domenica 29 giugno 2014

L'erba nella poesia italiana decadente e simbolista

A rigor di logica, la simbologia dell'erba e del prato dovrebbe riferirsi principalmente al colore di cui si compone: il verde; quindi dovrebbe avere a che fare con la gioventù e la speranza. In verità, per i poeti simbolisti ciò non vale: si nota infatti, leggendo gli sporadici versi che vedono al centro dell'attenzione erbe e prati, una sorta d'immersione nella natura che sfiora il panismo. In casi più rari l'erba assume il significato di "anima", in altri quello di "nutrimento". È infine presente un concetto di "dolore", già caro a Giacomo Leopardi, come si evince dalla lettura di questo frammento tratto dallo "Zibaldone":

Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.


TESTI SULL'ARGOMENTO



«È NEL MIO SOGNO...» 
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

È nel mio sogno un prato tutto verde 
     solitario, tra due 
spalle di monte, e l'erba trema al soffio 
     dell'ombra.

Di là, nel sole, cantano, 
ma il canto va lontano e poi si perde. 
     Più solitario resta 
     e più silenzïoso, 
nel mio sogno, quel prato tutto verde.

(Da "Leggenda eterna", Roux e Viarengo, Torino-Roma 1903)





AD UN ALVEO
di Antonino Anile (1869-1943)

Alveo deserto, che sentisti lieti
i palpiti del fiume e delle vive
linfe il fragore, nudo ora a' quieti
meriggi appari delle ardure estive;

ma l'erbe, che fioriron pei tuoi greti,
son volte ancor verso lontane rive,
come se ancor sentissero segreti
avvolgimenti d'acque fuggitive.

Si piegarono l'erbe alla fiumana
irrompente così che son rimaste
volte al mar, lungo l'alveo inaridito.

Qual soffio, quale irrompere di vaste
onde travolse un dì l'anima umana
che s'è rivolta verso l'infinito ?

(Da "Sonetti dell'anima", Ricciardi, Napoli 1907)





L'ERBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Erba che il piede preme, o creatura
umile de la terra, tu che nasci
ovunque, in fili tenui ed in fasci,
e da la gleba e da la fenditura,

e sempre viva attendi la futura
primavera nei geli orridi, e pasci
l'armento innumerevole, e rinasci,
pur sempre viva dopo mietitura,

erba immortale, o tu che il piede preme,
io so d'un uomo che gittò nel mondo
un seme come il tuo dolce e tenace;

e nulla può distruggere quel seme...
– Pensa l'Anima un carcere profondo
ove l'erba germoglia umile in pace.

(Da "Poema paradisiaco; Odi navali: 1891-1893", Treves, Milano 1893)





ERBA
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Precorritrice dell'arborea vita
nascesti a specchio delle prime fonti,
erba che regni piani colli e monti
e ti compiaci della margherita;

da millenni ripalpiti fiorita
in ogni zona; sfumi agli orizzonti,
se nell'onda t'immergi e poi sormonti
a rivedere il sol, rinvigorita:

abbondi all'uomo come l'acqua e l'aria,
gli nutri il gregge, l'accompagni, santa,
fino alla tomba se ramingo egli erra;

sul tuo verde perenne il cielo svaria
e nello spazio ad altri mondi canta
l'eterna giovinezza della terra.

(Dalla rivista «Riviera Ligure», gennaio 1913)





L'ERBA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Ancella solitaria, neve verde,
elemosina verde di malati
lungo le porte chiuse, sui selciati.
Oh la decapitazione verde!

Ama le bianche statue, sulle soglie
arse con le sue mille aperte gole
sospira l'acqua o scherza con il sole,
ed è bara di velluto alle foglie.

Preferisce i cortili umidi e oscuri
e i marciapiedi interni dei conventi,
dove non passa piede che la strazi:

solo rospi seduti contro i muri
si riscaldano al sole, flatulenti
come rognosi mendicanti sazi.

(Da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907)





SULL'ERBA
di Arturo Graf (1848-1913)

L'erba è una buona cosa 
Per l'insetto e pel branco, 
E ancor per l'uomo stanco, 
Per l'uom che si riposa. 

Mentr'ei siede sull'erba, 
Fuor dell'usata gabbia, 
Ogni rancor ch'egli abbia 
Si smorza e disacerba. 

Mentre supino giace 
Sui flessuosi steli, 
Vede nell'alto i cieli 
E può sognare in pace. 

Si rizza a lui dattorno 
Qualche succinto fiore: 
Vive il fior poche ore; 
Vive l'uom qualche giorno. 

Una minuta plebe 
Ivi presso fatica: 
Come l'uom la formica 
Si struscia per le glebe. 

Adagio un grillo miete; 
Vïaggia nel rigagno 
Una chiocciola; il ragno 
Distende la sua rete. 

Tra' fuscelli si spalla 
Una lumaca inerme; 
Ronza un moscone; il verme 
Disprezza la farfalla. 

E l'uom che si riposa 
Sente d'esser fratello 
Del verme e del fuscello 
E d'ogni nata cosa. 

Mentr'ei giace sull'erba 
Nauseato, sfinito, 
Gli passa ogni prurito 
Ed ogn'idea superba. 

Mentr'ei stassi a giacere, 
Vede fuggir per l'aria 
L'illusïone varia 
Dalle nubi leggiere. 

Mentr'ei giace supino, 
Vede assai lunge il cielo; 
Sente, fra stelo e stelo, 
La terra assai vicino. 

(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)





L'ANSIA DELLE ERBE
di Giuseppe Lipparini (1877-1951)

Maggio, nel tuo cominciare, un giorno parlai con i fiori;
semplici fiori di campo, stellanti fra il verde: vermigli
e violetti, cerulei e gialli: corolle dischiuse
dentro la notte di luna nel palpito delle rugiade.

