martedì 28 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Tombe su tombe, ve ne sono dappertutto qui, in questo luogo che ispira una calma ineguagliabile. I morti, in realtà, non sono qui, né in un altro luogo. I morti sono scomparsi per sempre, o sono tornati dove erano prima che nascessero: nel nulla. Allora io, quando visito un cimitero, mi diletto a guardare le foto presenti sulle tombe, con le date di nascita e di morte. Ovviamente, rimango colpito quando scopro qualcuno che è deceduto prematuramente, e mi chiedo quale possa esserne stato il motivo. Guardo con curiosità anche i fiori sulle tombe: grandi, piccoli, finti, secchi… E poi i lumini rossi, i pupazzetti, le statuine e chissà quali altri oggetti che qualche parente ha voluto aggiungere nei pressi della tomba di un caro venuto a mancare. Ci sono anche delle frasi, che naturalmente leggo, rimanendo, a volte, perplesso. Amo i cimiteri, perché sono luoghi tranquilli, silenziosi, ordinati, puliti e spesso semideserti. La compagnia dei morti (che se non ci sono) è di gran lunga preferibile alla compagnia dei vivi.




DOLCE DORMIR COSÌ

di Vittorio Betteloni (1840-1910)

A me grato è il pensier, che sotto queste
zolle solinghe avrò riposo un giorno,
ne 'l camposanto umile, a 'l quale agreste
ride Natura sì benigna intorno;

ne 'l camposanto de 'l villaggio, appresso
a 'l padre mio, che qui spontaneo scese,
e de le pene, onde fu in vita oppresso,
a quest'amica terra il termin chiese;

qui accanto a 'l padre dormir voglio anch'io:
né lunge Pietro a riposar qui venne,
il buon fattor, che sotto il tetto mio
già nacque, e vi morì più ch'ottantenne.

Dolce dormir così! Sorgon là dietro
densi i colli di viti e d'uliveti,
dinanzi il lago, come terso vetro,
brilla del sole a i caldi raggi e lieti.

Ultimo asilo d'un poeta è questo
degno davver, fra tanto di Natura
almo sorriso, e degno d'uom modesto,
che oscuro visse, ed avrà morte oscura.

Dolce dormir così, tra l'umil gente,
tra pescatori e tra coloni: io molti
conobbi e amai di questi; e di frequente
stavo con essi intorno a me raccolti,

a ragionar de 'l più e de 'l men; d'amene
oppur di gravi cose: e perché peggio
di me vestiano, e discorrean men bene,
non usavo io però porli in dileggio,

né disprezzarli. Oh! non pensate; allora
che anch'io discenda sotto il verde suolo,
io, come voi, ne l'ultima dimora,
vestito non sarò che d'un lenzuolo,

e non de 'l bel parlare avrò il vantaggio,
che tanto, in vita, sopra voi mi tenne:
qui tutti parleremo egual linguaggio,
de 'l silenzio il linguaggio alto e solenne:

che rotto sol sarà una volta a l'anno,
ma non da noi, quando co i primi algori
de 'l vicin verno, a qui pregar verranno,
e qui i nostri congiunti a sparger fiori.

Dolce dormir così, ne la secura
pace de' campi, in grembo a l'ubertosa
terra, che il vino e il mite olio matura,
lungi da la necropoli fastosa,

lunge da i marmi e da le sculte moli,
fra l'umil gente pria di me qui scesa,
non obbliato, in morte, da que' soli
pochi per cui fu la mia vita spesa.

(Da "Poesie edite e inedite", 1946 )





PAX
di Giovanni Camerana (1845-1905)

L’anima triste dice al corpo affranto:
“Meglio è lasciarci, o misero!”
E una voce laggiù dal camposanto
“Vieni!” par che mi mormori.

Sento attirarmi nella sua malìa
Quella chiostra funerea,
Come se intenta la pupilla mia
Guardasse una voragine.

