, un cancellino
sempre aperto per chi volesse entrare.

(Da "La neve in giardino", 1922)





PICCOLO CIMITERO LUNGO IL MARE
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Piccolo cimitero lungo il mare
Stipato d'erbe amare
E di croci!
L'erbe non v'è chi le falci
E le croci aprono i tralci
Delle braccia tese al sole
Che le bacia come suole
E le fa nel bacio eguali.

Il recinto somiglia
Una chiara conchiglia.
Ombra non v'è che dentro vi si cali
Né moto d'aria o d'ali
Né sospiro o suono d'ore
Né vi fa l'onda rumore
Più del battito d'un cuore
Che nel sonno si assottiglia.

Sotto le croci i morti
Alleggeriti di beni e di mali
Ancoràti a sicuri porti
Posano in giusta pace
Aspettando come a Dio piace
Che un angelo spieghi le ali
E una tromba loro porti
L'annunzio che sono risorti.

(Da "Tempietto", 1939)





SORPRESA
di Luigi Pirandello (1867-1936)

Mi parea, sù da quei greppi scoscesi,
che fosser pannilini di bucato,
gli arredi, forse, d ’un bambino, stesi
su questo verde tenero del prato.

Lapidi! Un cimitero abbandonato...

(Da "Tutte le poesie", 1991)





LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)

All'alba entrai 
in un piccolo cimitero. 
Fu in un paese lontano 
ai piedi di una torre grigia 
senza più voce alcuna 
di campane – 
mentre ancora le nebbia 
inargentava 
le querce oscure, 
le siepi alte, 
l'erica 
viola – 

Nel piccolo cimitero 
le pietre 
volte all'Oriente 
come in un riso 
bianco 
parevano visi di ciechi 
che allineati marciassero 
incontro al sole. 

(Da "Parole", 1998)





NEL CIMITERO DI CHISWICK
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Risonanze di mortelle
nel recinto verde di morti
antichi, dove Foscolo posò la testa
dentro un sarcofago in un tempo d'amore
per gli inglesi. La sua pietra
porta la data di nascita e di morte. Di fronte,
nella curva della strada si beve birra
forte in un pub di legno
a spiovente nordico. Una ruota gira,
un vecchio picchia con un martello su una tavola.
L'amore per le ombre foscoliane è più qui
che in Santa Croce, ancora nell'armatura
dell'esilio. I timidi carnefici lombardi
temperavano aste e scuri, misuravano
l'uomo sugli stipiti delle porte
come oggetto utile alle armi.

(Da "Tutte le poesie", 1995)





A GUARDARTI M'INDUGIO INTENERITO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

A guardarti m’indugio intenerito,
d’oltre il muretto basso che ti cinta,
piccolo cimitero di campagna.
Aperto al celo, alla mercé del vento
della pioggia, vegliato dalle stelle,
tu ancora partecipi alla vita.
Soave come l’improvviso sonno
che chiude gli occhi al piccolo che piange,
l’erba qui addormenta le speranze
delle fanciulle, l’ansia delle madri
e tutto il nostro affaccendarci invano...

Qui la vita e la morte si dan mano
come sorelle...
                      Tutto ciò che è,
è un poco ciò che fu, un poco ciò
che sarà...
                Qui è facile pensare
che quella farfalletta che là alia,
chiusa la sua vicenda, rivivrà
nel geranio fiammante del balcone
o nei capelli d’una donna amata...

Piccolo cimitero di campagna,
in questo poco sole di settembre
è così dolce quel che insegni al cuore
ch’egli di gratitudine si gonfia.
E, uscendo da me stesso, mi vedo,
in altre forme in sempre nuove forme
essere eternamente come i cieli.

(Da "L'opera in versi e in prosa", 1985)

mercoledì 22 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

LE FOGLIE
di Arrigo Boito (1842-1919)

Nascean le stelle; la lontana chiesa
Emanava armonie. Reprobamente
Vagolando pe’ campi io le sentivo;
        E una voce, repente,
Surta dall’ombra e che parea d’un vivo
Gridommi a lato: — «Tutto ciò che pesa,
        Uomo, ha peccato.»

