domenica 28 settembre 2025

Riviste: "Flegrea"

 Flegrea è il titolo di una rivista letteraria napoletana fondata e diretta da Riccardo Forster nel 1899. L'intento del fondatore e dei suoi collaboratori (tra gli altri vi furono Giovanni Pascoli, Matilde Serao, Federico De Roberto, Ugo Ojetti, Diego Angeli e Luigi Capuana) era di poter gareggiare con altre, prestigiose riviste italiane nate proprio negli ultimi anni del XIX secolo. Nelle pagine di Flegrea non c'era solamente la letteratura: furono infatti pubblicati molti articoli inerenti all'archeologia, alla storiografia, alla filosofia e all'arte in generale. Purtroppo la rivista ebbe breve vita, visto che l'ultimo numero uscì appena tre anni dopo la sua nascita. Ecco, infine, tre poesie pubblicate in Flegrea.







LA VERITÀ

di Domenico Tumiati (1874-1943)


Il Romito guardandomi, sorrise.

Le mie parole gli giungeano, come

intorno a fermo scoglio vane spume.

Le cose della vita, e il fare e il dire,

fluttuavano innanzi a le sue fise

pupille, come piume

nel vento, o foglie secche per il fiume.


E un solo verbo usciva dal suo labbro

- Essere -: d'ogni cosa egli vedeva

la pura essenza. E l'albero su cui

posava il braccio, niun odore a lui

niuna voce moveva.


Mi chiesi allora: sogna forse e dorme

il suo spirito? o sono le parole

mie di un dormente?

Chi di noi che sul monte siamo, desto

è veramente?


Giù a valle tintinniva

invisibile un gregge,

invisibile, e pure a me vivace:

e l'albero fluiva,

imago trasparente,

de la corrente ne la fresca pace.


Tutte le cose assorte

erano, come in sogno, ne l'attesa

di una Vita sospesa.

E palpito di Vita era ogni morte.


(da «Flegrea», 5 marzo 1899)





NOTTURNO

di Adolfo De Bosis (1863-1924)


Cantano rosignoli entro laureti,

ne l'albor siderale. A cento a cento

effondon sotto i chiari occhi d'argento

nembi di note ai languidi roseti:

E il mondo dorme ne l'incantamento.


Palpitano le stelle armoniosa

mente (un divino brivido le assale?)

E d'amor canta per la musicale

notte un'Anima... Tu, misteriosa

Anima solitaria, universale!


Nubi d'effluvii navigano lente

come musiche sotto aperti cieli.

Ne l'alto angeli erranti, èsili veli,

ali di sogni passano repente?

Spiriti vanno, a ignote altezze, aneli,


Odi! Ogni luce, ogni alito, ogni fronda

mesce sua nota al numeroso coro.

A quando a quando un fremito sonoro

scuote la pace mistica e profonda...

Trema il Silenzio in suoi tintinni d'oro.


Notte, cui li astri ingemman di ghirlande.

l'alto zaffiro de l'olimpica urna!

a contener l'ebrietà notturna

altro vase si porge, assai più grande...

Il mio cuore mortale, o Taciturna!


Il mio cuore mortal tutti riceve

gl'in te diffusi spiriti lucenti.

E a l'orlo del mio cuor, prona, con lenti

sorsi, l'eterna sitibonda beve

Anima de le cose conviventi...


(da «Flegrea», 20 marzo 1899)





CHIESA ABBANDONATA

di Francesco Pastonchi (1874-1953)


Al primo entrar nell'ombra, la deserta

Chiesa mi parve quasi una prigione;

Vi soffiava la sizza del burrone

Per una finestretta semiaperta.


Guardai rabbrividendo e nell'incerta

Luce non vidi che una scialba icone

Sull'altare, fra due lampe d'ottone,

E un vaso per la floreale offerta.


Null'altro. Quanta desolata pace

Dentro e d'intorno! Non un grido ai venti

Rapido, non di suoni eco fugace.


Unica prece, o Vergine, le chiare

Infaticate voci dei torrenti

Udivi tu dallo spogliato altare.


San Gottardo.


(da «Flegrea», 20 ottobre 1900)

domenica 21 settembre 2025

Grido verso gioie fuggenti

 Ma tutti gli altri hanno i corpi, la voluttà della carne, 

l'intimità, l'eleganza, l'ebbrezza dolce che acceca:

io solo, io solo mi macero, in impossibili sogni!

Il cuore palpita a rompersi, verso l’ignoto piacere.