Sento alle nari ascendermi soavi
Gli effluvi sotterranei;
Sento il tumulto degli istinti pravi
Dileguare in quel balsamo.

Al fastidio del sole, alla stanchezza
Che l’azzurra vertigine
Mi spiove, sento sottentrar l’ebbrezza
Strana del fuoco fatuo.

Un poco d’erba, un po’ di terra smossa,
Un cataletto squallido;
E sull’ospite immoto de la fossa
Un tranquillo sudario;

In eterno svaniti e gaudii, e ardenti
Baci, occhi bruni e ceruli;
Ma svaniti in eterno anche i tormenti
Dell’affanno e del tedio;

In quel gelido oblìo soli compagni
Aver gli orrendi lòmbrici;
Ma non più nelle viscere i grifagni
Strazi patir dell’odio;

A poco a poco diventar l’informe
Orgia de la putredine;
Perdermi a poco a poco nell’enorme
Caligine degli atomi...

È questo il sogno mio; questo il pensiero
Che un sorriso mi suscita
Allor ch’io veggo uno scheletro nero
Apparirmi al crepuscolo.

Dunque schiudasi l’urna. E tu m’appresta,
Sorella, amica ed angelo,
Coi fiori che orneran la bara a festa,
L’amplesso tuo più splendido.

Voglio morire come il sol si muore
In braccio dell’ocèano;
Voglio morir nell’ocèano d’amore,
Morire in braccio all’estasi!...

Al mio frale talvolta il cor ti guidi.
E là, se il duol ti soffoca,
Muta commedia, e sul mio capo ridi;
Io nol saprò, quel ridere!...

(Da "Poesie", 1968)





AL CIMITERO DI GHEVIO
di Felice Cavallotti (1842-1898)

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

— Sorella, non senti pel calle
Che lungo di frondi stormir?
E lenti quassù da la valle
I canti del vespro salir?

Sorella, già fresca è di vespero
La brezza... già l’ama s’oscura...
A valle, giù a valle ne aspettano...
De’ morti non hai qui paura?

Se ad essi qui dài la preghiera,
La nonna non chiede di più...
Tu soffri... e già fredda è la sera...
È l’ora di scendere giù. —

— Oh, l’ombre che a valle si stendono
A me son cortesi e son pie:
M’è cara la brezza di vespero,
Mi porta sì dolci armonie!

Un canto di fiori sì mesto
La nonna qui or or mi narrò...
Discendi, fratello... io qui resto...
Dei morti paura non ho.

Te triste! che a valle t’aspettano
I giorni di cantici privi!
Oh, no, non dai morti che t’amano,
Ti guarda, fratello, dai vivi!

Non dalle memorie che pia
La terra per sempre coprì:
Da l’altre, da l’altre ti svia
Che vive passeggiano al dì!

Te triste! non ora di requie
Per te non è l’ombra che cade!
Non dolce a te farmaco piovono
Le molli notturne rugiade!

Nell’ora che il piangere è bello,
Nell’ora che è dolce obliar,
Tu torni, tu torni, o fratello,
Sul labbro lo scherno, a lottar!

Pur io te l’ho vista la lagrima
Che lenta dal cor ti salìa:
Io sola t’ho visto nell’anima
La fitta che il riso mentìa!

Oh dolce, fra il nulla de’ giorni,
Non rider, non fingere più!
Te triste, che al mondo ritorni,
Che a fingere torni laggiù!

Ma quando la tacita lagrima
Laggiù, fra le pugne, dia schianto,
E rompa all’eterno fantasima
Ch’è teco, le fonti del canto,

Qua, in vetta, alla margine bella
Non giunge di tristi rumor!
Qua riedi, alla morta sorella
Che dorme tranquilla tra i fior! —

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

Scompare nell’ombra... Gemendo
Fa il vento le frodi stormir...
Addio, mia sorella! io discendo
Il triste mio fato a compir.