Io tutto mi restrinsi per paura,
Nè corpo vidi che paresse accanto;
La notte s’avanzava e in bel celeste
        Cangiava l’amaranto.
Era l’ora che fa le cose meste,
Quando negli orti — fra le vecchie mura
        Errano i morti.

La sinistra parola m’avea scosse
Le radici del core e all’aura bruna
Vagavo al pari di corsier che aòmbra.
        Le foglie ad una, ad una,
Cadean dai rami lor, pagine d’ombra,
E in vol scosceso — parean carche e mosse
        Da un grave peso.

Se non è fatua visïon che illuda
La mente mia, pensai, qual è il peccato
Che sì vi fuga o foglie intorno, intorno?
        E allor la larva a lato
«Esse tremar di voluttà quel giorno,»
— Mi rispondeva — «che covrir la nuda
        Bellezza d’Eva.»

(Da "Il libro dei versi", 1902)





L'ULTIMA FOGLIA
di Contessa Lara (Evelina Cattermole, 1849-1896)

Dal ramo ischeletrito
L'ultima foglia pende:
E, come d'oro, splende
Al sol che, smorto, non ha fiamme più.

Esita, al freddo invito
Della caduta neve;
Poi, sospirando lieve,
Rassegnata si stacca e piomba giù.

(Da "Nuovi versi", 1897)





FOGLIE MORTE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Dai rami sui quali poc'anzi l'ebbrezza 
Saliva esultando dei fulgidi dì, 
Cacciate dal primo rigor della brezza, 
Scendete, fogliuzze, scendete, così. 

Scendete sui campi lucenti di sole, 
Sui solchi bagnati di tanto sudor; 
Su gli ampii giardini, su l'umili aiuole, 
Sui mille del mondo ignoti dolor. 

Narrate ai felici, ai ricchi, ai potenti. 
Che tutto è una fuga di foglie quaggiù. 
Si sveglia l'aprile sui rami languenti...
L'april della vita non svegliasi più! 

Coprite gli amori dei giovani assorti 
Nei miti, autunnali tramonti del sol; 
Coprite le tombe dei poveri morti 
Dormienti nell'alto silenzio del suol. 

È questo il mio sogno: — Fogliuzza smarrita 
Sul margine ascoso d'un triste sentier, 
Fogliuzza sperduta nel mar della vita, 
Col giorno che muore anch'io cader; 

Col bacio dei sacri miei vecchi sul fronte, 
E un' ultima fede perduta nel cuor; 
Volgendo lo sguardo al mesto orizzonte, 
Sognando il mio primo, il mio ultimo amor! 

Quel giorno, o fogliuzze, che oscuro poeta 
L'estremo saluto al mondo darò; 
Se santa fu sempre del verso la mèta, 
Se all'umile canto un cuor palpitò, 

Quel giorno l'eterna parola mi dite, 
Che sola la fede nel mondo ci dà; 
Cingetemi il fronte, fogliuzze avvizzite... 
L'alloro sognato... il vostro sarà! 

(Da "Il canzoniere del villaggio", 1898)





FOGLIE SECCHE
di Arturo Graf (1848-1913)

Oh, come lugubre
Veder sull’arido
Suolo cinereo
Discolorite,
Tremule, tacite
Cader dagli alberi
Le foglie morte!

Oh, come lugubre
Veder da un’anima
Cader le povere
Fedi tradite
E i segni gracili
Cui franse l’invida
Man della sorte!

(Da "Le poesie", 1922)





IMITAZIONE
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

Lungi dal proprio ramo,
Povera foglia frale,
Dove vai tu? — Dal faggio
Là dov'io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
Dal bosco alla campagna,
Dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
Dove naturalmente
Va la foglia di rosa,
E la foglia d'alloro.

(Da "Canti", 1974)





CADUTA DI FOGLIE
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Non più di trilli argute risonanze
per la montagna. In voce di lamento
geme la selva, cui rapisce il vento
le prime foglie e l' ultime fragranze.