Settembre! Limpidi soli! Un vento dolce stormisce 

dentro le frasche ingiallite dei pergolati: sussurra...

Parla di gioie fuggenti con l’ora breve. Il tramonto

è un vasto incendio diffuso. I colli avvampano d’oro.

La valle in ombra discende incontro al piano: un leggero 

vapore aleggia sui boschi rossicci... Oh strette convulse 

di seni floridi, labbra premute in molli abbandoni! 

occhi lucenti sbarrati di voluttà sotto i cieli 

che si scolorano, brividi sotto la sera cadente: 

estreme gioie morenti nel riso estremo dell'anno!

Vivono. Io sogno. Quel bene mi fu negato: la sorte

mi fece a ebbrezze più grandi: ma non ne avea per me il mondo.

O sorte! ch'io non invidii, ch’io non rimpianga qui un giorno 

queste lor facili gioie, i loro miseri cuori!





COMMENTO

Grido verso gioie fuggenti è il titolo di una poesia di Enrico Thovez (Torino 1869 - ivi 1925), che si trova alla pagina 50 del volume Il poema dell'adolescenza, pubblicato dall'editore Streglio di Torino nel 1901. La medesima lirica si può leggere con qualche modifica alla punteggiatura nella 2° edizione della raccolta, questa volta edita dalla casa editrice Treves di Milano nel 1924, e nella ristampa di quest'ultima, proposta dalla Einaudi di Torino nel 1979 (da qui la foto sopra). L'uscita di questo libro, agli albori del XX secolo, rappresentò un vero e proprio caso in Italia; Thovez infatti, praticò un tipo di poesia che allora nel nostro paese praticamente non esisteva. Da una parte, lo scrittore torinese ebbe ben presente la lirica di Walt Whitman (1819-1892), con versi lunghi che tendono alla prosa; dall'altra, ebbe in considerazione la "poesia perenne": quella che comprende gli antichi greci e i più grandi poeti di tutti i tempi. Non vi era alcuna traccia, apparentemente, del modus operandi in voga durante quegli anni: nessuna somiglianza coi versi di Carducci, Pascoli e D'Annunzio, e neppure con quelli dei decadenti e dei simbolisti francesi. Volendo ora tornare a parlare specificatamente della poesia sopra riportata, risulta lampante che il poeta intende fare una netta distinzione tra sé e il resto dell'umanità; il "ma" del primo verso, sta ad indicare già una differenza sostanziale: gli altri posseggono solamente dei corpi, e si dedicano essenzialmente ai piaceri fisici; il poeta, oltre al corpo ovviamente, possiede un'anima che lo spinge verso altre aspirazioni, meno concrete ma certamente più nobili. Thovez scrisse questa poesia in settembre, probabilmente dopo una giornata festiva trascorsa in completo relax, magari passeggiando; in questo suo vagabondare, rimase fortemente attratto dai paesaggi quasi autunnali che lo circondavano, ma nello stesso tempo ebbe la percezione di una irrimediabile solitudine, soprattutto guardando e ascoltando gli esseri umani incontrati durante il suo errare (in genere coppie che amoreggiavano). Da questa visione nascono nel poeta una serie di meditazioni, riguardanti sé stesso e tutti gli altri: si rende conto che a lui fu negata quell'ebbrezza, quella voluttà della carne che è fondamentale per il resto dell'umanità; è conscio del fatto che il suo spirito (o più banalmente il suo cervello) lo spinge verso altri piaceri, che non sono fisici bensì intellettuali; egli si nutre di sogni e di fantasie, non riesce a vivere in maniera differente. Infine, si accorge che questo suo stato di isolamento dal resto dell'umanità gli procura una sofferenza, perché si sente del tutto escluso dalla vita reale e anche materiale. Si sforza perciò di allontanare da sé ogni sorta d'invidia per il suo prossimo, e di non avere alcun rimpianto per una vita evidentemente priva di gioie facili, poiché la sua diversità, e anche la sua sofferenza interiore, sono chiaro segno di superiorità intellettiva e spirituale. 