(Da "Il libro dei versi", 1921)





UMILI CROCI DI LEGNO
di Giovanni Cena (1870-1917)

Umili croci di legno,
brune recenti, grige antiche, segno
di dolori obliati nei riposi perenni,
errai tra voi come in calvario antico.
Un giorno dell'autunno qui riverente venni,
un giorno bianco al pari di canizie giuliva,
in cui Natura assume l'aspetto virgineo, pudico,
quasi d'una rinascita. Veniva
il padre accanto faticosamente.
Non era ancor la croce di lei. Sostò repente,
chinossi e ricordando impallidì:
«È qui...»

Egli si pose a ginocchi.
Radi fili ingiallivano sopra la terra nera.
Mi si velaron gli occhi;
ma non dissi, com'egli, la preghiera
consueta. S'udiva tristissimo dal rio
vicino un mormorio
qual d'umane parole.
Ma il cielo era sì bello, sì prodigioso il sole!
Guardai intorno i campi sterminati,
e le foreste gialle che sul fiume sonoro
parevan tutte d'oro, e i tersi monti,
che già nevosi, tra nubi di fiamma
splendeano quali fronti
alto levate in un'apoteosi:
e dal soggetto borgo sùbiti scampanii
ruppero. Trasalii:
«O MAMMA,»

sclamai: «A TE FIN CH'IO VIVA
LA FESTA DELLA VITA CH'HAI DONATA
CON DOLORE E PERDUTA TROPPO IMMATURAMENTE
E QUESTA VOCE UMANA DI GIOIE E DI SPASIMI VIVA
E IL PALPITO ROMPENTE FUOR DELL'ABISSO ENORME
E I COLORI E LE FORME
E QUEL CHE VIVE NELLA VITA E FUOR DELLA VITA
E QUEST'ANIMA MIA, QUEST'ANIMA MIA CHE S'ACCENDE
COME UN ASTRO ED ASCENDE
VERSO I CIELI SERENI DELLA LUCE INFINITA
PER SEMPRE».

(Da "Poesie", 1922)





AL CIMITERO
di Augusto Ferrero (1866-1924)

Sempre ch'io ti costeggio, o camposanto,
ove i miei nonni giacciono sotterra,
nel pensier della morte il cor si serra.
Dormir laggiù, sotto le zolle ignote,
che la bufera oltraggia e il sol percote,
né dei vivi ascoltare altro che il pianto...

Non più sentir gli uccelli a primavera
e l'infrondarsi de' novelli maî
tutta la mite fragranza de' rosai;
né intenerirsi alla calante sera,
quando sui colli ottobre impallidisce,
e si colora il bosco a varie strisce...

Il bacio di mia madre la mattina
più l'augurio pel dì non mi darebbe,
onde il collegio agli anni verdi increbbe;
né, come oggi, d'un palpito segreto
tremante mi farei, mi farei lieto,
per una fronte a salutarmi inchina...

No! Vo' vivere ancor! Sole ed amore,
gloria ed amor vogl'io sul mio sentiero,
sempre bramati al fervido pensiero.
Voglio vivere ancor. Voglio agitarmi
nella lotta dell'opere e dei carmi,
dovesse infranto rimanervi il core!...

Così, s'io ti costeggio, o camposanto,
o ai mesti giorni varco le tue porte,
non mi parla desìo vile di morte.
Penso degli avi la virtù, la gloria,
ond'ei vivono ancor nella memoria
e di noi nel durevole compianto.

Virtù, gloria vo' anch'io. Tenera faccia
di mia madre, sorridimi lunghi anni,
confortatrice ne' stringenti affanni.
Tu sorridimi ancor, pallida imago,
occhi limpidi come acqua di lago,
che in me lasciaste incancellabil traccia.

Meglio viver così, voi ripensando,
degne di voi serbando opre e pensiero,
o miei nonni giacenti al cimitero,
che questa nostra età, piagnucolando
seguir nei dubbi e nella brama imbelle,
maledicendo alle inimiche stelle.