"Come tu porti il tuo cuore purpureo nel fondo del petto,
tale ogni filo di verde ha noi per suo piccolo cuore;
e se tu palpiti all'urto d'amore e ti vince il desio,
noi, piccole arpe, vibriamo al soffio fugace del vento.

"Ogni qual volta si appressa un uomo, tremiam di spavento;
l'ansia profonda risale gemendo dai tuberi e dalle
fitte radici; e vediamo, incontro ai tramonti infocati,
dentro a le mani callose brillare nel filo le falci.

"Onde sarà su la terra un fascio di cuori recisi.
Tu, ne la notte odorosa, ascolta il profumo che sale
dai grandi mucchi di fieno. È l'anima nostra, ch'esala
verso le stelle lontane il vano dolore dell'erbe".

(Da "L'ansia", Puccini & figli, Ancona 1913)





LA RUTA 
di Pietro Mastri (1868-1932)

Il volgo afferma che in te, ruta, sia 
una virtù meravigliosa e tale 
che, dove alligna il tuo cespuglio, vale 
a scongiurar la più nera malìa. 

(E ben io so che chi ti guarda e fiuta 
pensa ad un qualche tuo mistero, o ruta; 

pensa a certe putredini di bosco, 
a rettili disfatti, dal cui tosco 

sien germogliate le tue foglie grame 
e fetide, color di verderame !...) 

Ond' io ti vedo, o ruta, al davanzale 
d'umili case, in qualche oscura via: 
ma la sventura ti fa compagnia, 
e sale e scende per le anguste scale. 

(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)





MENTRE IL VERDE IN RECLUSA ERBA S'AFFANNA
di Arturo Onofri (1885-1928)

Mentre il verde in reclusa erba s'affanna
per salir su dal prato, e dilatarsi
in archi blu, da ripioverne in manna
d'oro sui propri frutici giù sparsi;
      piomba sul mio silenzio
      l'astro che ha nome Assenzio.

Un lembo del futuro si delinea
dallo squarcio che s'apre all'occhio interno;
e al colpo d'una spada rettilinea,
odo il suolo bollir d'un fuoco eterno,
      nel sangue mio, che vuole
      già ringoiare il sole.

Calmati, o sangue impaziente! Aspetta
che il Nome sia santificato, e il Regno
del Padre venga a far l'alta vendetta
cosmica, onde, per ora, non sei degno
      di ringoiare in te
      il sole del tuo Re.

(Da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927)





I PRATI DI GESÙ, V
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

È una perpetua continua processione
di centomila persone
ogni giorno, che a quel prato
s'aggiran torno torno
per ore e ore.
Centomila persone
che s'intrecciano, s'incontrano,
si guardano, s'inchinano,
senza far romore.
Il più assoluto silenzio
deve regnarvi attorno, giro giro,
si deve potere udire un respiro.
Nel mezzo del prato
c'è un uomo addormentato,
c'è sempre stato.
La gente è sempre stata
nella più grande ammirazione,
giro giro, tondo tondo,
da che mondo è mondo.
Tutti ammirano perplessi
quell'eterno placido sonno,
tutti colla massima devozione,
ogni giorno centomila persone.
L'uomo è là, nel mezzo del prato,
steso in mezzo addormentato,
sempre giovine uguale, sempre biondo,
sempre colla sua veste
bianca di candore.
Dorme colla più gran tranquillità
il più bel sonno del mondo,
forse per l'eternità.
La gente giro giro
sta fissa ad ammirare
l'alzarsi e l'abbassarsi di quel petto,
sta in orecchi per udire
il placido respiro.

(Da "Poemi", Tip. Aladino, Firenze 1909)





SIMILITUDINE
di Mario Venditti (1889-1964)

In mezzo all'erbe sfolte
agonizzano al sole
tutte quelle viole
che non furono colte.

Ed hanno la tristezza
di giorni non vissuti,
di baci non goduti,
di non dette parole
d'amor - quelle viole
che non furono colte
e che, prive di brezza,
morran tra l'erbe sfolte.

(Da "Il terzetto", Parrella, Napoli 1911)

giovedì 26 giugno 2014

Poeti dimenticati: Francesco Cazzamini Mussi

Francesco Cazzamini Mussi nacque a Milano nel 1888 e morì a Baveno (Novara) nel 1952. Amico di Marino Moretti, di cui curò una monografia, scrisse versi intimisti che, per certe caratteristiche, lo avvicinano ai crepuscolari. Seppure le sue poesie mostrino dei pregi evidenti, fu quasi totalmente ignorato dai critici del suo tempo, e oggi il suo nome è caduto nell'oblio.



Opere poetiche

"Canti dell’adolescenza", Soc. Tip. Ed. Naz., Torino 1908.
"Le amare voluttà", Baldini e Castoldi, Milano 1910.
"Fogline d’assenzio", Ricciardi, Napoli 1913.
"Le allee solitarie", Ricciardi, Napoli 1920.
"Il cuore e l’urna", Treves, Milano 1923.
"La fiamma e le ceneri", Treves, Milano 1930.
"Lacrime e sole", Formiggini, Roma 1938.
"Passi sulla sabbia", Guanda, Modena 1941.
"Le spiagge dell’oblio", Guanda, Modena 1947.
"Poesie", SEI, Torino 1953.






Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 2, pp. 42-47).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (CXXVIII-CXXXI).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 425-431).



Testi

TRISTEZZA

È il tardo autunno, più non vi son rose;
ecco la morte dell'umane cose;
cadon le foglie secche ed avvizzite,
cadon dal cuor le mie speranze ardite.

Nel languire del vespero odoroso
l'anima invoca il placido riposo;
laggiù, laggiù, nel bianco cimitero,
v'è tutto quello che nel mondo è vero.

