Dei mattini ricordo di più e più volentieri quelli liberi, ovvero quelli in cui non era obbligo andare a scuola o sul posto di lavoro. Naturalmente i più bei mattini sono stati quelli dell'infanzia, d'estate in special modo, quando la prima fase della giornata rappresentava il momento più entusiasmante. Ricordo anche i mattini invernali del periodo delle vacanze natalizie, allorché potevo godere della medesima libertà e spensieratezza, con, in aggiunta, la trepidazione provata per l'attesa di una festa che allora era di fondamentale importanza: il Natale. "Il mattino ha l'oro in bocca", recita un famoso proverbio... Ma, in verità, per me i mattini di oggi non solo non posseggono nulla di prezioso, ma trascorrono vuoti e noiosi.
SPUNTA IL MATTINO E L'ALBA È SCOLORATA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)
Spunta il mattino e l’alba è scolorata,
Sul salice novello
Il passero dall’ale
Si scote indolenzito la brinata,
Tace la valle e tacciono gli steli,
Fischiano i venti e le recenti gemme
Stillan di pioggia al ritornar de’ geli:
E intanto nel cespuglio e nel roveto
Un mesto fior si schiude,
Si schiude una viola.
La viola bruna - il fior di sepolcreto.
Oh che sì mesta fossi
Nel libro di lassù scritto non era,
Oh mattin di natura, o primavera!
Del quinto lustro appena
Dolorando così volo su l’ale,
E una cura profonda,
E un avido desire
Smanioso della tomba il cor mi assale,
Delle deserte stanze
Apro le imposte e miro
La sofferente natura,
E nell’appeso speglio,
Le disfatte sembianze,
Che il gelo del dolor strusse repente.
Pur gioventù mi arride e in ciel non eri
Certo così segnata
Di precoce vecchiezza,
O mattin della vita, o giovinezza!
Qual fato dunque, qual terribil fato
Ha le stabili leggi
Di natura mutato?
Stille di piaggia e gemme disseccate,
Poveri fior recisi,
Vergini volti e guancie giovinette
Di lacrime solcate...
Tale il mondo affatica e mi assecura
Di rapida rovina
Un’arcana sventura;
Né a te fu dato, a te, stagion novella,
D’intatti fiori ornarti;
Né a te di gioie assaporar l’ebbrezza,
O mattin della vita, o giovinezza!
(Da "Disjecta", 1879)
MATTUTINO
di Giovanni Marradi (1852-1922)
Buon giorno, o splendido sole dorato
Che alla mia camera fai capolino:
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino!
Finché dagl'incubi vieni a destarmi
Che la fantastica notte m'adduce,
E posso immergermi, purificarmi
In questo tepido bagno di luce,
Finché tu sfolgori sul mar che invano
Sferzan le collere del maestrale,
Finché dell'ampio consorzio umano
Sei democratico re liberale,
Finché sì splendido, sole dorato,
Alla mia camera fai capolino,
Sei sempre l'ospite ben arrivato,
Sole magnifico, sole divino.
(Da "Fantasie marine", 1881)
FIORI D'ARANCIO
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)
Era d'inverno un gelido mattino,
triste; pioveva, nol scorderò mai;
ed ella se ne stava a capo chino,
io fra i capelli i fiori le appuntai.
Poi surse; e mi baciò tutta radiosa,
bella, gentile, nel suo vel di sposa.
Fuori piovea, ma nelle luci care
di mia sorella il sol vidi brillare.
(Da "Pètali e lagrime", 1894)
SVEGLIANDOMI IL MATTINO, A VOLTE IO PROVO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)
Svegliandomi il mattino, a volte io provo
sì acuta ripugnanza a ritornare
in vita, che di cuore farei patto
in quell'istante stesso di morire.
Il risveglio m'è allora un altro nascere:
ché la mente lavata dall'oblio
e ritornata vergine nel sonno
s'affaccia all'esistenza curiosa.
Ma tosto a lei l'esperienza emerge,
come terra scemando la marea.
E così chiara allora le si scopre
l'irragionevolezza della vita,
che si rifiuta a vivere, vorrebbe
ributtarsi nel limbo dal quale esce.
Io sono in quel momento come
chi si risvegli sull'orlo d'un burrone,
e con le mani disperatamente
d'arretrare si forzi ma non possa.
Come il burrone m'empie di terrore
la disperata luce del mattino.
(Da "Pianissimo", 1914)
MATTINA
di Ardengo Soffici (1879-1964)
La luce non è che un mazzolino di fiori più sottili;
Un ronzìo di mosche d’oro e verdi il cielo.
Senza questo pardessus parigino si potrebbe ballare;
A tutti i piani c’è la musica come in paradiso.
Una signora vestita del tricolor dell’Italia nelle cromolitografie patriottiche
Evade verso l’oriente:
Jamais je ne voudrais être son chien!
Piuttosto piangere di tenerezza
Sul miracolo della gente che risuscita ogni giorno
In questo enigma universale, che piglia per un almanacco
E passa;
E passa con la tranquillità dei giovenchi,
Ah! noi moriremo per aver troppo adorato le cose da nulla.
L’aria d’anilina mi bagna come una camicia tuffata nel turchinetto.
Vedo tutto:
Il baccalà che esperimenta il Nirvana fiorito di pomodori nelle zangole azzurre;
L'ombre delle grondaie abbassate sugli occhi glauchi delle persiane;
Le ombre degli uomini che si sprofondano
Nella terra trasparente.
E a un tratto capisco questo assioma: Ogni nuova civiltà nasce dal riso dei bambini.
Il timpano del sole batte sullo specchio del parrucchiere
Per farmi sorridere;
Ma non si può che seguire in silenzio la freschezza delle ore.
(I miei capelli sono sinistri!)
(Da "Marsia e Apollo", 1938)
E ORA, IN QUESTE MATTINE
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)
E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai più rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole...
(Da "Poesie", 1942)
MATTINO D'ESTATE
di Diego Valeri (1887-1976)
Una immensa distesa
di vigne, ondata solo
da emergenti alberelli qua e là.
E, qua e là, la macchia rosso bruna
d’un tetto, accanto a quella
biondiccia d’un pagliaio.
Poi, lontano, una lunga fila d’esili
pioppi frondosi
contro il turchino pallido
delle dolci colline. Il cielo è un bianco
fulgore, appena appena
annebbiato d’azzurro;
il silenzio è spaccato dagli scoppi,
poi solcato dai lunghi rombi tremuli
di due campane gravi.
Io da questo balcone alto contemplo
lento passare il mattino d'estate
sul piano aperto e per il vano cielo;
e da tutte le cose a me venire
mi par non so che pianto,
non so che nuovo senso del morire.
Sento, come non mai,
che si stempra nel nulla la mia vita,
a giorno a giorno, inesorabilmente;
sento che tu mi manchi
ad ogni istante un poco,
o giovinezza, e che sarai domani
un pugnetto di cenere
dentro il mio cuore fioco.
Sento che allora la tristezza mia
sarà fatta più triste
dal ricordo di te, come più muto
fatto è questo silenzio dalla scia
lunga, di suono, delle due campane
che non cantano più.
(Da "Poesie vecchie e nuove", 1952)
MATTINO D’AUTUNNO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)
Un pallido sole che scotta
Come se avesse la febbre
E fa sternutire quando
La gioia d’esser giovani
E di passeggiare di mattina
Per i viali quasi deserti
È al colmo, illumina l’erba
Bagnata e la facciata rosa
Di un palazzo. Tutto è gioviale
Buongiorno e sereno, raffreddore
E mezza stagione. E Goethe
In mezzo alla piazza sorride.
