I rumori, nei versi di questi poeti hanno diverse origini e variegate simbologie. La Aganoor, associa il suono delle sonagliere nel cuore della notte a pensieri “miti” e “mansueti” di “rinuncia”. Un rumore notturno è anche quello udito da Enrico Annibale Butti, seppure di diversa natura: il poeta infatti viene bruscamente svegliato da una sorta di sibilo; difficile è capire quale sia l’origine del rumore percepito dall’uomo, il quale si fa delle domande al riguardo, non trovando alcuna risposta. Notturni sono anche i passi del poeta Dino Campana, che cammina sulla prora di una nave e rimane quasi incantato dal ritmico battere delle sue scarpe sul pavimento dell’imbarcazione. Rimanendo in ambito notturno, inquietante a dir poco è il suono di un misterioso squillo di tromba udito dagli esseri umani di ogni parte del globo terrestre che, spaventati da quell’intenso e improvviso rumore si riversano sui campi e sulle strade cittadine in cerca dell’origine di quel suono che si perpetua in una notte infinita, e sembra annunciare la fine del mondo. Ancora la notte, e ancora dei rumori inquietanti sono i protagonisti della poesia di Satta, dove il poeta non può riposare perché infastidito e tormentato dal martellare continuo di un corvo su “rotte rupi”, così come dal ronzio ininterrotto del fuso che fila una parca: entrambi i rumori simboleggiano qualcosa di sinistro, forse le ossessioni che angustiano lo stesso poeta. Assillante, continuo e infinito è anche il rumore provocato dai colpi di un’accetta, proveniente dalla parte più profonda di un parco, presente nella poesia di Guelfo Civinini; ovviamente è misteriosa l’origine di questi colpi, anch’essi di valore simbolico. Il ronzio di un bombo che sbatte sul vetro esterno della finestra di una casa, diviene, nella poesia del Pascoli, qualcosa di particolarmente enigmatico: è come se l’insetto cercasse di entrare nell’abitazione del poeta, perché fortemente intenzionato a riferirgli una notizia importante, che lo riguarda direttamente; oppure nel bombo potrebbe essersi reincarnata una persona deceduta, cara al poeta, ansiosa di rimettersi in contatto con lui. Due tarli: uno reale ed uno simbolico, sono i protagonisti della poesia di Arturo Colautti; il primo è quello che erode il legno del vecchio letto che si trova nella casa dove vive, e dove vissero i suoi antenati; il secondo invece dimora nella testa del poeta, e scava anche lui – non il legno ma il cervello del malcapitato – che si affligge perché incerto sulla sincerità dell’amore dichiaratogli dalla donna che lui sa di amare alla follia.
Poesie sull’argomento
Vittoria Aganoor:
"Sonagliere" in "Nuove liriche" (1908).
Ugo Betti: "Il
cuore sepolto" in "Il Re pensieroso" (1922).
Enrico Annibale
Butti: "Sonno interrotto" in "Dai nostri poeti viventi"
(1903).
Dino Campana:
"Batte botte" in "Canti Orfici" (1914).
Enrico Cavacchioli:
"Rêverie" in "L'Incubo Velato" (1906).
Francesco Cazzamini
Mussi: "Veglia" in «Poesia», ottobre 1909.
Giovanni Alfredo
Cesareo: "Il campanello" in "Poesie" (1912).
Guelfo Civinini:
"L'accetta" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Arturo Colautti:
"Il tarlo" in "Canti virili" (1896).
Alessandro Giribaldi:
"Su l'alba" in "Canti del prigioniero e altre liriche"
(1940).
Arturo Graf: "Lo
squillo" in "Morgana" (1901).
Angiolo Orvieto:
"Selva e mare" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya"
(1898).
Aldo Palazzeschi:
"La ferita del silenzio" in "I cavalli bianchi" (1905).
Giovanni Pascoli:
"Il nunzio" in "Myricae" (1900).
Francesco Pastonchi:
"Tramontata è la luna" in "Il pilota dorme" (1913).
Antonio Rubino:
"Cavalcata" in «Poesia», ottobre 1908.
Sebastiano Satta:
"Notte tra i monti" in "Canti barbaricini" (1910).
Mario Venditti, "Notturno" in "Il terzetto" (1911).
Testi
LA FERITA DEL
SILENZIO
di Aldo Palazzeschi
Fa un lento romore
costante
la fonte ch'è sotto
l'arcata del ponte
che il monte riunisce
pel passo dei treni.
(da "I cavalli bianchi. Lanterna. Poemi", Empirìa, Roma 1996, p. 27)
di Antonio Rubino
Varca i cieli un
velario di festoni
straziato dal vento a
brano a brano:
in sui confini dei
settentrioni
rigurgita di nembi
l'uragano.
Le mostruose
conflagrazioni
covano un sordo
brontolio lontano:
flagella il vento gli
ermi torrioni
dell'erma rupe,
mugolando vano.
Ma un inno, un
corruscar d'armi lucenti,
vivi rompendo dai più
folti grembi,
pervadono il dominio
dei venti;
qual fremito di
trilli e di nitriti
corre, o Notte, la
tua chioma di nembi,
o Notte, o madre dei
cantanti miti?
(da «Poesia», ottobre
1908, p. 5)
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| Ferdinand Hodler," Holzfaeller" (da questa pagina Web) |

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