domenica 14 settembre 2025

Il rosso nella poesia italiana decadente e simbolista

 Al colore rosso nei versi dei poeti italiani decadenti e simbolisti ho dedicato un post a se stante per il semplice fatto che, tra tutti i colori, è, insieme al bianco, uno dei più ricorrenti. Spesso simboleggia vizi e sentimenti negativi, come ad esempio ben dimostrano le due poesie - presenti nell’elenco sottostante - di Corrado Govoni: nella prima, il poeta emiliano enumera e associa al color rosso una serie di elementi che hanno a che vedere con la forza, il vizio e la vita strabordante; nella seconda descrive gli inquietanti oggetti presenti in una camera dai muri tinti di rosso, ponendoli in contrasto con una figura femminile “bianca”. E inquietanti nonché spaventosi sono i pensieri di chi osserva le acque rosse di mari e laghi, così stranamente tinti nei versi rispettivamente di Palazzeschi e Mastri. Lucini parla invece di un “regno rosso” dove si alternano immagini di bimbi, di donne e di guerrieri, il tutto in un’atmosfera decisamente inquietante. Casalinuovo invece pone in evidenza una “macchia rossa” sul pavimento di una piccola chiesa, situata proprio ai piedi di un grande crocifisso; tale macchia è indelebile, e più si tenta di farla sparire, più si ravviva; sta lì da quando un empio ebbe il cuore lacerato esattamente in quel preciso punto: “e resta sul sacrato quale scempio / della fede di Cristo e della vita”.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Giuseppe Casalinuovo: "La macchia rossa" in "La lampada del poeta" (1929).

Girolamo Comi: "Il petalo rosso" in "Lampadario" (1912).

Sergio Corazzini: "Il cuore e la pioggia" in "L'amaro calice" (1905).

Corrado Govoni "Il rosso" in "Gli aborti" (1907).

Corrado Govoni: "Camera rossa" in "Poesie elettriche" (1911).

Gian Pietro Lucini: "Il regno rosso" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).

Tito Marrone: "Sonetto roggio" in "Cesellature" (1899).

Pietro Mastri: "Il lago rosso" in "L'arcobaleno" (1900)

Aldo Palazzeschi: "Mar Rosso" e "Il Frate Rosso" in "Poemi" (1909).

Diego Valeri: "Croda rossa" in "Ariele" (1924).

Remigio Zena: "Ballata d'un prete scagnozzo" in "Le Pellegrine" (1894).

 

 

Testi

 

IL ROSSO

di Corrado Govoni

 

Epifania eroica. Baldoria

di carne di vestali ignude: vini

di rose dionisiache in festini

licenziosi. Tamburi di vittoria.

 

Trombe d'Apocalissi. Fiammea gloria

di gran bandiere. Tragici rubini

d'else di stocchi. Note di cantini

Incendio d'oro. Indice della storia.

 

Spada dell'angelo castigatore.

Aurora. Forza. Sangue di martirio.

Vita. Pollice verso dell'amore.

 

Inni di gioia. Inebrianti incensi.

Riso. Vulcani. Roghi di delirio.

Lussuria, rossa autodafé dei sensi.

 

(da "Gli aborti", Taddei, Ferrara 1907, p. 89)

 

 

 

 

MAR ROSSO

di Aldo Palazzeschi

 

Non è un ampissimo mare,

si vedono bene i confini e i contorni,

la forma che à, à forma di cuore.

Son l'acque d'un rosso assai cupo,

ma vivo, fremente.

Non à questo mare né onde né flutti,

ma à nell'ammasso uniforme

dei palpiti forti, ineguali,

s'abbassa e s'innalza,

s'espande o comprime.

Padrone del mare,

è un giovine Principe,

biondo, bellissimo.

In piedi alla prua d'una lancia

egli vive girando il suo mare.

Padrone assoluto, egli gira

traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi.

La punta acutissima

di quella terribile lancia

trafigge, trapassa, trafora

l'ammasso rossastro dell'acque,

ne balzano alti gli spruzzi,

in gorghi ed in fiotti

s'innalzano l'acque al passare

di quella terribile lancia.

Il Principe, in piedi, impassibile,

neanche un istante

rallenta il suo corso,

neppure uno spruzzo lo bagna,

la veste sua bianca

non porta neppure un puntino

del rosso dell'acque.

Padrone assoluto, egli gira

traversa percorre ineguale

in tutti i possibili sensi il suo mare,

diritto alla prua della lancia

terribile, biondo, bellissimo.

Un gemito, un fremito,

che sembra l'affanno

d'eterno ed uguale dolore,

vien su da quel mare

che à forma di cuore.