(Da "Sirio", 1929)
I MATTINI PASSANO CHIARI
di Cesare Pavese (1908-1950)
I mattini passano chiari
e deserti. Così i tuoi occhi
s'aprivano un tempo. Il mattino
trascorreva lento, era un gorgo
d'immobile luce. Taceva.
Tu viva tacevi; le cose
vivevano sotto i tuoi occhi
(non pena non febbre non ombra)
come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino.
Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.
(Da "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", 1951)
MATTINO A ONEGLIA
di Cesare Vivaldi (1925-1999)
Stamattina a buonora mi risvegliano
le grida dei ragazzi entusiasmati
dai tuffi lungo il molo. Tutta Oneglia
sventola una marina di bucati
stesa avanti ai miei piedi, ed è ben sveglia
nel sole ogni finestra, insaponati
visi specchia; qualcuno unge una teglia
e vi dispone pesci infarinati.
Felicità d’esser vivi, e allegri
nel vento cogliere tutti gli odori
della città e del porto, la frittura,
il catrame che bolle. L’occhio ai negri
scafi dei lontanissimi vapori
si fissa. Come una nuova avventura.
(Da "Il cuore d'una volta", 1956)
LE SEI DEL MATTINO
di Vittorio Sereni (1913-1983)
Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un'aria e popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l'uno dopo l'altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.
(Da "Gli strumenti umani", 1965)
Scampoli di letteratura dell'Ottocento e del Novecento, poeti dimenticati, vecchie antologie e altro ancora.
domenica 24 agosto 2014
sabato 16 agosto 2014
Albe
L'alba oggi non mi suscita più alcuna emozione. Ma mi ricordo le albe vissute nel periodo dell'infanzia, soprattutto nei rari momenti, in estate, in cui già ero sveglio quando il sole si stava per affacciare nel cielo, e guardavo attraverso gli spiragli della finestra chiusa la prima luce apparire e divenire, a mano a mano, più intensa. Ero emozionato, meravigliato, trepidante in attesa di un nuovo, magnifico giorno che mi avrebbe proposto una moltitudine di cose esaltanti. Ma ricordo anche le albe dei giorni destinati alle partenze per la villeggiatura: la scoperta della città deserta e buia, i treni, le stazioni... e dentro di me un entusiasmo enorme, per un'avventura che mi immaginavo fantastica ma che spesso (troppo spesso) non si sarebbe rivelata tale.
Oggi, dicevo, l'alba non ha più un significato per me, e non rappresenta nulla, se non l'inizio di un nuovo, vuoto, squallido giorno.
ALBA FESTIVA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?
È un inno senza fine,
or d’oro, ora d’argento,
nell’ombre mattutine.
Con un dondolìo lento
implori, o voce d’oro,
nel cielo sonnolento.
Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla,
voce argentina — Adoro,
adoro — Dilla, dilla,
la nota d’oro — L’onda
pende dal ciel, tranquilla.
Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:
la voce della tomba.
(Da "Myricae", 1900)
ALL'ALBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)
All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.
Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo rattratto
come ugnello di gàzzera marina.
La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.
Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.
Livido si fuggì pel folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.
Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.
(Da "Alcyone", 1904)
L'ALBA
di Luisa Giaconi (1870-1908)
S'apre una pagina d'ambra
nel cielo, all'orlo del monte;
fioca sul nero orizzonte
l'ultima stella sparì.
E già per l'erto pineto
brucando il gregge si sperde,
piccoli punti fra il verde,
fiocchi di bianco qua e là...
Fremiti di foglie e d'acque
par che si sveglino a pena,
via via la luce s'insena
lenta nel bosco la giù.
L'ombra riprese i fantasmi
e riaccostò le sue porte;
di là, il silenzio, la morte,
il giorno dolce di qua;
il giorno, ch'è fra due notti,
come la vita nel nulla
che nel mistero ci culla;
un sogno anch'esso e non più.
(Da "Tebaide", 1912)
SU L'ALBA
di Alessandro Giribaldi (1874-1928)
Stanotte – su l'alba – dormivo
una fiorita di sogni...
Un sonno leggero; e sentivo
battere su la finestra.
Chi batte? Chi batte? Sei tu?
Sei tu, mia pensosa?
Sei tu (le tue dita di rosa?)
che vieni a trovarmi quassù?
Discesi - con gli occhi nel sogno –
dal letto, cercando su i vetri
l'amore... e il tuo volto.
Non c'eri. Mi posi in ascolto.
Ancora? Chi batte? Non c'eri...
Ma c'era un verdone, sperduto
anch'esso nell'ombra. – Che cerchi?
Rispose: ti porto un saluto.
Ti porto un sospiro, da lungi,
ti porto una lacrima, un bacio.
La vidi: guardava sul mare...
diceva: non giungi, non giungi?
(Da "I canti del prigioniero e altre liriche", 1940)
IMPRESSIONE DI SONNO
di Arturo Onofri (1885-1928)
Bere il tuo riposo fiorito, quando l'alba insinua per le imposte chiuse i suoi sottili coltelli di luce, assorbire il molle respiro della tua carne di rosa, il profumo degli abbandoni goduti, che all'angolo delle tue palpebre, come due petali stanchi, s'inumidiscono ancora della rugiada del sonno, esalato sulle tue ciglia dalla ninnananna del mare.
(Da "Orchestrine", 1917)
IO UN'ALBA GUARDAI IN CIELO
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Io un'alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d'ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d'occidente
e io seguìa un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angioli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(Da "Realtà vince il sogno", 1932)
LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)
All'alba entrai
in un piccolo cimitero.
Fu in un paese lontano
ai piedi di una torre grigia
senza più voce alcuna
di campane –
mentre ancora le nebbia
inargentava
le querce oscure,
le siepi alte,
l'erica
viola –
Nel piccolo cimitero
le pietre
volte all'Oriente
come in un riso
bianco
parevano visi di ciechi
che allineati marciassero
incontro al sole.
(Da "Parole", 1964)
ERANO GIORNI DIVINI
di Libero De Libero (1906-1981)
Con l'alba giungevi e me vecchio
d'attesa in giovane amore mutavi,
tanto orgoglio era d'intorno
quasi l'ombra d'un albero grande.
Erano giorni divini, e noi anche
divini per dolce consenso
dei prati davamo ragione
di canto alla gente. Ma il tempo
geloso di noi rapida sabbia
versò nel deserto crescente.
(Da "Romanzo", 1965)
COME È FORTE IL RUMORE DELL'ALBA
di Sandro Penna (1906-1977)
Come è forte il rumore dell'alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
(Da "Poesie", 1957)
L'ALBA AI VETRI
di Giorgio Bassani (1916-2000)
L'alba ai vetri, e la musica d'un piffero e un tamburo
udivo, là, la sua opaca, un po' ebbra allegria.
Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia,
tu che sopravvenivi, innocente futuro.
«Empio evo venuto che premi alle porte»
dicevo io, con lacrime più soavi che amare,
«dimentica il mio nome! Dicevo. E la tua, morte,
ebbra ancor m'assonnava melodia militare.
(Da "L'alba ai vetri", 1964)
Oggi, dicevo, l'alba non ha più un significato per me, e non rappresenta nulla, se non l'inizio di un nuovo, vuoto, squallido giorno.
ALBA FESTIVA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?
È un inno senza fine,
or d’oro, ora d’argento,
nell’ombre mattutine.
Con un dondolìo lento
implori, o voce d’oro,
nel cielo sonnolento.
Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla,
voce argentina — Adoro,
adoro — Dilla, dilla,
la nota d’oro — L’onda
pende dal ciel, tranquilla.
Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:
la voce della tomba.
(Da "Myricae", 1900)
ALL'ALBA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)
All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.
Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo rattratto
come ugnello di gàzzera marina.
La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.
Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.
Livido si fuggì pel folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.
Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.
(Da "Alcyone", 1904)
L'ALBA
di Luisa Giaconi (1870-1908)
S'apre una pagina d'ambra
nel cielo, all'orlo del monte;
fioca sul nero orizzonte
l'ultima stella sparì.
E già per l'erto pineto
brucando il gregge si sperde,
piccoli punti fra il verde,
fiocchi di bianco qua e là...
Fremiti di foglie e d'acque
par che si sveglino a pena,
via via la luce s'insena
lenta nel bosco la giù.
L'ombra riprese i fantasmi
e riaccostò le sue porte;
di là, il silenzio, la morte,
il giorno dolce di qua;
il giorno, ch'è fra due notti,
come la vita nel nulla
che nel mistero ci culla;
un sogno anch'esso e non più.
(Da "Tebaide", 1912)
SU L'ALBA
di Alessandro Giribaldi (1874-1928)
Stanotte – su l'alba – dormivo
una fiorita di sogni...
Un sonno leggero; e sentivo
battere su la finestra.
Chi batte? Chi batte? Sei tu?
Sei tu, mia pensosa?
Sei tu (le tue dita di rosa?)
che vieni a trovarmi quassù?
Discesi - con gli occhi nel sogno –
dal letto, cercando su i vetri
l'amore... e il tuo volto.
Non c'eri. Mi posi in ascolto.
Ancora? Chi batte? Non c'eri...
Ma c'era un verdone, sperduto
anch'esso nell'ombra. – Che cerchi?
Rispose: ti porto un saluto.
Ti porto un sospiro, da lungi,
ti porto una lacrima, un bacio.
La vidi: guardava sul mare...
diceva: non giungi, non giungi?
(Da "I canti del prigioniero e altre liriche", 1940)
IMPRESSIONE DI SONNO
di Arturo Onofri (1885-1928)
Bere il tuo riposo fiorito, quando l'alba insinua per le imposte chiuse i suoi sottili coltelli di luce, assorbire il molle respiro della tua carne di rosa, il profumo degli abbandoni goduti, che all'angolo delle tue palpebre, come due petali stanchi, s'inumidiscono ancora della rugiada del sonno, esalato sulle tue ciglia dalla ninnananna del mare.
(Da "Orchestrine", 1917)
IO UN'ALBA GUARDAI IN CIELO
di Carlo Betocchi (1899-1986)
Io un'alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d'ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d'occidente
e io seguìa un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angioli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(Da "Realtà vince il sogno", 1932)
LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)
All'alba entrai
in un piccolo cimitero.
Fu in un paese lontano
ai piedi di una torre grigia
senza più voce alcuna
di campane –
mentre ancora le nebbia
inargentava
le querce oscure,
le siepi alte,
l'erica
viola –
Nel piccolo cimitero
le pietre
volte all'Oriente
come in un riso
bianco
parevano visi di ciechi
che allineati marciassero
incontro al sole.
(Da "Parole", 1964)
ERANO GIORNI DIVINI
di Libero De Libero (1906-1981)
Con l'alba giungevi e me vecchio
d'attesa in giovane amore mutavi,
tanto orgoglio era d'intorno
quasi l'ombra d'un albero grande.
Erano giorni divini, e noi anche
divini per dolce consenso
dei prati davamo ragione
di canto alla gente. Ma il tempo
geloso di noi rapida sabbia
versò nel deserto crescente.
(Da "Romanzo", 1965)
COME È FORTE IL RUMORE DELL'ALBA
di Sandro Penna (1906-1977)
Come è forte il rumore dell'alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
(Da "Poesie", 1957)
L'ALBA AI VETRI
di Giorgio Bassani (1916-2000)
L'alba ai vetri, e la musica d'un piffero e un tamburo
udivo, là, la sua opaca, un po' ebbra allegria.
Non eri tu che tornavi, vita, tu, vita mia,
tu che sopravvenivi, innocente futuro.
«Empio evo venuto che premi alle porte»
dicevo io, con lacrime più soavi che amare,
«dimentica il mio nome! Dicevo. E la tua, morte,
ebbra ancor m'assonnava melodia militare.
(Da "L'alba ai vetri", 1964)
sabato 9 agosto 2014
Antologie: "Poesia italiana del Novecento" (Krumm - Rossi)
"Poesia italiana
del Novecento" è il titolo di un'antologia a cura di Ermanno Krumm e
Tiziano Rossi, pubblicata dall'editore Skira in Milano nel 1995. È un'opera
eccellente, che si avvale di una interessante prefazione del grande poeta
italiano Mario Luzi, e, per ciò che riguarda ogni poeta antologizzato, di
presentazioni molto appropriate, scritte, per la maggior parte, da poeti (tra i
quali sono compresi i curatori del volume). I nomi selezionati sono tanti ma
non tantissimi, in modo da poter affermare che, a parte alcuni poeti futuristi,
non ci sono grandi esclusioni. C'è poi da sottolineare il fatto che la scelta
dei poeti e delle raccolte si prolunga fino agli anni che segnano il limite del
XX secolo, sì da dare un quadro completo della poesia italiana novecentesca.
Viene così alla luce la netta differenza di valore tra i poeti della prima metà
del secolo da poco terminato, e quelli della seconda parte: un cinquantennio
quest'ultimo in cui hanno dominato nuove mode e nuovi sperimentalismi dietro ai
quali spesso si nascondeva una scarsa vena poetica; a mio parere tale argomento
andrebbe allargato anche ad altri settori artistici della storia del Novecento
non soltanto italiano. In chiusura ecco, diviso per sezioni, l'elenco dei poeti che compaiono in
"Poesia italiana del Novecento".
GLI INIZI
Corrado Govoni,
Sergio Corazzini, Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, Guido Gozzano, Arturo
Onofri, Luciano Folgore, Clemente Rebora, Dino Campana, Virgilio Giotti,
Camillo Sbarbaro, Ardengo Soffici, Piero Jahier, Giovanni Boine.
FRA LE DUE GUERRE
Umberto Saba, Diego
Valeri, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Biagio Marin,
Attilio Bertolucci, Salvatore Quasimodo, Delio Tessa, Carlo Betocchi, Alfonso
Gatto, Sergio Solmi, Libero De Libero, Giorgio Vigolo, Mario Luzi, Cesare
Pavese, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni,
Alessandro Parronchi, Piero Bigongiari.
IL CUORE DEL SECOLO
Pier Paolo Pasolini,
Giorgio Orelli, Franco Fortini, Tonino Guerra, Nelo Risi, Gaetano Arcangeli,
Andrea Zanzotto, Luciano Erba, Bartolo Cattafi, Umberto Bellintani, Alda
Merini, Giovanni Giudici, Elio Pagliarani, Paolo Volponi, Lucio Piccolo,
Giacomo Noventa, Edoardo Sanguineti, Camillo Pennati, Giorgio Cesarano, Giancarlo
Majorino, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Lorenzo Calogero, Fernando Bandini,
Roberto Roversi, Amelia Rosselli, Daria Menicanti, Agostino Richelmy, Giovanni
Testori, Adriano Spatola.