Quando il pallido autunno d'improvvise
tristezze aduggia e scolorisce il mondo,
e piangono le pioggie alla campagna,
tutta l'alpestre via di fango intrise
copron le foglie, che stormìan giocondo
l'inno dell'albe in vetta alla montagna.
E al faticoso viator, cui bagna
di pianto gli occhi una stanchezza nova,
ad ogni passo che in quel fango ei muova,
sembra di calpestar sogni e speranze.

(Da "Poesie", 1907)





CADON LE FOGLIE
di Cesare Rossi (1852-1927)

Odi una flebile
come si lagna
nota di cembalo
per la campagna:
pian quella musica
l'anima accoglie.
Cadon le foglie.

Cantano l'ilari
vendemmiatrici
spiccando i grappoli
per le pendici,
poi meste lasciano
le viti spoglie -
Cadon le foglie.

Corre degli agili
vetri la muta
che i lepri timidi
vigile fiuta:
Ottobre in pallido
pianto si scioglie -
Cadon le foglie.

Rosseggia l'edera
pei casolari,
la fiamma crepita
su' focolari,
ma i vecchi guardano
tristi a le soglie -
Cadon le foglie.

Con occhi languidi,
senza parole,
saluta il tisico
l'ultimo sole.
Spera ma un brivido
sottil lo coglie -
Cadon le foglie.

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





FOGLIE
di Ulisse Tanganelli (1853-1931)

Al sospirar di maggio
Dal primaticcio mandorlo
Volano vie le bianche foglioline:
Le dànno il buon viaggio,
Col tremolìo dei calici
Dei peschi le fogliuzze carnicine:
Quindi al ramo natìo
Dicon pur esse addio.

O vaga pioggia, lieta
Di rosei spruzzi e candidi,
Che discende negli orti e li ricama.
Sottil, come di seta,
Presto germoglia e svolgesi,
Collo sviluppo della verde trama,
Una chioma abbondante
Sopra tutte le piante.

Allor corre una voce
Che i poeti comprendono
E i savi no, dai tronchi alla vermena!
Il melo, il fico, il noce
Un bel terzetto cantano
Del teatro campestre in su la scena:
Cantano i boschi in coro
Dal cipresso all'alloro.

Comprendon coi poeti
Quella voce ineffabile
La cingallegra, il merlo e la ghiandaia.
L'usignol sui roveti
E sui castagni il tortore
Gorgheggian, coaliscono, alla gaia
Prosperità dei nidi
Soavemente fidi.

Quanta molle verdezza
Velo alla immensa Cerere,
Chiara stormisce dalla valle ai monti,
Eterna giovinezza
Rinnovellando! Han gli alberi
Increspature e luccichìi di fonti
Nel gran frescheggiamento
Del pomeriggio al vento.

Ora sacra! Le capre
Le note balze tornano
Desiderose dello stabbio. Intanto
Alle memorie s'apre,
Come a notte un convolvolo,
L'anima vinta da un serale incanto,
E la tristezza sente
Accidiosamente!

Fischia la mandriana
Alle sbrancate; e intorbida
Forse di pianto le pupille e il cuore
Di ricordanza arcana!
L'acuto fischio scivola
Fra le dolcezze del giorno che muore,
Come squillo pugnace
In un inno di pace!

Ma poiché l'aria imbruna
Le verdi foglie perdono
La singolarità folta e smerlata.
E vanno, ad una ad una,
Gradatamente a fondersi,
Come fine cesello
Che torni nel fornello.

(Da "La buona dea", 1892)





IO VADO ERRANDO LONTANO DALLA MIA PATRIA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)

Io vado errando lontano dalla mia patria, e veggo aggirarsi per l’aria una foglia di cipresso trasportata dal vento. Dove te ne vai, o piccola foglia di cipresso, dove te ne vai? Noi ci faremo compagnia. Nello stesso modo che tu vieni trasportata pel cielo dal turbine impetuoso, io sono cacciato dal mio destino per terre non conosciute... Ohimé! tu non potrai piú ritornare al tuo albero! povera foglia! povera foglia!