(Da "Canti dell’adolescenza")





 FANALE

Oh quel fanale
che s'apre come occhio smarrito
nel grigio silenzio infinito
della notte invernale,
or bianco or ardente;
oh quel fanale vicino
e lontano
nel piano,
in striscie di sangue il cammino
preclude
al nero convoglio che invoca
con voce stridula e roca,
la libera via;
oh quel fanale è la mia
anima, forse, che chiede,
e dolce si perde e s'illude
nel sogno, e non vede?

Fremono i fili sonori,
un globo elettrico illumina
la strada, spicchio di sole
nel fango, nell'acqua raccolta
negli interstizi d'asfalto...
O quel fanale è una scolta
sperduta,
che vigile attende un assalto?

Occhio di sangue, baleni
or nella notte, scolori
tremuli palpiti muori,
nei cieli oscuri e sereni...

E romba il treno lontano
nel piano,
scompare.
Non s'ode che il vasto silenzio infinito.
Silenzio — a vespro — sul mare.
Ma l'occhio vaneggia, mi guata:
si apre: si chiude smarrito:
l'enorme pupilla dilata.
E il treno — lontano
nel piano è un punto...

Ma dove, ma quando sia giunto...


(Da "Le allee solitarie")

martedì 24 giugno 2014

Antologie: "I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi




Ventiquattro anni dopo l'uscita de "I crepuscolari", antologia a cura di Nino Tripodi (Edizioni del Borghese, Milano 1966), ne uscì un altra col medesimo titolo. Trattasi di "I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990. Io che non conoscevo l'altra, quando lessi quest'ultima pensai ad un'opera originale, quanto mai utile e interessante. La verità è che mi sbagliavo, poiché l'antologia si rifà, quasi in modo integrale, a quella del Tripodi. Ciò che cambia è la prefazione di Grisi e la presenza di molti tagli rispetto alla prima. Scompaiono infatti molti poeti: alcuni crepuscolari minimi e tutti i seguaci del crepuscolarismo. Per il resto, a parte qualche documento autografo di scarso rilievo, non cambia nulla. È quindi scontato che sia preferibile sempre fare riferimento al volume del Tripodi, rispetto a quello del Grisi. Ecco infine l'elenco dei poeti presenti.


I CREPUSCOLARI

Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Corrado Govoni,  Guelfo Civinini, Aldo Palazzeschi, Carlo Chiaves, Carlo Vallini, Nino Oxilia, Auro d'Alba, Tito Marrone, Enzo Marcellusi, Remo Mannoni, Yosto Randaccio, Guido Ruberti, Alberto Tarchiani, Giorgio Lais.

sabato 21 giugno 2014

Antologie: "I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi




"I Crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Milano 1966, è a tutt'oggi la migliore antologia mai dedicata ai poeti crepuscolari. I motivi consistono sia nell'accuratezza della prefazione e della presentazione dei poeti del gruppo, selezionati con generosità e antologizzati abbondantemente; sia nella presenza di una parte che si occupa delle influenze della poesia crepuscolare su quella dei poeti che li seguirono cronologicamente: partendo dai coetani e giungendo fino alle generazioni che all'uscita dell'antologia avevano da poco passato i quarant'anni. Belle anche le foto presenti all'interno del libro che spesso ritraggono i volti dei poeti più o meno importanti appartenenti alla corrente citata. L'opera di Tripodi è formata da un elevato numero di pagine (ben 590) nessuna delle quali risulta sprecata, anzi, quasi sempre va ritenuta quale prezioso documento attestante l'attività interessantissima di quello che fu, almeno a mio parere, il gruppo di poeti più importante del XX secolo. Ecco infine l'elenco dei poeti antologizzati in "I Crepuscolari", che segue l'ordinamento scelto da Tripodi, diviso in due parti (i "veri" crepuscolari appaiono nella prima). 



PARTE PRIMA

Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Corrado Govoni, Guelfo Civinini, Aldo Palazzeschi, Carlo Chiaves, Giulio Gianelli, Carlo Vallini, Nino Oxilia, Auro D'Alba, Tito Marrone, Enzo Marcellusi, Remo Mannoni, Yosto Randaccio, Guido Ruberti, Alberto Tarchiani, Giorgio Lais, Giuseppe Caruso, Guido Milelli, Giuseppe Altomonte.


PARTE SECONDA


Diego Valeri, Lionello Fiumi, Eugenio Montale, Umberto Saba, Ardengo Soffici, Camillo Sbarbaro, Mario Venditti, Augusto Garsia, Nicola Moscardelli, Bino Binazzi, Vittorio Sereni, Gino Bonomi, Virginio Mazzarella, Attilio Canilli, Marco Visconti, Luciano Erba, Elio Pagliarani, Fiore Torrisi.

domenica 15 giugno 2014

Le croci nella poesia italiana decadente, simbolista e crepuscolare

Quasi sempre, nei versi di questi poeti, si fa riferimento alla croce cristiana, a cui viene spesso aggiunto il calvario quale simbolo di sofferenza, di estremo dolore ma anche di purificazione e, ovviamente, di divino. In alcune poesie la croce assume la forma di un simbolo funesto, sia perché sta a ricordare fatti violenti e luttuosi, sia per il motivo che, rifacendosi alla tradizione cristiana, essa ha rappresentato e tuttora rappresenta la morte. In due composizioni c'è anche l'abbinamento Rosa-Croce: simbolo fondamentale dell'esoterismo cristiano e dell'intero occidente, dove si uniscono il dolore umano e la gloria universale.



LA CROCE E LE ROSE
di Antonino Anile (1869-1943)

Una Croce col Cristo s'erge
in fondo sull'ampia radura,
appena l'alba di sua pura
luce i cieli opachi deterge.