DAGLI ANNI '70 AD
OGGI
Renzo Paris, Carolus
L. Cergoly, Ottiero Ottieri, Giuliano Gramigna, Dario Bellezza, Franco Loi,
Cesare Viviani, Valentino Zeichen, Patrizia Cavalli, Maurizio Cucchi, Milo De
Angelis, Giampiero Neri, Tomaso Kemeny, Raffaello Baldini, Angelo Lumelli, Giuseppe
Conte, Cesare Greppi, Valerio Magrelli, Vivian Lamarque, Iolanda Insana,
Patrizia Valduga.
domenica 3 agosto 2014
I poeti suicidi
La passione personale
per la poesia italiana dell'Ottocento e del Novecento ha fatto sì che notassi,
leggendo la biografia dei poeti compresi nei secoli citati, la cospicua
presenza di suicidi. Ogniqualvolta venivo a conoscenza della morte per suicidio
di un determinato poeta, nasceva in me la voglia di approfondire le
informazioni sulla sua vita e aumentava l'interesse personale per i suoi versi.
Tutto ciò per un motivo semplice: perchè era molto probabile che codesto poeta
non fosse un mentore, non un falso, ma che le sue poesie nascessero da una
esigenza interiore e quindi fossero, ancor che belle, sincere. Questo non vuol
dire affatto, naturalmente, che i poeti non suicidi abbiano scritto dei versi
insinceri, tutt'altro; ma è certamente innegabile che la poesia
"vera" molte volte nasce da situazioni, pensieri e stati d'animo
colmi di disperazione. Nel secolo XIX togliersi la vita spesso rappresentava un
gesto estremo di protesta nei confronti della società, oppure, ultimo atto di
un romanticismo esasperato, poteva scaturire dal folle amore per una donna o
una ragazza che non aveva compreso o ricambiato il sentimento provato dal
poeta. Ma già duecento anni fa, pare certo che esistesse il cosiddetto mal de
vivre, cioè una sorta di depressione che porta una persona a vedere la vita
come una cosa totalmente inutile, priva di qualsiasi significato e, di
conseguenza, a preferire la morte. Nel Novecento si nota di più quest'ultima
tendenza, soprattutto in anime particolarmente sensibili e indifese quali sono
quelle di molti poeti, costretti a vivere in una società sempre più spietata e
indifferente, incapace totalmente o quasi di apprezzare la poesia così come
altre forme artistiche nate da una profonda spiritualità; una società dove si
presta attenzione soltanto al denaro, al piacere fisico e alle cose
superficiali: in sostanza una società pregna di capitalismo e, di conseguenza,
materialista. Ecco quindi un folto gruppo di poeti suicidi che avevano un'idea
diversa dell'esistenza rispetto alla stragrande maggioranza degli uomini, e per
tal motivo, non potendo e non riuscendo a vivere, decisero di morire.
I POETI SUICIDI
GIULIO UBERTI. Nacque
a Brescia nel 1806; dopo la laurea in legge iniziò a insegnare materie
letterarie e musica fino a quando fu costretto all'esilio per aver partecipato
ai moti del 1848. Tornato in Italia, si stabilì a Milano fino a settant'anni,
quando, già anziano, decise di porre fine alla sua vita gettandosi da una finestra
a causa di un amore calunniato.
GIOVANI CAMERANA.
Nacque a Casale Monferrato nel 1845. Dopo gli studi fatti a Pavia fu per un
periodo a Milano e qui entrò in contatto con alcuni scrittori della
scapigliatura tra i quali Arrigo Boito e Emilio Praga. Si interessò di pittura,
frequentando a Torino lo studio dell'artista Fontanesi, di cui in pratica
divenne discepolo; anche in questo ambiente ebbe modo di stringere amicizie con
alcuni pittori (Lorenzo Delleani) e alcuni scultori (Leonardo Bistolfi) i quali
in seguito ispirarono i suoi versi migliori. Divenuto magistrato decide di
astenersi, per rigore professionale, dal pubblicare le sue poesie. Scrisse
versi praticamente per tutta la vita, cioè fino a quando, nel 1905, si uccise
con un colpo di rivoltella.
GIULIO PINCHETTI.
Nato a Como nel 1845, compì i suoi studi in un collegio comasco per poi
trasferirsi a Pavia, dove si laureò in legge. Presto cominciò a provare
profondo dolore morale sia per la perdita del padre (1864) che per quella della
donna amata, conosciuta nel 1865 (tale Luisa) e morta dopo nemmeno un anno.
Fece vari tentativi professionali ma poi si indirizzò verso l'attività
giornalistica e iniziò a scrivere versi, pubblicando l'unico volume ufficiale
nel 1868. Trasferitosi a Milano, dovette fronteggiare altri avvenimenti tragici
quali la morte della madre e quella del suo caro amico Ariodante Botta.
Ossessionato dall'idea del suicidio, provò a togliersi la vita ingerendo del
veleno e gettandosi da un treno in corsa; fu però al terzo tentativo che perì,
dopo essersi sparato due colpi di rivoltella a soli venticinque anni.
GIACINTO RICCI
SIGNORINI. Nacque a Massalombarda nel 1861; dopo il Ginnasio frequentò la
facoltà di Lettere dell'Università di Bologna dove ebbe come maestro Giosuè
Carducci. Laureatosi iniziò l'attività d'insegnante di liceo; per lavoro si
trasferì prima a Campobasso e quindi a Catanzaro. Ritornò nel 1887 nella sua
regione di nascita, dove insegnò (a Cesena) presso il Liceo regio «Vincenzo
Monti»; l'anno seguente pubblicò il suo primo volume di "Rime" e
iniziò a collaborare al giornale "Il Cittadino". Sempre più
tormentato dai lutti che lo colpirono e dalla netta sensazione di essere un
fallito si uccise nella sua abitazione di Cesena a soli trentadue anni, poco
dopo avere pubblicato la sua quarta raccolta poetica "Elegie di
Romagna".
MARIO GIOBBE. Nacque
a Napoli nel 1863; si distinse quale precoce talento laureandosi appena
diciottenne in giurisprudenza, ma all'avvocatura preferì la professione
giornalistica cominciando a collaborare, coi suoi particolarissimi articoli, a
varie testate italiane, tra le quali si citano: «Il Piccolo» e «Il Corriere di
Napoli». Ben presto maturò in lui l'interesse per la poesia che si tramutò in
traduzioni ottime di opere di autori famosi e in versi suoi che raccolse in due
volumi: "I primi versi" (1889) e "Gli amori" (1891) che
mettono in rilievo la sua simpatia per la poesia di Olindo Guerrini e di
Gabriele D'Annunzio. Dopo il matrimonio si manifestò in lui una crisi depressiva
che cogli anni peggiorò, fino al suicidio avvenuto nell'ottobre del 1906.
MARIO MALFETTANI. Tra
le poche cose che si conoscono di lui si sa che nacque a Genova nel 1875, che
si laureò in legge e che in gioventù frequentò un cenacolo poetico creatosi nel
capoluogo ligure di cui facevan parte anche Alessandro Giribaldi e Alessandro
Varaldo, coi quali pubblicò un volume di versi: "Il 1° libro dei
trittici" (1897); alcuni anni dopo uscì la sua ultima opera poetica:
"Fiori vermigli" (1906). In seguito si allontanò decisamente dagli
ambienti letterari abbracciando la politica socialista. Morì suicida nel 1911.
FRANCESCO GAETA
(1879-1927). Visse sempre a Napoli dove, finito il liceo, frequentò
l'Università ma non giunse mai alla laurea. Si impose come giornalista
letterario collaborando a riviste quali «La Tribuna», «Il Gionale d'Italia» e
«I Mattaccini», fondato quest'ultimo da lui e dal suo amico Alfredo Catapano;
ebbe buona fama anche come poeta grazie agli apprezzamenti di Benedetto Croce
che considerò i suoi versi come i migliori tra quelli in circolazione
all'inizio del Novecento. La sua fine, avvenuta nel 1927, fu inaspettata:
tornato dal cimitero dove aveva assistito alla sepoltura della madre, scrisse
una lettera con le seguenti parole: «Mia dolce mamma, ti seguo» e quindi
si uccise. La sua opera poetica fu pubblicata postuma dal grande critico
letterario nonché suo estimatore Benedetto Croce.