(Da "Nostalgie d'amore", 1893)





NEL CIMITERO DI PADOVA
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

I.
Seguii dentro le arcate al mondo ascose
D'una lanterna spenzolata il lampo.
Vi sapea di putredine e di rose;
Fuori piovea sul tenebroso campo.

Era freddo, era scuro e la pensai
Adagiata nel torrido fulgor
Del suo salotto, porger la mirai
La sigaretta in alto e il suo vapor,

Lieve lieve blandirsi il negro fiume
Della chioma possente in se ritorta,
Abbandonar al molle boa di piume
Lenta la mano come spoglia morta.

Mirai cangiar i grandi occhi sinceri
Col vento che nel cuore or viene or va,
Dolci dolersi ed oscurarsi austeri,
Dar vampe ora di orgoglio or di umiltà.

Con subito la vidi impeto onesto
Levarmi incontro il volto acceso e scuro,
Pria di parlar con disdegnoso gesto
Significando il suo pensier sicuro;

E la viril parola udii vibrata
Che mai non scese basso né mentì.
Si arrestô la lanterna spenzolata,
Disse una voce indifférente: «è qui.»


II.
Davanti una piramide di fiori
Ginocchion sul funereo pavimento,
Acceso nel pregar parvi di fuori;
Dentro ero tutto un gelo di sgomento

Perché attraverso i sigillati marmi
Ella veniva lentamente in me
E la sentivo attonita guardarmi
Nel più occulto dell'anima; perché

Troppo indegno a me stesso si scoverse
Nello sguardo di lei l'occulto mio,
L'occulto che il mio labbro non le aperse,
Ch'ella non seppe, che sol vede Iddio.

Si rigirava torbida, inquieta,
Amara la Invisibile laggiù
Senza voce dicendo: ecco il poeta,
Ecco l'altezza ed ecco la virtù!

Allora le parlai: o fiera, o forte
Anima che ti offendi, abbimi a sdegno!
Ma poi che nella notte della morte
Mi dai del viver tuo sicuro segno,

Di' se quando lo spirito e l'Eterno
lo confessai veemente illusa t'ho.
Mi rispose la triste dall'interno:
So che soffro e che spero, altro non so.


III.
Ritornai alle tenebre piangenti;
Vi sapea di putredine e di rose.
Per chiarori e clamor di vie frequenti
Camminai dentro arcate al mondo ascose.

Nel treno in fuga ella salì, si assise
A me di fronte, lenta disvelò
Il volto, lagrimando mi sorrise:
So che soffro e che spero, altro non so.

(Da "Le poesie", 1908)





QUIETE LUNARE
di Arturo Graf (1848-1913)

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.

(Da "Le poesie", 1922)





UNA VOCE 
di Luigi Gualdo (1847-1898)

Era deserto il vasto cimitero, 
Nella pace suprema silenzioso; 
Qua e là pel verde prato, maestoso 
S'alzava un monumento alto e severo. 

E tra una fila di cipressi tristi 
Stavan gli umili avelli al par sacrati; 
Molti che qui passarono obliati 
Alfin dormivan là cheti e non visti. 

Pendean dal tempo scolorite e storte 
Le antiche croci in legno nero - rotte 
E infracidile ognor dalle dirotte 
Pioggie inondanti il campo della morte.

Qualcuna si vedea su cui d'affetto 
Ultimo pegno stava ancor posata 
Una ghirlanda misera e sfiorata 
Che la mestizia ne risveglia in petto. 

Coperte di mal erbe e insiem d'oblio 
Altre vedeansi ove taceano i lai: 
Stavano là da niun compiante mai, 
Con le due nere braccia aperte a Dio. 

E nel vento spirante intesi voce 
Lugùbre e fioca da una tomba uscita: 
Era suon che venìa dall'altra vita: 
Mi piegai per udir sovra la croce. 