Della Croce solenne al piede
(poi che l'Aprile ha già disciolto
i rivoli pei campi) un folto
rosaio fiorire si vede.

Le rame, perlate di brine,
si snodano, meravigliose
di vivi boccioli di rose,
attorno alle membra divine.

Pei fianchi del Cristo morente
si tendono l'ardue volute,
e salgono, e, sotto le mute
labbra, s'apre una rosa ardente;

e salgono, e tutta la bionda
cesarie del pio Nazareno,
la fronte reclina, ecco, un pieno
serto di corolle circonda.

Al nuovo trionfo la grande
soave pupilla pensosa
sorride; e nella luminosa
aria quel sorriso si espande:

e passa su tutte le aiuole
e va coi fiumi tributari,
e brilla sui ceruli mari
co'l vasto sorriso del Sole.

Par che le rose, in un giocondo
anelito, siano salite
a detergere le ferite
di tutto il dolore del mondo.

La Croce solenne, di nera
tagliata ròvere rubesta,
come albero novo si desta
al soffio della primavera.

Le rose dischiuse fiammanti
abbracciano il Cristo che geme;
e paion bocche che a supreme
ebbrezze s'aprano anelanti;

e pare che il sangue divino
sia tutto passato alle rose,
che effondono con odorose
parole un linguaggio divino;

e par che la trama del fiore
schiuso appena, la trama d'ogni
petalo, sia quella dei sogni
che s'aprono di un Dio nel cuore.

Ritenne la Terra nell'ime
profondità il Verbo celeste;
e, quando di fiori si veste,
quel Verbo per gli uomini esprime.

Per ogni speranza, sfiorita
dentro le stanche anime umane,
ridono le balze montane
e i piani di nuova fiorita.

Per le vigilie dolorose,
pei cuori da l'Odio ritorti,
per l'ultimo sogno dei morti
la Terra fiorisce di rose.

Pel sangue fraterno, che 'n guerra
fumiga ancora su le zolle,
parole d'amore, in corolle
di rose, dischiude la Terra.

(Da "La Croce e le rose", Ricciardi, Napoli 1909)





LA CROCE
di Giuseppe Casalinuovo (1885-1942)

In fondo della strada, che protende
l'ultima curva al ciglio del ripiano,
le larghe braccia, in pio gesto cristiano,
la croce solitaria al ciel distende.

Qualche cosa d'ignoto essa contende
sempre nel sole o in mezzo all'uragano,
ed un senso di tragico e di umano
in quel suo gesto supplice risplende.

La croce è nuda, sola, senza il pondo,
tra le sue braccia immobili sospeso,
del vecchio Cristo eternamente biondo.

Ma, con il corpo martoriato e leso,
sta crocifisso tutto quanto il mondo,
alle sue braccia eternamente appeso.

(Da "La lampada del Poeta", Zanichelli, Bologna 1929)





LA CROCE
di Marcus De Rubris (Marco Rossi, 1885-?)

Sotto il Simbolo immenso, che il Calvario
profilato ne 'l ciel di Galilea
un giorno a Gerosolima tenea,
L'Artefice dispose in modo vario

la Forza e l'Umiltà divinamente,
ne i muscoli marmorei conteste
a luci inarrivate ed a profonde
ombre tenaci. - Rivelò l'ardente
sogno quest'opra di superba veste,
cui sono vita l'alme tremebonde
ne 'l gran mistero che la Croce asconde.
Effigiando quest'ardimentosa
opera, certo volle, l'ansiosa
anima, rivelare il Solitario.

(Da "Anima nova", Streglio, Torino-Genova-Milano 1906)





LA CROCE GLORIATA
di Luigi Fallacara (1890-1963)

Dal profondo di terre oscure alzata,
ripida d'oltre ogni costellazione,
in ansia d'orizzonti attraversata,
o Croce aperta in ogni direzione!

O Croce di dolore gloriata,
sullo spazio perduto in creazione
l'interezza d'amor t'ha dilatata,
e l'universo ha nome Passione.

Profondità, distanza, perdutezza
d'astri che si ricolmano d'assenza,
ardendo impietosi di desio,

lontananza che sei sola pienezza,
Passione, vastissima presenza,
dell'universo che dolora Iddio.

(Da "Illuminazioni", Casa dei poeti, Varese 1925) 





ALLA CROCE
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Un dì che mi parevi irta di spine
estenuato dal tuo peso immenso
proruppi: - tu non mi darai compenso,
voglio un rogo innalzar per la tua fine!

Io voglio, o croce, rotto quel confine
che non si varca mai per tuo consenso,
tutto il piacere... poi, mille rovine!

Ma perdonami, o croce; ecco, felice
oggi grido abbracciandoti: - il Calvario
è la più amena e florida pendice.

In lui coversi tutto il mio desio:
vivere amando, pianger solitario,
né ricrearmi che lassù, con Dio.

(Da "Mentre l'esiglio dura", Castellotti, Torino 1903)





LA CROCE NEL TRONCO
di Arturo Graf (1848-1913)

Tu, che scolpisti nel core
Di questo lugubre legno
Il formidabile segno
Dell’immortale dolore;

O vïator sconosciuto,
O sognator vagabondo,
O nauseato del mondo,
Le tue vestigia saluto!

Ancora vivi? Gli ascosi
Greppi e le selve erri ancora?
O nell’oscura dimora,
Placato alfine, riposi?

In grembo alla madre antica,
Sotto le morbide zolle,
Ove si cheta la folle
Smania e la vana fatica?

E se ancor vivi, rammenti
L’ora del tuo passaggio
Per questo bosco selvaggio,
Ignoto quasi ai viventi?