ALFREDO CATAPANO
(1881-1927). Napoletano, si laureò in Legge professando poi l'avvocatura.
Cominciò a scrivere versi ancora giovanissimo e pubblicò alcune raccolte
poetiche che furono considerate anche da insigni critici. Morì suicida poco
tempo dopo il suo amico Francesco Gaeta. Di lui disse il critico
Giuseppe Antonio Borgese: «Ci rimane nel ricordo, più che altro, come un'astratta
immagine di gloria, che sì e no prende color di carne... Perciò il Catapano
tacque quasi subito: poeta di limbo, che prima ancora di prender piede nella
realtà scivolava verso l'assoluto».
CARLO MICHELSTAEDTER.
Nacque a Gorizia nel 1887; mostrò precocemente il suo talento per alcune
discipline quali il disegno e la musica. Frequentò per un periodo la facoltà di
Matematica dell'Università di Vienna per poi trasferirsi a Firenze dove
iniziò e completò i suoi studi
filosofici. Nel contempo, a partire dalla giovanissima età, si dedicò alla
scrittura di versi che non pubblicò mai. A soli ventitre anni, dopo un diverbio
con la madre, impugnò una pistola e si uccise. Le sue poesie, insieme ai suoi
trattati filosofici, uscirono postume nel 1912.
CARLO STUPARICH.
Fratello minore del celebre scrittore Giani, nato a Trieste nel 1894, dopo il
Ginnasio frequentò la facoltà di Lettere all'Università di Firenze; qui venne
in contatto con alcuni scrittori che collaborarono alla famosa rivista "La
Voce". Irredentista, si arruolò all'inizio della Prima Guerra Mondiale e
partì per il fronte. Dopo un'azione, nel maggio del 1916, essendo rimasto solo
ed avendo la certezza di cadere nelle mani del nemico austriaco, decise di
uccidersi. Tre anni dopo la sua morte uscirono in un volume i suoi scritti che
si compongono di poesie, prose e lettere in cui emerge il carattere romantico
dello scrittore triestino.
AGOSTINO RICHELMY.
Nacque a Torino nel 1900 da una famiglia celebre e benestante. Svolse
l'attività di traduttore con ottimi risultati (di grande valore sono le sue
traduzioni da Musset, Virgilio, Fedro e Voltaire). Coltivò simultaneamente una
grande passione per la poesia scrivendo versi già in giovane età che cominciò a
pubblicare molto in là cogli anni (la sua prima raccolta di versi è del 1965).
Le sue poesie dimostrano una propensione per i classici italiani (Petrarca,
Leopardi, Pascoli e Saba) e una particolare attenzione alle bellezze della
natura. Tragica fu la sua scomparsa, avvenuta nella sua casa di Collegno nel
1991, qui fu infatti ritrovato già morto insieme alla moglie; entrambi si
suicidarono ingerendo del veleno.
ENRICO FRACASSI.
Nacque a Roma nel 1902 e morì suicida a soli ventidue anni a Marano de' Marsi.
Poco prima di uccidersi mise in salvo alcuni versi e alcune brevi prose
poetiche che furono pubblicate grazie al critico Enrico Falqui nel 1948.
Leggendo le poesie di Fracassi si intuisce la sua simpatia per lo stile dei
cosiddetti frammentisti della "Voce", e in particolare per Vincenzo Cardarelli.
CESARE PAVESE. Nacque
a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, nel 1908 e visse quasi sempre a Torino.
Giovanissimo cominciò a frequentare il gruppo di intellettuali piemontesi che
si opponevano al regime fascista; per antifascismo subì il carcere e poi il confino.
Collaborò a varie riviste con saggi, traduzioni e poesie; pubblicò romanzi,
racconti e versi; tra questi ultimi risultano fondamentali nella storia della
poesia italiana novecentesca: "Lavorare stanca" (1943) e "Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi" (postuma, 1951). Leggendo le sue opere ci si
accorge che Pavese ha avuto sempre in mente il suicidio, unica soluzione per
risolvere quello stato di sofferenza permanente causatogli da un senso di
esclusione totale dalla vita collettiva. La morte se la procurò in una stanza
di un albergo romano ingerendo molte bustine di sonnifero. Non aveva compiuto
quarantadue anni.
AUGUSTO CARDILE. Nato
a Taranto nel 1909, ben presto dovette affrontare con coraggio alcune
situazioni drammatiche che coinvolsero la sua famiglia. Stabilitosi a Firenze,
nel capoluogo toscano sembrò trovare una tranquillità che in vero durò poco,
visto che nel 1937 decise di togliersi la vita. I suoi versi, mai pubblicati in
volume, uscirono nella rivista "Letteratura" nel 1938, arricchiti da
una struggente testimonianza del critico Oreste Macrì.
ANTONIA POZZI. Nacque
nel 1912 a Milano da famiglia benestante, nel capoluogo lombardo frequentò il
liceo e poi l'università (facoltà di filologia) dove conobbe Vittorio Sereni e
Luciano Anceschi. Nel frattempo andava coltivando la passione per la poesia
riempiendo di versi quaderni su quaderni che non toccò più dopo la sera del 3
dicembre 1938, quando in preda ad una "disperazione mortale" (come
scrisse in una lettera) si tolse la vita ingerendo dei barbiturici. Le sue
poesie furono pubblicate postume a partire dal 1939.
PRIMO LEVI. Nacque a
Torino nel 1919 da una famiglia di origini ebraiche, sempre a Torino studiò
fino alla laurea in Chimica raggiunta nel 1941. Partigiano e antifascista fu
catturato dai tedeschi e deportato ad Auschwitz; lì rimase dal febbraio del 1944
al gennaio del 1945. Tornato dal lager cominciò a scrivere romanzi che
raccontassero la sua esperienza nel campo di concentramento; nel contempo
scrisse anche delle poesie che pubblicò nel volume definitivo "Ad ora
incerta" (1984). Primo Levi morì nell'aprile del 1987; il suo cadavere fu
trovato alla base della tromba delle scale di casa sua. Ancora non si sa se la
sua morte sia stata causata da una caduta accidentale o da suicidio.
GIORGIO CESARANO.
Nacque nel 1928 a Milano da famiglia aristocratica. Aderì al fascismo e poi,
dopo il 1945, al comunismo. Scrisse volumi di versi tra il 1959 ed il 1966
entrando in contatto con alcuni intellettuali milanesi tra i quali Franco
Fortini. Lavorò come traduttore ed autore televisivo. Si uccise con un colpo di
pistola al cuore a Milano nel 1975.
AMELIA ROSSELLI.
Figlia di Carlo Rosselli, antifascista e teorico del socialismo liberale,
nacque a Parigi nel 1930. Trasferitasi, a causa dell'assassinio del padre, in
Svizzera e quindi negli Stati Uniti, studiò in modo irregolare. Lavorò
inizialmente come traduttrice continuando a coltivare i suoi interessi per la
musica, la letteratura e la filosofia. Conobbe quindi vari intellettuali che la
spinsero a pubblicare i suoi versi su alcune riviste. Pubblicò la sua prima
raccolta di versi ("Variazioni belliche") nel 1964 attirando
l'attenzione di molti critici e poeti illustri. Insieme a ulteriori raccolte
poetiche diede alle stampe anche racconti e saggi. La sua fine giunse in
seguito ad un esaurimento nervoso causatogli dalla morte della madre e da
malattie croniche mai accettate. Si suicidò nella sua abitazione romana l'11
febbraio del 1996.