Maledetta la mano che ti ha distaccata dal tuo ramo. Io sono pure allontanato dalla mia patria da una mano maledetta. Precedimi, o piccola foglia di cipresso nel cammino doloroso dell’esiglio: il mio destino non sarà mai diverso dal tuo; tu anzi sopravviverai forse a me stesso, e sbattuta dopo tanti anni dal vento, verrai un giorno a riposarti inconsapevole sul mio sepolcro. Precedimi dunque, o povera foglia, noi ci faremo compagnia. Giovine ancora senza affetti, e senza speranze, io vado errando sulla terra come una foglia trasportata dal vento.

(Da "Tutte le opere", 1967)





A UNA FOGLIA
di Niccolò Tommaseo (1802-1874)

Foglia, che lieve a la brezza cadesti 
sotto i miei piedi, con mite richiamo 
forse ti lagni perch’io ti calpesti. 

Mentr’eri viva sul verde tuo ramo, 
passai sovente, e di te non pensai; 
morta ti penso, e mi sento che t’amo.

Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai 
venivi amica nell’anima mia; 
con lor d’amore indistinto t’amai.

Conversa in loto ed in polvere, o pia, 
per vite nuove il perpetuo concento 
seguiterai della prima armonia. 

E io, che viva in me stesso ti sento, 
cadrò tra breve, e darò del mio frale 
al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento. 

Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale 
recherà grato lo spirito mio; 
e, pura idea, di sorriso immortale 

sorriderai nel sorriso di Dio. 

(Da "Poesie e prose", 1942)

martedì 21 ottobre 2014

Gli spazzini in tre poesie

Quello dello spazzino, del netturbino o operatore ecologico che dir si voglia, non è certo uno dei mestieri più ambiti dalla gente; anzi, si può ben dire che sia tra i più disprezzati, schifati e evitati dalla maggioranza dell'umanità. Eppure tutti, penso, dovrebbero essere d'accordo sul fatto che questo sia uno dei lavori più utili, poiché senza l'intervento giornaliero degli spazzini le città sarebbero sommerse dall'immondizia. Passando alla letteratura, e in particolare alla poesia, c'è stato qualche poeta che ha dedicato a questi lavoratori bistrattati alcuni versi. Ho trovato tre componimenti poetici in cui gli spazzini la fanno da protagonisti. In tutte e tre le poesie, nei confronti di essi, si nota sia una simpatia, sia un non velato apprezzamento per il compito che assolvono, insieme ad una sorta di comprensione umana, se non di pena, per l'umiltà e la sofferenza che contraddistinguono spesso questi personaggi, per nulla considerati dalla moltitudine degli umani.



LO SPAZZINO
di Siro Angeli

Prima che ti ripari
dai raggi che sul letto
rimanda la persiana,
attendi, tanto usuale
da farsi necessario
al vuoto nell'orecchio,
il passo dell'addetto
alla Nettezza Urbana,
finché tra voci nuove
di fuori si riaccampa
nel sonno delle scale
trascorrono dall'albore
che piove il lucernario.

Paziente sale (il volto
leale, con i tratti
scavati e gli occhi chiari
di quando in lui t'imbatti,
affiora dall'ascolto)
e al sesto piano inizia
la sua fatica: frana
nel sacco l'immondizia
davanti ad ogni porta,
un tonfo d'ossa rotte
rintrona fino al tetto,
e nasce dal rammarico
ch'esso non sia minore
il gesto che riporta
al suolo, cauto, il secchio.

Così di rampa in rampa
discende sotto il carico
crescente, e il passo vecchio
ma fermo oltre il portone
si perde nello schianto
strozzato che sommuove
la mole d'alluminio
in sosta col motore
acceso, mentre inghiotte
a brano a brano quanto
rimane al condominio
d'un giorno e d'una notte.