E ti sovviene il pensiero,
Che in te qui fisse l’artiglio,
Qui, dove manca sul ciglio
Dell’erma balza il sentiero?

Ah, se ancor vivi, di certo
Ricordi il tutto: l’accesa
Fede, l’inganno, l’offesa...
Questo silenzio deserto.

E se non vivi... La scura
Tua piaga vive nel segno;
Che lacera questo legno,
E incancellabile dura.

(Da "Le rime della selva", Treves, Milano 1906)





IL CROCIFISSO
di Guido Marta (1882-?)

C'è una finestra con le sbarre in croce,
a cui m'affaccio immobile, proteso
verso il cielo sereno, alto, disteso
come un fiume d'azzurro — ampio — alla foce:

e la mia vita — stretta all'inferriata —
sospesa sotto il cielo sull'abisso,
appare, a un tratto, logora e sbiancata,
come un povero sogno crocifisso.

(Da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola, Catania 1922)





LA CROCE
di Fausto Maria Martini (1886-1930)

Penso quell'ore, e mi si sgrana ognuna
(quell'ore!) come avemarie seguaci,
se l'altra sorga e non ancora l'una
si spenga con un murmure di baci...

Così, per te, mi son fatto un rosario,
da dirsi ogni mattina a bassa voce,
se mai m'esorti a questo mio calvario...
finché non trovo in fondo, ahimé! la croce.

La croce! Quella che sola ci resta
d'ogni dolcezza: ancora, qualche odore
d'incenso... sera d'un giorno di festa...
Singhiozzo d'una lampada che muore...

(Da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910)





UN SOLO PROFUMO DI ROSA
di Arturo Onofri (1885-1928)

Un solo profumo di rosa
In calda atmosfera veloce,
beato di sé, si riposa
nell’ombra che ha forma di croce.

È solo un profumo: è sospiro
Di farsi bontà volontaria,
che induce a color di zaffiro
il nimbo di sole dell’aria.

La terra solleva dall’ombra,
con braccia d’eterno avvenire,
il duro dolor che la ingombra,
sognando altri cieli fiorire.

E ignara ogni vita si sposa,
dall’ombra che ha forma di croce,
a un cielo che odora di rosa,
in calda atmosfera veloce.

(Da "Terrestrità del sole", Vallecchi, Firenze 1927)





LA CROCE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Laddove le vie fan crocicchio,
poggiata a un cipresso è la Croce.
Sul nero del legno risplendono i numeri bianchi:
ricordo del giorno.
La gente passando si ferma un istante
e sol con due dita toccando leggero quel legno,
fa il Segno di Croce.

(Da "I cavalli bianchi", Firenze 1905)





CROCE INCISA SUL PRATO
di Romualdo Pantini (1877-1945)

Fu nel rigoglio della primavera:
l'uom de la villa un suo fratello uccise.
Il fratello cadendo gli sorrise,
e sorridendo entrò ne la sua sera.

Al cospetto dei monti, croce nera
non sorse a benedir le zolle intrise;
ma col sasso un pastor due solchi incise
per lo scongiuro della diavolera.

La vernata non fu mite di nevi:
la pioggia imperversò per entro i brevi
solchi, li deformò peggio che buca.

Ora al maggio novello, molte spine
chiudono i pochi fili d'erba fine.
La pecora sogguarda e non vi bruca.

(Da "Antifonario", L'arte del libro, Vasto 1906)





OGNI MATTINO FU COME UNA CROCE
di Federigo Tozzi (1883-1920)

Ogni mattino fu come una croce
dove l'anima mia stette inchiodata.
E la luna, allo strazio, senza voce
restava in cielo come disperata.

Ogni mattino il canto si sovvenne
che lacrimava tutto l'infinito;
dove vedea passar le eterne penne
come un silenzio che nessuno ha udito.

(Da "Le poesie", Vallecchi, Firenze 1981)

sabato 7 giugno 2014

Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (II)

VOLO DI COLOMBE A NOTTE
di Luigi Bartolini (1892-1963)

Volo, 
volo
nero,
s'ode
per le oscure
balze
della notte,
per le oscure
vele
della notte,
salire in cielo.
E' di colombe
disperse
che cercano
altre colombe
collarine.
Volo
volo nero
volo grigio
volo d'argento
s'ode
che sale
dalle balze,
per le oscure
torme,
della notte,
al primo cielo.

(Da "Poesie 1911-1963", Rebellato, Cittadella 1964)





LA MUCCA SULLA VETTA DELLA MONTAGNA
di Umberto Bellintani (1914-1999)

Salita era la mucca sulla più alta montagna,
e da lassù lanciava il suo muggito al cielo
e si poteva ben crederla il più grandioso dio.

S'udiva il suo muggito calare alla valle.
S'udiva il suo muggito salire alle stelle.
E quella mucca sulla montagna era ancor visibile;
perciò ogni uomo aveva gli occhi rivolti lassù.

Era la sera e il cielo era chiarissimo.
E nessuno si chiedeva di chi fosse l'animale,
poiché era un fatto grandioso e quel mugghiare
affascinava ogni spirito e incuteva timore.

Poi fu la notte densa di oscurità;
e le lanterne si accesero per salire sul monte.
Ma già la mucca era scesa e attraversava il paese
come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino.

(Da "E tu che m'ascolti", Mondadori, Milano 1963)





IL GIBBONE
di Giorgio Caproni (1912-1990)

No, non è questo il mio
paese. Qua
- fra tanta gente che viene,
tanta gente che va -
io sono lontano e solo
(straniero) come
l'angelo in chiesa dove
non c'è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.

Nell'ossa ho un'altra città
che mi strugge. E' là.
L'ho perduta. Città
grigia di giorno e, di notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
- mai, - mi ricondurrà.