EROS ALESI. Nato a
Ciampino nel 1951, dopo varie vicende sfortunate e spiacevoli come la prematura
morte del padre e la decisiva esperienza della droga che lo portò alla morte a soli
venti anni. Pur scrivendo versi profondi, strazianti e, per certi versi
scioccanti, non pubblicò mai libri. Fu inserito però da Giuseppe Pontiggia nel
volume collettivo "L'Almanacco dello specchio" del 1973. Di lì a poco
sarebbe stato inserito in varie antologie importanti sulla poesia italiana
degli anni '70.
BEPPE SALVIA. Nacque
a Potenza nel 1954. Appassionato della poesia, collaborò coi suoi versi a
riviste tra le quali si ricordano "Nuovi Argomenti", "Prato
pagano" e "Braci" (di quest'ultima fu il cofondatore). La sua
morte arrivò improvvisa il 6 aprile del 1985, giorno in cui Salvia si gettò nel
vuoto dalla finestra della sua casa romana lasciando stupefatti i suoi amici ed
i suoi conoscenti. Le poesie di Salvia uscirono in volume postume; "Un solitario
amore" è il titolo della raccolta che contiene gran parte della sua opera
in versi.
REMO PAGNANELLI.
Nacque a Macerata nel 1955. Studiò in modo regolare e si laureò in Lettere
moderne nel 1978. Fu critico letterario e poeta pubblicando vari volumi di
saggistica e di versi. Morì suicidandosi a soli 32 anni nella sua città natale.
Tra le sue raccolte poetiche più significative si ricordano: "Dopo"
(1982), "Musica da viaggio" (1984) e "Atelier d'inverno"
(1985).
mercoledì 30 luglio 2014
Poeti dimenticati: Guido Ruberti
Nacque a Roma nel
1885 e ivi morì nel 1955. Sono poche le notizie che riguardano la sua vita: è
noto che si laureo in legge, che in gioventù scrisse e pubblicò versi
frequentando il cenacolo di poeti romani molto vicini a Sergio Corazzini;
infine si dedicò all'attività di critico teatrale. Le due raccolte poetiche
pubblicate da Ruberti evidenziano una simpatia nei confronti della poesia
parnassiana e un gusto che si rifà ai classici latini. Non sono assenti
elementi che lo accomunano alla lirica crepuscolare, in particolare a quella
dell'amico Corazzini.
Opere poetiche
"Le
fiaccole", Roux & Viarengo, Roma-Torino 1905.
"Le
Evocazioni", Casa Editrice Centrale, Roma 1909.
Presenze in antologie
"I
crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Il Borghese, Milano 1966 (pp.
397-405).
"I
crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp.
337-344).
"Neoidealismo e
rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa,
LED, Milano 1999 (pp. 584-609).
Testi
ALLA SOGLIA
Oggi passai,
Marcella,
innanzi all'antica
tua casa
e le memorie come un
flutto
di un subito han
l'anima invasa.
Ahi quanto il tempo
ha distrutto
dal primo tuo amore,
dalla mia
ribellione!...
Fissato ho il vecchio
balcone
senza rancore.
Dove se' or tu,
bambina?
Mi sembra ch'io debba
vederti
spuntar di sotto la
tendina
tra i vasi dei rossi
gerani,
agitar le piccole
mani
o il leggiadro
grembiale
ne' brevi segni
occulti...
Di fronte, lassù pel
viale,
dai filari dei
virgulti
a quando a quando una
morta
gialla foglia si
stacca.
A grandi mucchi le
foglie
giaccion su la terra
smorta:
autunno! autunno! le
tue spoglie
dorate, il tuo virile
casco
già cedon al punger
della brezza!
La giornata è grigia;
ha una tristezza
dolce e pensosa, una
lontana
chiarità indefinita:
sei tu dunque
partita?
sei tu dunque
perduta?
E nulla del passato
ti resta,
come a me, nel
vecchio cuore?
E la scorsa vita una
molesta
pagina di un libro
obliato
ti sembra? Pure tutto
è stato:
l'amor defunto,
l'oblianza;
come la sottile
fragranza
di un peccato che non
ha ritorno,
l'Autunno dolce, il
vecchio giorno,
la soglia appena
intravveduta,
la piccola veranda
muta
e chiusa sotto il
ciel piovorno.
(Da "Le
Evocazioni")
sabato 19 luglio 2014
Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (III)
RAGNO
di Sandro Baganzani (1889-1950)
Quel ragno nel fondo del secchio
da giorni da giorni da giorni
non vuole morire.
Da giorni da giorni da giorni
mi fissa dal fondo del secchio,
non vuole morire.
Tu dici: «Perché vuoi lasciarlo morire
quel ragno nel fondo del secchio?»
Allora quel ragno villoso
per te, senza un brivido,
adagio lo aiuto a salire
dal fondo del secchio.
Ma tu, pietosa del ragno,
non vedi chi resta nel fondo del secchio.
(Da "Poesie scelte", Edizioni di «Vita veronese», Verona 1951)
CARO PICCOLO ANATROCCOLO
di Claudio Damiani (1957)
Caro piccolo anatroccolo
adesso è notte, tu ti sei addormentato,
ti sei messo non so se sull'acqua o a terra sulla riva
forse tra le canne nascosto, tra le foglie secche.
Hai chiuso gli occhi, piccolo tesoro,
hai visto la sera venire,
prima farsi rosea la luce poi diventare buio,
un refolo di vento s'è alzato, l'hai sentito?
ed ecco le cose erano diventate nere,
hai sentito tiepide le pietre della riva,
hai avuto paura di qualcosa, non so di cosa,
ma poi hai giocato con una foglia,
col becco volevi affondarla nell'acqua.
Le mani del mio amore erano lontane dalle tue piume,
non ha potuto vederti, non ha potuto baciarti,
ma un dolce sonno è sceso nei tuoi occhi
e ti sei addormentato,
non so se sull'acqua, o a terra sulla riva.
(Da "La miniera", Fazi, Roma 1997)
IL CAVALLO BIANCO
di Filippo De Pisis (1896-1956)
Nella sericcia mite del giorno di festa
curvo nel sacco afflosciato per terra
un cavallo bianco
mangia il suo fieno
dopo le lunghe corse
in pace, lento.
Il collo curvo descrive un arco patetico.
Nella penombra, più indietro
sdraiato nel landeau, il vetturale
sonnecchia, scuro sulla tela bianca.
Su tetti taciturni,
la luna tonda, naviga
in una sua blanda felicità.
Mi fermo a guardare di lontano
ed una tenerezza antica
mi lega a questa cara bestia stanca.
(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)
IL CAPRIMULGO
di Alfonso Gatto (1909-1976)
Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.
O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.
Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.
(Da "Osteria flegrea", Mondadori, Milano 1962)
DELFINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)
La nave sull'onde sobbalza.
La torma dei cani marini,
dei lievi delfini
la incalza.
La seguon con l'arcobaleno.
Tempesta di cielo sereno!
Con l'arcobaleno raggiante
sull'onde solenni rinfrante
in polvere di diamante.
(Da "Verso l'Oriente", Bemporad, Firenze 1923)
L'USIGNOLO NEL CLAUSTRO
di Renzo Pezzani (1898-1951)
L'usignolo nel claustro
pieno il cuore ha di racconti
e li specchia in cupe fonti
chiuse in coppe d'alabastro.