(Da "Il grillo della suburra")





SPAZZINI FIORENTINI A DICEMBRE
di Arnaldo Beccaria

Nell'ora antelucana
(ma è ancora notte fonda,
non un bar che sia aperto,
e il gelo una camicia
di forza che costringe corpo e mente),
nell'ora antelucana,
i primi ad apparire sulla scena
della città deserta
sono i vispi spazzini
con gli arguti fumetti del lor fiato.
Ruzzan fra loro, sciolti e allegri, angioli
senza ali, nelle casacche blu;
nettano con le grosse
scope le vie della città
non calpestate, e i porticati,
ne fanno alvei politi,
dove fra poco
scenderà a insudiciarli
la fiumana degli uomini,
ancora addormentati.

(Da "Sull'orlo del cratere")





LO SPAZZINO
di Gianni Rodari

Io sono quello che scopa e spazza
con lo scopino e con la ramazza:
carta straccia, vecchie latte,
bucce secche, giornali, ciabatte,
mozziconi di sigaretta,
tutto finisce nella carretta.

Scopo scopo tutto l'anno,
quando son vecchio sapete che fanno?
Senza scopa, che è che non è,
scopano via pure me.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra") 



Vincent van Gogh, "The Dustman"
(da questa pagina web)


domenica 19 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Camminavo, in una giornata grigia di metà novembre, su un viale alberato di Ostia, tutto ricoperto di foglie secche. Camminavo lentamente, ed ero quasi felice di ascoltare il rumore dei miei passi su ciò che restava di quelle povere foglie. Ogni tanto, ne vedevo qualcun’altra cadere, e se osservavo i rami dei platani, mi accorgevo che le poche ancora attaccate, si reggevano a stento (erano destinate a cadere a breve). Allora, come tanti che mi hanno preceduto, ho pensato che la nostra vita somiglia assai a quella delle foglie: sia noi che loro siamo destinati a cadere – chi prima, chi dopo – e a non rialzarci mai più. Eppure, tale pensiero non mi rattristava più di tanto, poiché non ho mai ambito all’immortalità, e anzi, pur non essendo ancor vecchio, mi sento addosso la stanchezza di vivere. In fondo, anch’io vorrei essere una di queste foglie: cadere senza drammi, in un giorno grigio di novembre, e dopo la caduta dimenticare tutto il male, tutto il bene di un’esistenza inutile. 




LA FOGLIA E TU

di Siro Angeli (1913-1991)

La foglia non si sente più sola
sul ramo, ora che l'hai accolta
nel tuo sguardo. Ecco esita, vola
per la prima e per l'ultima volta.

Chiedi al filo d'aria che la porta
almeno un indugio prima che tocchi
il suolo. Non si sentirà morta
finché non l'abbandoni con gli occhi.

(Da "Il grillo della suburra", 1990)





UNA FOGLIA
di Angelo Barile (1888-1967)

Una foglia nel giovane vento
è crollata che non sussurrò
sul ramo.
Non l'addolcì
rugiada a lungo materna e scarso
un sole la vestì
di verde.

Orfana foglia
che l'aprile in un soffio sospinge
e indifesa l'avvia
alle soglie della prim'estate:
già straziate di luce, incendiate
di papaveri. Ostile
alla sua scarna pagina, un raggio
la trafigge, la spoglia
in una viva geometria di nervi.

(Da "Poesie", 1986)





A UNA FOGLIA
di Gherardo Del Colle (1920-1978)


Stamattina ti ho colta,
povera foglia, e la mia mano fu
forse un precoce autunno...
ma tu resta con me:
fuori di questa soglia
più nessuno ti ascolta - o si ricorda
di te.

Ti ho colta, a primavera,
nella serenità del mio giardino
di fanciullo poeta:
perché tu mi ripeta
nell'insonne mia sera
le giulive canzoni del mattino.

(Da "Il fresco presagio", 2008)





E QUESTE FOGLIE
di Libero De Libero (1906-1981)

E queste foglie
e questo amore,
questa sera che viene.
Dove io trascorro
fa orma il silenzio,
già sento nella notte
diffusi papaveri.
Voglia di stare
nel folto sonno
fedele, amore,
alla tua mano.