(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1993)





GABBIANI
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1958)





GALLO
di Libero De Libero (1906-1981)

A registro della notte
il gallo nomina astri
e fuochi alle stagioni.
Guardiano del sonno
gli è febbre l'aurora
nell'ala rinata, strepita
d'alba il suo canto
e tutta l'aria s'impenna,
è del suo regno
la giornata guerriera.
Padrone dell'ora
è la sua cresta una legge,
onore della giostra,
al bel tempo e al vento
del suo grido si arma la luce.
E se col morto sole patisce
rapido sfugge alla catena,
già nel suo occhio stretto
un altro mattino s'indora.

(Da "Scempio e lusinga. 1930-1956", Mondadori, Milano 1972)





L'ORSO
di Luciano Erba (1922-2010)

Dovevi imparare dall'orso
che cosa?
la solitudine nei boschi, la monogamia
oggi
non puoi essere che un orsetto di pezza
un bigio orsacchiotto
in braccio allo stato sociale.

(Da "Negli spazi intermedi", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1998)





IL VERDONE DI MARE
di Nico Orengo (1944-2009)

Il verdone di mare,
che tra le alghe
prova la resistenza
della coda, ignora
che tra i rami dell'ulivo
un uccello simile nel nome
guizza, per conoscere
l'elasticità delle sue ali.

(Da "Cartoline di mare vecchie e nuove", Einaudi, Torino 1999)





PER UNA FARFALLA
di Anna Maria Ortese (1914-1998)

Dormi da ieri sera.
Nella spazzatura
ti eri rifugiata.
Niente ti ha svegliata.
Neppure il sole.
Neppure un geranio
verde e rosso.
Com'è strano
il tuo sonno - perché
mai hai parlato,
e neppure ieri,
e neppure stamane,
e intanto ti sfai.
Ma forse sei un'ombra,
di Te - che ora vai
volando nell'oro
nel verde, sui fiori,
sul biancospino
di un fresco giardino,
su una sponda
o l'altra
delle tumultuose adoranti
Costellazioni.

(Da "Il mio paese è la notte", Empirìa, Roma 1996)





L'UCCELLINO DEGLI ADDII
di Alessandro Parronchi (1914-2007)

Da uno strappo di fumo
nel tetto delle pensiline
frulla e sfiora la morchia risecchita
sulle rotaie e su un nonnulla
di piccoli rifiuti
saltella infine e becchetta

l'uccellino degli addii, il felice abitante
della tetra stazione, che sa tutto
di chi parte e di chi rimane,
di chi cerca e cercherà senza fine,
di chi deve lasciar quel che ha trovato
e di chi fugge e abbandona.

A un fischio vola via, rinfila la leggera
volta, balza, scompare al viaggiatore
nell'atto di partire, ma col cuore
tremante di chi arriva
la prima volta a una città straniera.

(Da "Coraggio di vivere", Garzanti, Milano 1961)





L'OMO E LA SCIMMIA
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

L’Omo disse a la Scimmia:
- Sei brutta , dispettosa:
ma come sei ridicola!
ma quanto sei curiosa!

Quann’io te vedo, rido:
rido nun se sa quanto!...
La Scimmia disse: – Sfido!
T’ arissomijo tanto!

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1951)

sabato 31 maggio 2014

I muri nella poesia italiana decadente e simbolista

I muri possono riferirsi, a seconda dei casi, ad una sensazione di prigionia ovvero quella di trovarsi in uno stato di isolamento dal resto dell'umanità (e i motivi possono essere svariati), la cosa può portare alla deduzione che l'intera vita, rappresentata da "una muraglia | che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia" sia nient'altro che una prigione da dove è impossibile evadere. Ma i muri (o le mura) esprimono anche enigmaticità e mistero, visto che a volte il poeta si trova davanti a un muro alto che non permette alcuna possibilità di scavalcamento, e allora si chiede cosa ci sia al di là, riuscendo a percepire soltanto alcuni rumori che fanno nascere in lui più di una ipotesi; è, in sostanza, tutto ciò che nasce nella mente umana guardando l'immensità dell'universo: luogo che, per quanto ci si sforzi, non permette una comprensione totale. In altri versi i muri sono popolati da fantasmi, effigiati nei dipinti e nei disegni appesi alle pareti, che nutrono una sorta di risentimento nel vedere i nuovi inquilini di quelle che erano le loro ville, profanare i loro "templi". Altre volte ancora il muro diviene la "mente" dolorosamente trafitta da un "chiodo-pensiero". C'è infine il caso in cui il muro vuol simboleggiare una separazione da altra persona o dal mondo, per incomprensione, mancanza di amore o malattia.



MURO DI CINTA
di Adelchi Baratono (1875-1947)

Sì, basso, ma orlato di punte,
di scheggie, di vetri. I monelli
che vengono a dar la scalata,
si tirano su su su, e, giunte
le mani a toccar la crestata,
ricadon lasciando i brandelli.

Quel muro recinge una valle
angusta, una conca d'ombrati
riposi; gli alberi, tanti!
lì dentro. Di fuori va il calle
bruciato di sole. Davanti
un'erta aridità di prati.

Ieri passò una bambina;
che bella! pe 'l caldo il sudore
madeva l'ovale del viso.
Guardò quell'ombrìa dalla china
segnando con gli occhi un sorriso,
ma poi sentì piangere il cuore!

(Le chiesi:
- Quant'anni hai, bambina? -
Rispose: - Mammina
ha detto, nove anni e tre mesi. -)

Null'altro? E no. Sono come
un piangere, questi paesi.
C'è il sole che affoca... e quei muri...
Domani ci torno. So un nome
che brucia. Lo incido, che duri
sul muro nove anni e tre mesi.