Col suo canto ricco d'ala
batte ai vetri delle celle
ed inebria le stelle
come una dischiusa fiala.
E tu ascolti, anima mia,
ingemmata del tuo credo,
ciò che in te versa l'aedo
d'un'ignota liturgia.
(Da "L'usignolo nel claustro", Alpes, Milano 1930)
SCENDEVANO UN TEMPO
di Lucio Piccolo (1901-1969)
Scendevano un tempo dai sentieri
delle montagne con lenta andatura
le grandi mule, le mule bianche
fra siepi di cisto, fra siepi di prugno
coi colmi panieri di felci incurvate
e l'aria di giugno portava alle labbra
mosti spumanti di frutta ignorate
- da cima a pianura su l'aia
che avanza dal colle snodava
nastro d'invisibile danza -
Ma poi si dispersero i contorni
delle fresche figure nel muovere tardo
dell'eguale rosario dei giorni,
e ancora: fu buio, che muta
la scena e sui marosi attendiamo
sorgere le statue dorate
le torri incantate...
Ma oggi un respiro che varia
le tempre della luce m'ha detto
che da la china dei monti le bianche
mule sempre scendono, sempre l'aria
di giugno che schiuma i canneti
scuote su la sabbia dei greti
tremula piuma di fonti.
(Da "La seta e altre poesie inedite e sparse", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1984)
PER UN CANE
di Antonia Pozzi (1912-1938)
Sei stato con noi per undici anni.
Una sera siamo tornati:
eri disteso davanti al cancello,
il muso nella polvere della strada,
le zampe già fredde, il dorso
tepido ancora.
Ora sei tutto
nella buca che ti abbiamo scavata.
Ma gli undici anni
della tua umile vita,
il gemere
per ognuno che partiva,
il soffrire di gioia
per ognuno che ritornava
– e verso sera
se qualcuno
per una sua tristezza
piangeva
tu gli leccavi le mani:
lo guardavi
e gli leccavi le mani –
oh, gli undici anni
del tuo muto amore
tutto qui
sotto questa terra
sotto questa pioggia
crudele?
Esitavi
sulla ghiaia timida:
sollevavi
una zampa – tremando.
Ora nessuno ti difende
dal freddo.
Non ti si può più chiamare.
Non ti si può più dare
niente.
Solo le foglie fradice morte
cadono su questo pezzo
di prato.
E pensare che altro rimanga
di te
è vietato:
di questo il nostro assurdo
pianto si accresce.
(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998)
PER UNA TARTARUGA
di Francesco Tentori (1924-1995)
Tartarughina, tu
dallo sguardo sagace di chi ha visto
scorrere epoche e vite
che ricordi del tempo che mia madre
gettava ombra, non ancora un'ombra
e con sguardo sagace districava
nel fitto dell'esistere la trama
giusta per sé e per gli altri
seguendo dall'origine alla fine
il percorso del filo la scia
che ciascuno si lascia dietro
e aveva
il dono giusto per ciascuno e a me
dette il suo muso aguzzo ché imparassi
da te forse (ma non l'ho fatto poi)
la pazienza e il coraggio
di rifiutarmi quando è in giuoco il più?
(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)
IL MERLO CHE TUTTO IL GIORNO...
di Diego Valeri (1887-1976)
Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l'erba alta e a pie' dell'irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito sull'albero
per prendersi l'ultimo sole.
Ma sole non c'è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell'erba:
piccola ombra nera nell'ombra verde.
(Da "Calle del Vento", Mondadori, Milano 1975)
di Sandro Baganzani (1889-1950)
Quel ragno nel fondo del secchio
da giorni da giorni da giorni
non vuole morire.
Da giorni da giorni da giorni
mi fissa dal fondo del secchio,
non vuole morire.
Tu dici: «Perché vuoi lasciarlo morire
quel ragno nel fondo del secchio?»
Allora quel ragno villoso
per te, senza un brivido,
adagio lo aiuto a salire
dal fondo del secchio.
Ma tu, pietosa del ragno,
non vedi chi resta nel fondo del secchio.
(Da "Poesie scelte", Edizioni di «Vita veronese», Verona 1951)
CARO PICCOLO ANATROCCOLO
di Claudio Damiani (1957)
Caro piccolo anatroccolo
adesso è notte, tu ti sei addormentato,
ti sei messo non so se sull'acqua o a terra sulla riva
forse tra le canne nascosto, tra le foglie secche.
Hai chiuso gli occhi, piccolo tesoro,
hai visto la sera venire,
prima farsi rosea la luce poi diventare buio,
un refolo di vento s'è alzato, l'hai sentito?
ed ecco le cose erano diventate nere,
hai sentito tiepide le pietre della riva,
hai avuto paura di qualcosa, non so di cosa,
ma poi hai giocato con una foglia,
col becco volevi affondarla nell'acqua.
Le mani del mio amore erano lontane dalle tue piume,
non ha potuto vederti, non ha potuto baciarti,
ma un dolce sonno è sceso nei tuoi occhi
e ti sei addormentato,
non so se sull'acqua, o a terra sulla riva.
(Da "La miniera", Fazi, Roma 1997)
IL CAVALLO BIANCO
di Filippo De Pisis (1896-1956)
Nella sericcia mite del giorno di festa
curvo nel sacco afflosciato per terra
un cavallo bianco
mangia il suo fieno
dopo le lunghe corse
in pace, lento.
Il collo curvo descrive un arco patetico.
Nella penombra, più indietro
sdraiato nel landeau, il vetturale
sonnecchia, scuro sulla tela bianca.
Su tetti taciturni,
la luna tonda, naviga
in una sua blanda felicità.
Mi fermo a guardare di lontano
ed una tenerezza antica
mi lega a questa cara bestia stanca.
(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)
IL CAPRIMULGO
di Alfonso Gatto (1909-1976)
Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.
O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.
Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.
(Da "Osteria flegrea", Mondadori, Milano 1962)
DELFINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)
La nave sull'onde sobbalza.
La torma dei cani marini,
dei lievi delfini
la incalza.
La seguon con l'arcobaleno.
Tempesta di cielo sereno!
Con l'arcobaleno raggiante
sull'onde solenni rinfrante
in polvere di diamante.
(Da "Verso l'Oriente", Bemporad, Firenze 1923)
L'USIGNOLO NEL CLAUSTRO
di Renzo Pezzani (1898-1951)
L'usignolo nel claustro
pieno il cuore ha di racconti
e li specchia in cupe fonti
chiuse in coppe d'alabastro.
Col suo canto ricco d'ala
batte ai vetri delle celle
ed inebria le stelle
come una dischiusa fiala.
E tu ascolti, anima mia,
ingemmata del tuo credo,
ciò che in te versa l'aedo
d'un'ignota liturgia.
(Da "L'usignolo nel claustro", Alpes, Milano 1930)
SCENDEVANO UN TEMPO
di Lucio Piccolo (1901-1969)
Scendevano un tempo dai sentieri
delle montagne con lenta andatura
le grandi mule, le mule bianche
fra siepi di cisto, fra siepi di prugno
coi colmi panieri di felci incurvate
e l'aria di giugno portava alle labbra
mosti spumanti di frutta ignorate
- da cima a pianura su l'aia
che avanza dal colle snodava
nastro d'invisibile danza -
Ma poi si dispersero i contorni
delle fresche figure nel muovere tardo
dell'eguale rosario dei giorni,
e ancora: fu buio, che muta
la scena e sui marosi attendiamo
sorgere le statue dorate
le torri incantate...