 

(da "Poemi", Stab. Tip. Aldino, Firenze 1909, pp. 29-30)


Georges Lacombe, "La forêt au sol rouge"
(da questa pagina Web)


 

 

domenica 7 settembre 2025

Antologie: "Lirici del Novecento"

 Lirici del Novecento è il titolo di un'antologia scolastica curata da Salvino Chierghin (1901-1968) e pubblicata per la prima volta dalla Società Editrice Internazionale di Torino nel 1960. Il volume che posseggo e di cui voglio brevemente parlare fu stampato nel 1967. La struttura dell'opera libraria in questione è così impostata: una Premessa seguita da una Introduzione del curatore; la parte prettamente antologica che si avvale delle seguenti sezioni (ciascuna preceduta da un "proemio"): I CREPUSCOLARI - I FUTURISTI - VOCIANI E RONDISTI - GLI ERMETICI - VOCI VARIE - VOCI NUOVE; l'indice dei nomi dei poeti e quello generale. Da aggiungere che per ogni poeta qui presente il curatore ha scritto una breve presentazione seguita da alcune notizie biobibliografiche. Volendo ora analizzare sommariamente il contenuto di questa antologia, mi pare opportuno iniziare dalla Premessa, di cui riporto un breve frammento iniziale che mi sembra spieghi bene l'intento del curatore.


In questa antologia della lirica del Novecento non si pretende di avere ospitato tutti quanti pur meritavano di venire introdotti con qualche loro saggio; e né pure si ha l'ambizione di avere colto ogni poeta nella sua voce più ferma e più alta; ma sì in uno sgorgo canoro, che per avventura rivelasse le note più piene del suo canto, o - per lo meno - i suoi accordi meno effimeri e precari, i meno provvisori o eventuali incontri.  

[...] Comunque questa antologia ha la speranza di aver tracciato un panorama sufficientemente comprensivo dello sviluppo della lirica nostra attraverso le più significative correnti letterarie, dalle quali di volta in volta prese l'avvio, indicando quei comportamenti dov'era imprigionata o liberata nel canto quell'inquietudine spirituale, che è alle radici del nostro vivere quotidiano e che ansiosamente anela, anche senza parere, alla luce e al conforto della poesia. [...]¹


Ora, a proposito di correnti letterarie - citate dal curatore stesso - risulta evidente che ci sia qualche inesattezza; infatti, tra gli "ermetici", se può essere giustificata la presenza di Dino Campana, perché a detta di molti critici ne fu un anticipatore della corrente poetica, lo stesso discorso non può assolutamente valere per Umberto Saba: poeta che non ha mai neppure sfiorato l'ermetismo. Nella sezione intitolata "Voci nuove" invece, figurano poeti come Luigi Fallacara, Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto, che avrebbero potuto e forse dovuto trovar posto tra gli ermetici. Non sono inclusi i poeti dialettali e, seguendo gli schemi adottati già da alcune antologie risalenti al primissimo dopoguerra, in una sezione vengono raggruppati una serie di poeti molto diversi fra loro, la cui massima parte si rifà ad un gusto ottocentesco; inspiegabile però è che tra simili poeti si trovi anche il nome di Clemente Rebora: uno scrittore che fu assai vicino ai cosiddetti vociani (tra l'altro nel libro c'è una sezione intitolata per l'appunto "Vociani e rondisti", in cui il poeta lombardo poteva essere senz'altro inserito). Per il resto - a parte qualche esclusione ingiusta - si può affermare che Lirici del Novecento sia una discreta antologia, che ben riassume il meglio della produzione poetica italiana dall'inizio del XX secolo agli anni '50. Chiudo, come sempre, riportando i nomi dei poeti antologizzati, divisi per sezioni. 





LIRICI DEL NOVECENTO


I CREPUSCOLARI

Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Marino Moretti.


I FUTURISTI

Filippo Tommaso Marinetti, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi.


VOCIANI E RONDISTI

Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Vincenzo Cardarelli, Camillo Sbarbaro, Riccardo Bacchelli.


GLI ERMETICI

Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba.


VOCI VARIE

Alfredo Baccelli, Angiolo Silvio Novaro, Pietro Mastri, Ada Negri, Giovanni Cena, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Francesco Pastonchi, Francesco Gaeta, Clemente Rebora, Diego Valeri, Lionello Fiumi.


VOCI NUOVE

Arturo Onofri, Luigi Fallacara, Ugo Betti, Carlo Betocchi, Sandro Penna, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto.