(Da "Sparvieri", Stab. tip. Montorfano, Genova 1900)





IL CHIODO
di Vittorio Emanuele Bravetta (1889-1965)

Come avvenga non so, né per che modo,
battere sento nel silenzio oscuro
un martello.... chi mai batte nel muro?
stupidamente al cupo rombo godo.

Ne l'alta notte quando più mi rodo,
quando più per l'insonnia mi torturo,
io ne la stolta illusion perduro:
chi batte, penso, ne la pietra un chiodo?

Ma sussulto, che poi sento feroce
penetrare una punta entro il cervello
e, ricreduto, a me confesso: errai.

Muro è la mente, il pensier chiodo atroce,
Ve lo pianta il dolor come un martello:
e il muro cede e non si spezza mai!

(Da "Odi e canzoni", Libreria Petrini, Torino 1910)





LA MURAGLIA
di Enrico Cavacchioli (1885-1954)

Pur, nella roggia e trepida muraglia
i caprifichi stendono a viluppi
le foglie scarne, e sembra che ne' gruppi
dei rami gocci sangue a scaglia a scaglia.

Tra queste mura, sospirando, manca
l'aria. Stridendo, a volo, un pipistrello
si precipita e già pel tuo risveglio
Anima - forse - non ti senti stanca!

Ti chiamano. Un cipresso si scompiglia.
Tutto si tace: nel silenzio un rauco
pianger di bimbi ti sconvolge il core
di dolorosa e grave meraviglia;

tu, valichi il cammino ed oltrepassi
corpi di Sfingi e tronchi di Titani,
Chimere di piramidi lontane
che tendono al passante i fianchi grassi;

trovi muraglia, muraglia, muraglia,
si chiudon li occhi, il core s'addormenta,
ma nessuno rimpiange o si lamenta
di questa fuga che il sonno attanaglia.

Tu sei convinto di morire? Un velo
ricopre le pupille lacrimose:
Avanti! Avanti! Ché oltre le pensose
tregue s'à da veder stellare il cielo!

(Da "L'Incubo Velato", Edizioni di «Poesia», Milano 1906) 





VECCHIE MURA
di Giovanni Chiggiato (1876-1923)

Quando i nuovi signori
muovono i passi brevi
per l'ampie sale, grevi
di fregi, stucchi e ori,

dalle antiche cornici
appese tra i parati,
gli uomini effigiati
hanno ghigni nemici:

con ira dai socchiusi
cigli inchinano sguardi
attoniti o beffardi
a squadrarne gl'intrusi.

Son giovani alti e snelli
d'una febbre consunti:
pallidi visi smunti,
mani carche d' anelli;

son vecchi venerandi:
per un'impresa eccelsa
stringon superbi un'elsa
nel pugno uso ai comandi;

son donne dai soavi
languori: lunghe e miti
labbra, occhioni spauriti
da peritanze gravi;

ma tutti han fieri cenni
d'odio contro la turba
gretta e vana che turba
i loro ozi centenni.

È giorno? il fuoco splende
nel camino di strani
guizzi, e strepiti arcani,
pur senza il vento, rende:

talor, pur senza il vento,
sbatte o brandisce un uscio;
erra di sete un fruscio
lento sul pavimento;

s'agita di sui vecchi
muri un logoro arazzo;
si sfoglia a un tratto un mazzo
giallo di fiori secchi;

s'increspa nella vasca 
l'acqua; l'aria è tranquilla, 
ma la lampada oscilla,
ma un vecchio libro casca,

È notte? E tenta il vento
i cardini a le imposte 
ne le stanze riposte
ùggiolan di spavento

i cani; in ogni fibra
dei secolari travi
cricchia un tarlo: nel clavi- 
cordio una corda vibra:

ronzano strani insetti
di contro a le specchiere;
leva il vento in leggiere
spire dai caminetti

la cenere che vela
l'illanguidir del fuoco;
con un crepitio roco
spegnesi una candela...

Contan che un re tra quelle
mura in tempi lontani
strozzasse di sue mani
un'amante ribelle.

(Da "La fonte ignota", Ist. Veneto di Arti Grafiche, Venezia 1907)





IL MURO 
di Pietro Mastri (1868-1932)

Una solinga via fa capo al muro; 
alto ed oscuro per crepacci antichi; 
dalla cui sommità pendono intrichi 
d'ellera, come ancor neri cernecchi 
su certe fronti ruvide di vecchi... 
Io non lo so, che cinga il vecchio muro. 

Di là, nel vespro, il martellar d'un merlo 
da invisibili frasche ora mi giunge; 
ed un garrir di passeri, più lunge, 
da invisibili tetti. Ma che cinga 
il vecchio muro in questa via solinga, 
io non lo so: né bramo di saperlo. 

Che?... Forse l'orto d'un convento... Suore 
pallide in volto d'un pallor di cera, 
cui sa d'incenso l'ampia veste nera, 
vanno per quelle aiòle; e di lor sogni 
vedon fiorire, attorno, sfiorire ogni 
rosa che nasce, ogni rosa che muore. 

Fors'anche un cimitero abbandonato... 
Ferve sulla chiesetta il passeraio? 
V'è qualche siepe fatta ora sterpaio, 
nido di merli?... Ed erbe in gran vigore; 
ove, a tratti, un marmoreo biancore 
stagna, com'acqua lucida in un prato. 

O forse un dolce solitario asilo 
d'amore... Ecco il viale dei sorrisi; 
mani allacciate, occhi negli occhi fisi. 
Bianca nel fondo sta la villa e aspetta. 
La luna poi vedrà stamparsi netta 
un'ombra in terra, un duplice profilo. 

O, chi sa mai?, come talor si vede 
retto da un vecchio un gracile bambino, 
regge il muro uno squallido giardino. 
E dietro, forse, un giovinetto langue; 
e chino l'avo su quel volto esangue, 
spengersi mira il suo ultimo erede... 