Ma oggi un respiro che varia
le tempre della luce m'ha detto
che da la china dei monti le bianche
mule sempre scendono, sempre l'aria
di giugno che schiuma i canneti
scuote su la sabbia dei greti
tremula piuma di fonti.
(Da "La seta e altre poesie inedite e sparse", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1984)
PER UN CANE
di Antonia Pozzi (1912-1938)
Sei stato con noi per undici anni.
Una sera siamo tornati:
eri disteso davanti al cancello,
il muso nella polvere della strada,
le zampe già fredde, il dorso
tepido ancora.
Ora sei tutto
nella buca che ti abbiamo scavata.
Ma gli undici anni
della tua umile vita,
il gemere
per ognuno che partiva,
il soffrire di gioia
per ognuno che ritornava
– e verso sera
se qualcuno
per una sua tristezza
piangeva
tu gli leccavi le mani:
lo guardavi
e gli leccavi le mani –
oh, gli undici anni
del tuo muto amore
tutto qui
sotto questa terra
sotto questa pioggia
crudele?
Esitavi
sulla ghiaia timida:
sollevavi
una zampa – tremando.
Ora nessuno ti difende
dal freddo.
Non ti si può più chiamare.
Non ti si può più dare
niente.
Solo le foglie fradice morte
cadono su questo pezzo
di prato.
E pensare che altro rimanga
di te
è vietato:
di questo il nostro assurdo
pianto si accresce.
(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998)
PER UNA TARTARUGA
di Francesco Tentori (1924-1995)
Tartarughina, tu
dallo sguardo sagace di chi ha visto
scorrere epoche e vite
che ricordi del tempo che mia madre
gettava ombra, non ancora un'ombra
e con sguardo sagace districava
nel fitto dell'esistere la trama
giusta per sé e per gli altri
seguendo dall'origine alla fine
il percorso del filo la scia
che ciascuno si lascia dietro
e aveva
il dono giusto per ciascuno e a me
dette il suo muso aguzzo ché imparassi
da te forse (ma non l'ho fatto poi)
la pazienza e il coraggio
di rifiutarmi quando è in giuoco il più?
(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)
IL MERLO CHE TUTTO IL GIORNO...
di Diego Valeri (1887-1976)
Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l'erba alta e a pie' dell'irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito sull'albero
per prendersi l'ultimo sole.
Ma sole non c'è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell'erba:
piccola ombra nera nell'ombra verde.
(Da "Calle del Vento", Mondadori, Milano 1975)
lunedì 14 luglio 2014
L'erotismo nella poesia italiana decadente e simbolista
L'erotismo è un
elemento assiduo nei versi dei poeti simbolisti e vuole esprimere la vita nella
sua massima fisicità. Sempre e soltanto attraverso il corpo femminile si
estrinseca questa pulsione che suscita sentimenti di estrema passionalità, i
quali a loro volta, in alcuni casi, assumono aspetti mistico-esoterici. D'altra
parte, la sensualità suscitata dalla visione di una donna affascinante è
qualcosa che, per molti poeti, possiede componenti misteriose; da ciò è facile
per alcuni di essi tramutare le figure osservate in vere e proprie divinità che
a volte assumono aspetti pagani, a volte invece si rifanno ai simboli classici
della cristianità (primo fra tutti quello della Madonna).
Poesie sull'argomento
Ugo Betti:
"Serenata dell'orco" in "Il Re pensieroso" (1922).
Giovanni Camerana:
"Io sarei là, in ginocchio, a contemplarla" in
"Poesie" (1968).
Ricciotto Canudo:
"Il Fiore piacente" e "L'Iniziazione" in "Poesia"
n. 9/12, 1906.
Enrico Cavacchioli:
"Canto di una sera di languore" da "Le ranocchie turchine"
(1909).
Giovanni Alfredo
Cesareo: "Ebe" in "Poesie" (1912).
Arturo Colautti:
"L'Amante" in "Canti virili" (1896).
Girolamo Comi: "Denuda
le libidini tue molli" in "Lampadario" (1912).
Edmondo Corradi:
"L'udii parlare in sogno, e la parola" in "Nova
postuma" (1904).
Cosimo Giorgieri
Contri: "Ridesta" in "Primavere del desiderio e dell'oblio"
(1903).
Corrado Govoni:
"Caffè-concerto" in "Poesie elettriche" (1911).
Luigi Gualdo:
"Storia di mare" in "Le Nostalgie" (1883).
Virgilio La Scola:
"Seduzione" in "La placida fonte" (1907).
Gian Pietro Lucini:
"Li Amanti" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Gian Pietro Lucini:
"La collana" in "Poesia", marzo 1908.
Gian Pietro Lucini:
"Di «Un Pomo»" in "Le antitesi e le perversità" (1971).
Gesualdo Manzella
Frontini: "Monaca" in "Le rosse vergini" (1905).
Tito Marrone:
"Serenata nuziale" in "Cesellature" (1899).
Marino Moretti:
"Diva" in "Poesie 1905-1914" (1919).
Arturo Onofri: "Chi
è questa improvvisa dea che appare?" in "Terrestrità del
sole" (1927).
Nino Oxilia: "Ecco,
del seno tra le eburnee sponde" e "S'è addormentata nuda sul
divano" in "Canti brevi" (1909).
Enrico Panzacchi:
"Est dea..." in "Poesie" (1908).
Giuseppe Piazza:
"Euriale" in "Le eumenidi" (1903).
Romolo Quaglino:
"Le etere strette in vesti di broccato" in "I Modi. Anime
e simboli" (1896).
Romolo Quaglino:
"Antica e nova" in "Cibele Madre" (1903).
Romolo Quaglino:
"Il segreto" in "Poesia" n. 12, 1906.
Emanuele Sella:
"Trittico della voluttà d'amore" in "Monteluce" (1909).
Teofilo Valenti:
"La donna del serpente" in "Le Visioni" (1906).
Giuseppe Villaroel:
"Ninfa" in "La tavolozza e l'oboe" (1918).
Testi
DENUDA LE LIBIDINI
TUE MOLLI
di Girolamo Comi
Denuda le libidini
tue molli
innanzi ai miei
desiri sofferenti,
pungi l'inerzia mia
d'acri tormenti
ed infiltrami i
brividi più folli.
Perirò dei piaceri di
cui bolli
musicando il fulgor
dei tuoi portenti
col lusso dei miei
sensi onnipotenti
e con l'oblio
dell'ideal che volli.
I nostri corpi saran
la fanfara
degli spasimi acerbi
e dei desiri
e della voluttà
spumante e rara:
e sul mare nel quale
ti rimiri
risplenderà la
gioventù mia cara
ripetendo in eterno i
miei sospiri.
(Da "Il
Lampadario")
CHI È QUESTA
IMPROVVISA DEA CHE APPARE?
di Arturo Onofri
Chi è questa
improvvisa dea che appare?
Occhi diafani
stellano di luna
sotto il manto
ondeggiante delle chiome.
Da quella bocca, che
sui denti abbonda
nelle labbra
imbronciate, come un fiore,
la voce non la
intende altri che il mare.
Perché venne fra noi
come una donna?
Quel suo piccolo capo
trasparisce
di mattinate,
d’angioli e di giochi,
e nel girarsi addita
in sua dolcezza
che le pietre
traboccano di foglie,
le flore mettono ali,
e mandre brute
s’appassionano
d’ansie e di pensieri.
E noi, pregando che
assuma una figura
di beltà, la parola
in noi rinchiusa,
ne intravediamo, come
un sogno, il volto
nel modello che in
lei donna respira.
(Da "Terrestrità
del sole")
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