NOTE

1) da Lirici del Novecento, SEI, Torino 1967, pp. V-VI.

sabato 30 agosto 2025

Poeti dimenticati: Alberto Tarchiani

 Nacque a Roma nel 1885 e ivi morì nel 1964. Dopo i giovanili interessi per la letteratura, si dedicò alla politica. Convinto interventista, si arruolò volontariamente e partecipò ai combattimenti nella Prima Guerra Mondiale. Divenne redattore del Corriere della Sera a partire dal 1919; la sua ferrea opposizione al regime fascista lo costrinse ad abbandonare l'Italia. Fu uno dei cofondatori del movimento Giustizia e Libertà, che abbandonò in seguito all'assassino dei fratelli Rosselli. Visse poi negli Stati Uniti, fino al 1943. Divenne quindi Ministro dei Lavori Pubblici nel secondo gabinetto Badoglio, tra l'aprile e il giugno del 1944. Finita la guerra, fu nominato ambasciatore a Washington, e nella capitale degli Stati Uniti ricoprì tale incarico per dieci anni. Come si può dedurre dalla biografia del Tarchiani, l'attività letteraria - e in particolare quella poetica - risulta assai marginale; eppure, l'unico volumetto di versi (intitolato Piccolo libro inutile), pubblicato a poco più di venti anni insieme all'amico Sergio Corazzini, è ancora oggi ricordato. Certamente, le sue dieci poesie ivi presenti non possono competere con quelle del Corazzini, malgrado ciò, più di un critico autorevole ebbe delle buone parole nei suoi confronti. I versi del Tarchiani - soprattutto sonetti - rispecchiano le mode dei tempi in cui furono pubblicati; si possono rintracciare delle caratteristiche tali da poter affermare che furono Pascoli e Maeterlinck i poeti a cui s'ispirò il futuro diplomatico romano. Vi sono però anche tracce di crepuscolarismo: scuola poetica di cui Corazzini può essere ben definito il massimo esponente.  



Opere poetiche

"Piccolo libro inutile" (con S. Corazzini), Tipografia operaia romana, Roma 1906.





Testi


MATTUTINO


                                                               Alla signora E. T. F.

Alberello, sul fianco del giardino,

chiaro gemmante, in esil vita, sali:

solitario, nel turbine dell'ali 

dei rondinotti, lampi di turchino.


Ondeggi (alba sorride) in un divino

soffio di canti e fremi di carnali

brividi; calan dal cielo eguali

sole e rugiada in velo oltremarino.


E li sento pur io sulle mie ciglia,

e tra i capelli e sulla mano stretta

alla ringhiera molle dell'altana.


Tremi? Che romba? Nulla, una campana,

piccola voce; l'odi? Ora s'affretta;

alla preghiera anime consiglia.



Ma primavera occhieggia in tra le fronde

dolce alberello, e presto fiorirai;

traboccheranno gl'intimi rosai,

per i cancelli, sulle teste bionde.


Risa di bimbi, pigoli di gronde,

spole nell'aria, trilli d'arcolai;

frescura all'alba e a sera ti godrai,

languor di vene, suon d'acque profonde.


E notti passeranno senza brame

su te fiorito e stelle senza velo:

e verrà il fuoco ad assetare il fonte.


E l'autunno (tristezza delle rame!)

colmerà del suo sangue terra e cielo:

l'inverno bianco scenderà dal monte.



Non tremar ché, sul mondo, il male e il bene

passan veloci, brividi di morte;

e gelo e vampa, cupa alterna sorte

sospinge contra a noi lente carene.


Invano gemme d'oro e vento lene

pregherai nelle mute veglie assorte,

se propizia stagione le sue porte

serri ché l'altra aliando viene.


Supplicar solo puoi la dea fortuna

ché, a primavera, in tempo di fiorita,

ti recida soave, come un giglio.


Io chiesi all'alba questa grazia ed una

divina voce or mi risponde: figlio,

cantando s'infuturi la tua vita.