(Da "Scempio e lusinga", 1972)





COME MAI LE FOGLIE...
di Franco Fortini (1917-1994)

Come mai le foglie e le campane
le foglie che il vento muove e le campane
che il vento porta e la sonnolenza
che l’estate porta e come mai questa dolenza
e perché continuare a guardare i colori
della sera sulle montagne multicolori
le nuvole che da tutta eternità ripetono
decoro miserabile divieto
se ormai solo le foglie
chiedono a te come oscillare
nella notte senza mai variare
sine rationis lumine le gemelle foglie.

(Da "Versi scelti", 1990)





FOGLIE E FIORI
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

Aprile chiama, settembre risponde:
son d'uno stesso lago opposte sponde
echi diversi d'una stessa voce,
sono due specchi d'uno stesso volto:
l'uno ti prende quel che ti fu tolto
quel che l'uno ti dà l'altro ti toglie:
uno di fiori e l'altro è pien di foglie.

(Da "Tutte le poesie", 2007)





STRIDONO LE FOGLIE
di Leonida Repaci (1898-1985)

Io cammino
su tappeti di foglie arrossate
dagli ultimi barbagli del sole
e non le guardo
quelle foglie secche che stridono
sotto il mio passo.

Cammino senza meta aspettando
che cosa? Nulla nulla
ma pur mi debbo convincere
di aspettare qualcosa qualcuno
perché la maggior povertà
è sapere di non aspettare nessuno
nessuna cosa.

Ma le foglie non stridon più forte?
Ora sento nettissima
una presenza che mi cammina
al fianco e mi osserva
invisibile, mi scruta spietata,
entra in me, diventa me stesso.
Ma chi sei chi sei mai
che cammini al mio lato
confondendo alla mia
la tua ombra?
Fratello o nemico
chi sei, sconosciuto, che batti
la stessa strada
sulle stesse foglie invetriate?
Oh potessi levare gli occhi dal cielo
specchiarmi in te senza fremere
sapere da te
perché mi segui così
perché dài un accento
tanto solenne alla mia melanconia?
Sei tu forse la Morte?

(Da "Poesie", 1999)





LA FOGLIA MORTA
di Umberto Saba (1883-1957)

La rossa foglia morta
che il vento porta via,
il vento e lo spazzino,

- sotto il fulgido cielo cadde, insanguina
con le altre la via -

imiterei. Per nausea
delle parole vane,
dei volti senza luce.

Ma la tua voce, o gentile, mi parla;
fa' che non cada ancora.

(Da "Tutte le poesie", 1999)





FOGLIE CADONO, VITE. C'È UN ISTANTE
di Francesco Tentori (1924-1995)

Foglie cadono, vite. C'è un istante
che chi le stacca le tiene con mano
lieve nell'aria, nella luce e vedi
come mai prima le fragili vene
per cui correva l'esistenza, il palpito
che viene meno. Affréttati, raccogli
nello sguardo fedele quanto ancora
è, prima che con le altre spoglie
anche queste si perdano.

(Da "Migrazioni", 1997)





LE FOGLIE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Guardavo le macere foglie
che il vento ammulina fra i turbini
della pioggia e le macina e le stritola
fino a mutarle quasi nel suo ululo, 
nella sua marcia funebre di sibili.

Allora m'è venuto il pensiero
della morte che stacca noi pure
così dai rami dell'albero umano,
quando vecchiezza o fuoco
di febbri hanno consunto
la nostra foglia grama.
Un soffio appena più forte
il tremulo gambo recide;
e saremo così trascinati
negli abissi, mischiati
a nuvole d'altre foglie?
La morte ci scioglie
nelle grida del vento.

Eppure, chissà quale senso
di felicità originaria
ci libererà nell'immenso,
quando tutte le corde
troncate dalla morte fremeranno
all' unisono con l' accordo
maggiore dell'universo.
Forse l'estrema gioia
che invano chiedemmo alla vita,
è quella che ci folgora al momento
di morire, nel gran mutamento.

(Da "La luce ricorda", 1967)



Louis_Grube, "Study of Autumn Leaves" 
(da questa pagina web)