Tace ogni suono ormai. Gl'intrichi neri 
d'ellera, al sommo dello scabro muro, 
lievemente oscillano nel puro 
vespro così, com'ispidi cernecchi 
su certe fronti ruvide di vecchi; 
fronti che serban chiusi i lor pensieri. 

(Da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)





MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
di Eugenio Montale (1896-1981)

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

(Da "Ossi di seppia", Gobetti, Torino 1925)





IL MURO
di Ada Negri (1870-1944)

Alto è il muro che fiancheggia la mia strada, e la sua nudità rettilinea si prolunga nell'infinito.

Lo accende il sole come un rogo enorme, lo imbianca la luna come un sepolcro. 

Di giorno, di notte, pesante, inflessibile, sento il tuo passo di là dal muro.

So che sei lì, e mi cerchi e mi vuoi, pallido del pallore marmoreo che avevi l'ultima volta ch'io ti vidi.

So che sei lì; ma porta non trovo da schiudere, breccia non posso scavare. 

Parallela al tuo passo io cammino, senz'altro udire, senz'altro seguire che questo solo richiamo,

sperando incontrarti alla fine, guardarti beata nel viso, svenirti beata sul cuore.

Ma il termine sempre è più lungi, e in me non v'è fibra che non sia stanca; 

ed il tuo passo di là dal muro si scande a martello sul battito delle mie arterie.

(Da "Il libro di Mara", Treves, Milano 1919) 





PARCO UMIDO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Il parco è serrato serrato serrato,
serrato da un muro eh'è lungo
le miglia le miglia le miglia,
da un muro coperto di muffe,
coperto di verdi licheni,
grondante di dense fanghiglie.
Né un varco soltanto nel parco traspare
né un foro vi luce,
soltanto si posson le muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie grondanti.
Altissimi i cedri ne passano il muro,
i pini dal fusto robusto ne sporgon l'ombrello 
s' innalzan cipressi, rossastre magnolie,
e salici, e salici tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro cadenti
le lagrime ai verdi licheni,
a grige fanghiglie grondanti.
Di fuori ecco il parco serrato,
serrato da un muro
ch'è lungo le miglia e le miglia.
Fra l'ombre, fra l'ombre potenti
nel folto degli alberi grandi
soltanto tre donne s'aggirano lento,
bellissime donne: Regine Parenti.
S'aggirano lento in silenzio
ne l'ombre del parco serrato,
pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore del volto ne scopre.

(Da "Lanterna", Stab. Tip. Aladino, Firenze 1907)





CANZONETTA DI FEBBRAIO TRAVERSO IL MURO
di Romualdo Pantini (1877-1945)

La Primavera torna
ed è lontana ancóra!
Ma ogni giorno più vicino torna
anche alla mia dimora.
La sento, come sento lei cantare
le canzonette sue più lunghe e care.

L'inverno ella cantava
solo ai giorni di festa:
cantava tardi sempre in aria mesta
e piano, che parea povera schiava.
Mi giungevano incerte le parole
come vedevo sempre incerto il sole.

Ma Primavera affretta,
per ogni dito offre una violetta:
presto l'avrà per ogni suo capello,
e 'l cielo incanterà solo a vederlo.

Soffio di Primavera,
piccol'ala leggera
che volteggi nell'aria e non ti posi,
posati su quei labbri armoniosi.

Oh! lo saprò quel giorno
del tuo vero ritorno,
o languida terribil Primavera:
dall'alba canterà fino alla sera;
e il giorno dopo a compiere l'incanto,
ecco il muro fra noi scomparso, infranto!

(Da "Canti di vita", Treves, Milano 1910)





IL MURO
di Térésah (Teresa Ubertis, 1877-1964)

Pietra su pietra inesorabilmente
il muro crebbe. Lontanava il cielo;
non fu più che una striscia alta e sottile...
(pietra su pietra!)... e sparve da la mente.
Ella piegava, illanguidito stelo
di giovinezza inferma. E battè Aprile
inutilmente a l'algida vetrata.

Fuori cresceva l'opra inesorata.
S'aderse il muro tenebroso a l'alto:
ella non seppe mai quanto! Pensava
il color delle stelle e la vetrata
scossa da i venti liberi a l'assalto.
Sola una fonte da la pietra cava
gemeva il pianto delle antiche cose.

Sole e gementi, suore dolorose.
Nell'ombra eguale i matutini albori
e le lucide sere ebbero aspetto
eguale: cieli soffusi di rose
vissero, cieli gonfi di bagliori...
Ella seppe soltanto il buio eretto
nemico tra il suo capo umile e il sole.

Sussurrava indicibili parole:
udìa crescere l'erba a' piè del muro,
sognava il muschio verde su la pietra.
Sognò vive, lanciate incontro al sole,
ghirlande di rosai: vide l'oscuro
nemico vinto... E singhiozzava tetra
la fonte, eco del suo trepido cuore.

Poi ch'estate languì nel dolce ardore
de' suoi roseti, a consolar l'inferma
ne trapiantammo a piè del muro fosco.
Ella scordava il tremulo splendore
degli astri... Ma non fu simile a un'erma
bianca, nel verde! il profumato bosco
non ebbe intorno. O dolorosa, ave.

Nell'ora della morte, umile e grave
parlò dell'invincibile nemico:
io raccolsi il suo fato. Ella è dispersa 
forse nei venti, cenere soave.
Ma ancor si scaglia il suo dolore antico
incontro al sole, inesorato. Versa
la fonte goccia a goccia il suo compianto

simile a un'eco di lontano pianto.

(Da "Nova lyrica", Roux & Viarengo, Torino-Roma 1904)