(da "Piccolo libro inutile", Tipografia Operaia Romana, Roma 1906, pp. 50-52)

domenica 24 agosto 2025

La poesia di Tito Marrone

 Tito Marrone (pseudonimo di Sebastiano Amedeo Marrone, Trapani 1882 - Roma 1967) è sempre stato un poeta sottostimato; tra i motivi che possono essere facilmente individuati di questa trascuratezza da parte degli addetti ai lavori e del pubblico della poesia, ci sono una personalità decisamente schiva e la decisione irrevocabile di scomparire totalmente dalle scene letterarie per più di un quarantennio. Eppure, come diversi critici hanno affermato, la sua importanza, soprattutto nell'ambito della nascita della cosiddetta poesia crepuscolare, risultano evidenti. Fu Marrone, infatti, ad ispirare più di una tematica cara a poeti come Corazzini e Govoni, quando, nei primissimi anni del XX secolo, lo scrittore trapanese aveva già al suo attivo diverse pubblicazioni di volumi e volumetti. Già nella raccolta Cesellature, data alle stampe quando Marrone era appena diciassettenne, si notano alcune peculiarità che diverranno basilari per la poesia crepuscolare, individuabili in un senso di vaga mestizia e di grigiore. Ma qui, come nelle successive due raccoltine: Le gemme e gli spettri e Le rime del commiato (entrambe uscite agli albori del nuovo secolo) si rintracciano anche diversi elementi che fanno del nostro un rilevante seguace della poesia simbolista. Poi, proseguendo l'analisi della breve carriera poetica di Marrone, arrivano le Liriche, che vennero pubblicate nello stesso anno - il 1904 - in cui debuttò Sergio Corazzini con la raccolta intitolata Dolcezze. Anche in questo caso, è facile trovare elementi comuni con i crepuscolari, come il rimpianto per l'età infantile e la descrizione di certe atmosfere languide, tipiche della stagione autunnale. Infine, le Carnascialate e i Poemi provinciali, due gruppi di poesie che non comparvero mai in volumi, ma che rappresentano un punto di arrivo di fondamentale importanza per la poesia di Marrone e non solo; in questi versi, che furono comunque pubblicati in riviste e giornali tra il 1905 ed il 1908, riaffiorano i temi prettamente crepuscolari, arricchiti da ulteriori caratteristiche, rifacentesi alle maschere carnevalesche e alle favole più o meno famose. Poi il lunghissimo silenzio di un poeta che probabilmente non riuscì a riprendersi completamente da un grave lutto che lo colpì. Ma, nel 1950, finalmente Marrone tornò a calcare le scene della poesia, pubblicando una memorabile, ultima raccolta intitolata Esilio della mia vita. Come ben spiega il titolo, i temi delle liriche ivi presenti sono strettamente collegati all'allontanamento volontario del poeta dal mondo letterario e non solo; in questi versi Marrone parla soprattutto di sé stesso, della sua solitudine, dei suoi stati d'animo e anche del suo passato; lo fa in modo coinvolgente, e risulta facile per il lettore percepire la spontaneità, il dolore e a volte l'amore dell'uomo ormai anziano, che attende la fine come una sorta di "liberazione" (è anche il titolo di una poesia) da un mondo dove ormai non si ritrova più. Così si conclude la storia poetica di un grande poeta italiano del Novecento, e sarebbe ottima cosa pubblicare finalmente un volume che contenesse tutti i suoi versi, visto che oggi risulta pressoché impossibile reperirne le opere. Ecco infine l'elenco delle raccolte - comprese le postume - seguito da tre poesie del purtroppo dimenticato poeta trapanese.





Cesellature, Tip. Messina, Trapani 1899.

Le gemme e gli spettri, Scheme, Palermo 1901.

Le rime del commiato, Tip. Messina, Trapani 1901.

Liriche, Artero, Roma 1904.

Esilio della mia vita, Edizioni «Pagine Nuove», Roma 1950.

Antologia poetica, Guida, Napoli 1974.


Tito Marrone in un disegno di Eugen Drăguţescu




SOPRA UNA BIBBIA


Uomo che leggi: io sono il vero Libro,

e in me racchiudo quanto v'è d'eterno.

Dall'altissimo cielo all'imo inferno

tutto comprendo, e d'ogni nota vibro.


Passa l'anima tua dentro il mio cribro

e n'esce pura, come dall'inverno

la primavera; l'umile quaderno

d'ogni enorme volume ha più calibro.


Leggi. Se prona è l'anima tua, forse

il Canto della Resurrezione

libera la farà dalle sue morse:


ma dopo che s' è resa assai più trista,

sofferendo la Sacra Passione

nel Libro di Giovanni Evangelista.


(da "Liriche", Artero, Roma 1904, p. 16)





CRISALIDE


Nella tua casa c’è

la fame e lo squallore;

vicino alla tua porta senza cardini

per ore e ore

stagna il letame

che ammorba queste vie prive di sole. 

Ombre fosche balbettano 

tronche parole,

strisciando innanzi all’uscio ove il canario 

flauta mattina e sera al cielo immenso 

la sua canzon d’esilio.