- «O voi felici cui riscalda il sole!... 
Dimmi, mortal, che fate ancor tra i vivi? 
O voi che avete il cielo, il mare, i rivi, 
La terra, i fior, le piante, e le parole, 

«Sospirate? Piangete ancor? Sperate? 
Che fate là? V'amate ognor? Gioite? 
Ancor chiedete al tempo le infinite 
Gioie fuggenti già in dolor mutate? 

«Ai raggi incantatori della luna 
Sentite ancor le bramosìe nascose? 
Sonvi le selve ancor? Sonvi le rose 
Ch'esalano l'amore ad una ad una? 

«Ti parlo qui, mortal, dall'altra riva, 
Dalla riva ove il vero è senza velo. 
Mi appar chiara la terra e aperto il cielo, 
Benchè giaccia quaggiù di luce priva. 

«Son qui da sola, in questo avel, gelata 
Ultima stanza ove s'attende Iddio, 
- Verrà l'anime a scioglier dall'oblìo 
Dell'angelo divino la chiamata? 

«Ma fino allora, oh! quanto è questa cella 
Gelido albergo per il corpo stanco! 
 -Rigida sta nel suo lenzuolo bianco 
Colei che un giorno fu chiamata bella.» 

Gorgheggiavano intanto gli augelletti 
Smentendo tutte le tristezze umane. 
Splendeva il sol sulle iscrizioni vane, 
Sui nomi già scordati - o benedetti. 

Mormoravan le piante all'aura estiva, 
E volsi il guardo al calmo firmamento, 
Limpido come il ver, pien di contento, 
Eterno sulla vita fuggitiva. 

E dissi allor: Sognai. La tomba tace. 
La tomba è vuota. In tutto il cimitero 
Compie natura il suo vital mistero; 
Sorgono fiori dal terren ferace. 

È lieto il cimiter, natura è lieta, 
Il dolore è nell'uomo e nella vita. 
Il resto è pien della gioia infinita, 
Della gioia immortale a noi segreta, 

O voce ch'io credeva udir dal suolo 
Sorger vêr me con un mesto susurro, 
Piomba dall'alto invece e per l'azzurro 
Fino quaggiù discendi ratta a volo!

Volsi lo sguardo al ciel - l'orecchio invano 
Tesi aspettando l'implorata voce. 
Scordavo il duol della vicina croce, 
Ma il verbo non venìa dal ciel lontano. 

(Da "Le nostalgie", 1883)





IL PESCO 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero 
di vecchi morti; ove a dormir con essi 
niuno più scende; sempre chiuso; nero 
              d’alti cipressi. 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede, 
di là dell’erto muro e delle porte 
ch’hanno obliato i cardini, si crede 
              morta la Morte, 

anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile, 
sopra quel nero vidi, roseo, fresco, 
vivo, dal muro sporgere un sottile 
              ramo di pesco. 

Figlio d’ignoto nòcciolo, d’allora 
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti? 
ed ora invidii i mandorli che indora 
              l’alba negli orti? 

od i cipressi, gracile e selvaggio, 
dimenticàti, col tuo riso allieti, 
tu trovatello in un eremitaggio 
              d’anacoreti?

(Da "Myricae", 1900)





AMORE MORTO
di Remigio Zena (Gaspare Invrea, 1850-1917)

Lisa, se è ver che i morti a mezzanotte 
       Raccolti stinchi ed ossa 
       Escano dalla fossa, 

E vadan brancicando fra le rotte 
       Croci del Camposanto 
       Non bagnate di pianto,

Che ogni morto scordato e solitario 
A cui mancan dei vivi le preghiere 
Debba dir per se stesso il Miserere,
Lisa, tu puoi restar nel tuo sudario, 
Perchè la mamma tua tutte le sere 
Dormicchiando ti brontola il rosario 
E al Curato io fui lesto a provvedere 
Quattro scudi pel primo anniversario.

(Da "Poesie grigie", 1880)

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