Malinconia della prigione eterna!

Lo sai tu, lo sai tu, che cuci e logori 

stracci, nell’umido 

pozzo, e sorridi;

lo sai tu che lavori e non sospiri, 

e ti trascini per il labirinto 

delle viuzze luride, 

mentre di là c’è prateria montagna 

marina cielo!


Crisalide, se aprissi una mattina 

la prigione al tuo cuore, 

liberandoti, aerea farfalla, 

per le vie dell’amore?


(da «Poesia», Gennaio 1906)






FERMARE IL TEMPO


Con passo occulto,

i consunti giardini risalii

della tua scala, donna

d'un agosto lontano.

Alla porta, origliai. S'istupidivano

i muri nell'inerzia

del pomeriggio estivo.

Mi prese il canto

afono d'una secca lavandaia

che fustigava i panni

sul marmo sordo.

Tu non c'eri: e picchiai,

dopo gli atroci secoli

che dividono il vecchio

dal suo fuggente amore.

Tacque la voce. Un urlo

di silenzio. Discesi

come ladro i gradini

e mi perdetti ancora

nell'anonimo sole.


(da "Esilio della mia vita", Edizioni «Pagine Nuove», Roma 1950, p. 108)







domenica 17 agosto 2025

Le porte in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

 Le porte, nel linguaggio di tutti i giorni, sono spesso usate in senso lato, con riferimenti più o meno espliciti a determinati passaggi allegorici che possono presentarsi liberi o bloccati, a seconda che tali porte si presentino chiuse oppure aperte. Gran parte delle poesie che ho trascritto di seguito, fanno riferimento a porte "simboliche": si citano per l'appunto quelle dei cieli, che si trovano nel passaggio tra la vita e la morte; quelle dell'amore, che permettono a chi ne fa uso di vivere in sintonia con l'intero universo; quelle della vita, che ciascuno di noi decide di aprire quando e come vuole, ad una persona che ritiene degna, perché in lei ha fiducia; quelle del mondo, che ci permettono di vivere liberamente in qualsiasi luogo della terra (quest'ultime però, sono ben lungi dall'essere tutte aperte). Le porte di questi poeti si aprono o si chiudono a seconda delle diverse situazioni; parlano o addirittura emettono suoni che somigliano ad una vera e propria musica. Insomma, ancora una volta si assiste ad una serie di fantasiosi racconti in versi, dove le porte la fanno da protagoniste.



LE PORTE IN 10 POESIE DI 10 POETI ITALIANI DEL XX SECOLO



SI APRE UNA PORTA

di Antonio Chiarelotto (1908-1996)


Si apre una porta laggiù

dove il viale s'affretta

e rincorre la siepe

che muore di rose.


L'ardente stagione

invade ancora

remote stanze,

e sulle alte pareti si scagliano

i roghi del sole.


Canzoni incendiano

istanti rapidi di vita

e t'illudi vestire

la tunica bella.


Si apre una porta…

non dite che ad essa invano ritorno,

che il grido è perduto,

non dite che tutto scolora

sull'umida soglia

al morir delle rose, laggiù.


[da "Poesie (1937-1955)", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1986, p. 47]





LA PORTA DEI CIELI

di Alberto Frattini (1922-2007)


Qui è la porta dei cieli. Nel tramonto

i cipressi già additano le stelle.

Il cimitero è un tremito di lucciole.

In pace, padre, riposi il tuo spirito.

Nella memoria del sangue la pietra

che sigilla il cammino dei tuoi giorni

ora si scioglie in questa chiara pace:

come punta d'un esile cipresso

dolcemente m'incurvo sul tuo estremo

sonno, a farmi silenzio di preghiera.

Né il lamento dei treni ora più turba

la tua quiete, che odora di mimose.

Da qui all'eterno il tuo segreto è in fiore.


(da "Arcana spirale: poesie 1943-1992", Sciascia, Caltanissetta 1994, p. 47)





PORTA D'AMORE

di Margherita Guidacci (1921-1992)


Il mio amore che nasce

in te, non finisce

in te. Sei la porta d'amore

attraverso cui passo

incontro all'universo, tendendo a tutto le braccia.


Sei la mia libertà, che oltre la diga spezzata

riversa le acque trionfanti -

ed apre tutte le gabbie, le vuota in un attimo,

empiendo il cielo di migliaia di uccelli

che non si lasceranno mai più imprigionare.


(da "Le poesie", Le Lettere, Firenze 1999, p. 347)





LA PORTA SI CHIUDE MODULANDO

di Valerio Magrelli


La porta si chiude modulando

nei cardini il suono del corno.

È il canto della notte

l’armonia che giaceva

ignorata nel legno.

Chiunque passando provoca

la musica sepolta, che ogni volta

riaffiora diseguale.

Forse un linguaggio ne governa

i termini e le misure, forse il caso.

Il discreto disegno

della ruggine e dell’acqua

narra la segreta epopea della soglia.


[da "Poesie (1980-1992) e altre poesie", Einaudi, Torino 1996, p. 27]





PORTA CHE PARLA

di Marino Moretti (1885-1979)


Io ho amato le porte aperte o chiuse

come interruzioni di pareti:

nei miei fondi segreti

nessuna mi fu avversa e mi deluse.

E questa della mia stanza romita,

s'apra oppure si chiuda,

ha una voce discordante e cruda,

anche un lamento che al disagio invita.


È un difetto del legno o dell'arpione

o della mia vecchiezza?

La porta parla, gracida, disprezza

con l'astio della mia lunga stagione?

Porta che non puoi essere gentile,

effonderti in saluti,

chiamo un fabbro che i tuoi cardini muti?

Non sarò così dolce e così vile.


(da "In verso e in prosa", Mondadori, Milano 1987, p. 86)





LA PORTA

di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani, 1885-1974)


Davanti alla mia porta

si fermano i passanti per guardare,

taluno a mormorare:

«là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai».

Povera porta mia!

Grande portone oscuro,

trapunto da tanti grossissimi chiodi,

il frusciare più non odi

di sete a te davanti.

Dagli enormi battenti di ferro battuto,

che nessuno batte più,

nessuno ha più battuto

da tanto tempo.

Rosicchiata dai tarli,

ricoperta dalle tele dei ragni,

nessun ti aprì da anni ed anni,

nessun ti spolverò,

nessun ti fece un po' di toeletta.

La gente passa e guarda,

si ferma a mormorare:

«là, dentro quella casa,

la gente è tutta morta,

non s'apre mai quella porta,

mai mai mai».


(da "Poesie", Preda, Milano 1930, pp. 18-19)





LE PORTE DEL MONDO NON SANNO

di Sandro Penna (1906-1977)


Le porte del mondo non sanno

che fuori la pioggia le cerca.

Le cerca. Le cerca. Paziente

si perde, ritorna. La luce

non sa della pioggia. La pioggia

non sa della luce. Le porte,

le porte del mondo son chiuse:

serrate alla pioggia,

serrate alla luce.


(da "Tutte le poesie", Edizione Club, Milano 1982, p. 77)





LA PORTA CHIUSA

di Salvatore Quasimodo (1901-1968)


Viandante, che trovasti chiusa

la porta della città straniera,

ch'era fiorita nella tua pupilla

come una serra di stelle,

torna alla piccola terra,

tagliata dal mare: lontana,

ma tanto vicina al tuo cuore.


Chiudi nell'ombra come in un sepolcro

i sogni d'infinite lontananze,

e statuario, re nel tuo rifugio,

scaccia dalla soglia immacolata

la porpora nova che copre l'antico cencioso,

ed apri la porta, solo, per tua madre.


La troverai all'angolo del tempio,

dove si fermano, a sera, i pezzenti malati

a chiedere limosina di sole;

fra i tisici, i lebbrosi,

i luetici dalle ossa slegate,

chiamala a gran voce:


una si leverà fra tanti,

e bacerai le piaghe dei suoi piedi.


(da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1995, p. 557)





PORTA

di Roberto Rebora (1910-1992)


Una gran porta di vapori

con spiragli ed angoli

di luce e buio

l'invito a passare

che lascia dentro o fuori

non so chi.


1986


(da "Parole cose", Scheiwiller, Milano 1987, p. 51)




LA PORTA

di Giuseppe Zucca (1887-1959)


Piccola, io t'ho aperta la porta

della mia vita, non appena tu,

stanca, ma certa, vi battesti su

        in quella prima sera

        con la tua palma leggera.

II resto che importa?


Piccola, io ho richiusa la porta

sùbito, dietro te, perdutamente

per non vedere, oltre di te, più niente.

        E tu, piccola, sai,

        tu non uscirne più mai.

Il resto che importa?


(da "Io", Formiggini, Roma 1919, p. 65)