sabato 19 luglio 2014

Gli animali in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo (III)

RAGNO
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Quel ragno nel fondo del secchio
da giorni da giorni da giorni
non vuole morire.

Da giorni da giorni da giorni
mi fissa dal fondo del secchio,
non vuole morire.

Tu dici: «Perché vuoi lasciarlo morire
quel ragno nel fondo del secchio?»

Allora quel ragno villoso
per te, senza un brivido,
adagio lo aiuto a salire
dal fondo del secchio.

Ma tu, pietosa del ragno,
non vedi chi resta nel fondo del secchio.

(Da "Poesie scelte", Edizioni di «Vita veronese», Verona 1951)





CARO PICCOLO ANATROCCOLO
di Claudio Damiani (1957)

Caro piccolo anatroccolo
adesso è notte, tu ti sei addormentato,
ti sei messo non so se sull'acqua o a terra sulla riva
forse tra le canne nascosto, tra le foglie secche.
Hai chiuso gli occhi, piccolo tesoro,
hai visto la sera venire,
prima farsi rosea la luce poi diventare buio,
un refolo di vento s'è alzato, l'hai sentito?
ed ecco le cose erano diventate nere,
hai sentito tiepide le pietre della riva,
hai avuto paura di qualcosa, non so di cosa,
ma poi hai giocato con una foglia,
col becco volevi affondarla nell'acqua.
Le mani del mio amore erano lontane dalle tue piume,
non ha potuto vederti, non ha potuto baciarti,
ma un dolce sonno è sceso nei tuoi occhi
e ti sei addormentato,
non so se sull'acqua, o a terra sulla riva.

(Da "La miniera", Fazi, Roma 1997)





IL CAVALLO BIANCO
di Filippo De Pisis (1896-1956)

Nella sericcia mite del giorno di festa
curvo nel sacco afflosciato per terra
un cavallo bianco
mangia il suo fieno
dopo le lunghe corse
in pace, lento.
Il collo curvo descrive un arco patetico.
Nella penombra, più indietro
sdraiato nel landeau, il vetturale
sonnecchia, scuro sulla tela bianca.
Su tetti taciturni,
la luna tonda, naviga
in una sua blanda felicità.
Mi fermo a guardare di lontano
ed una tenerezza antica
mi lega a questa cara bestia stanca.

(Da "Poesie", Vallecchi, Firenze 1942)





IL CAPRIMULGO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Tornerà sempre l'ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo coi tuoi grandi occhi oscuri,
o caprimulgo dalle piume molli,
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l'uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l'ordinata
congrega delle vittime plaudenti.

O misura dell'uomo in sé dipinto
costretto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.

Un fenomeno oscuro il divenire
l'enfasi sorda che alle sue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l'informe
che chiede un senso smania di figure.

(Da "Osteria flegrea", Mondadori, Milano 1962)





DELFINI
di Angiolo Orvieto (1869-1967)

La nave sull'onde sobbalza.
La torma dei cani marini,
dei lievi delfini
la incalza.
La seguon con l'arcobaleno.
Tempesta di cielo sereno!
Con l'arcobaleno raggiante
sull'onde solenni rinfrante
in polvere di diamante.

(Da "Verso l'Oriente", Bemporad, Firenze 1923)





L'USIGNOLO NEL CLAUSTRO
di Renzo Pezzani (1898-1951)

L'usignolo nel claustro
pieno il cuore ha di racconti
e li specchia in cupe fonti
chiuse in coppe d'alabastro.

Col suo canto ricco d'ala
batte ai vetri delle celle
ed inebria le stelle
come una dischiusa fiala.

E tu ascolti, anima mia,
ingemmata del tuo credo,
ciò che in te versa l'aedo
d'un'ignota liturgia.

(Da "L'usignolo nel claustro", Alpes, Milano 1930)





SCENDEVANO UN TEMPO
di Lucio Piccolo (1901-1969)

Scendevano un tempo dai sentieri
delle montagne con lenta andatura
le grandi mule, le mule bianche
fra siepi di cisto, fra siepi di prugno
coi colmi panieri di felci incurvate
e l'aria di giugno portava alle labbra
mosti spumanti di frutta ignorate
- da cima a pianura su l'aia
che avanza dal colle snodava
nastro d'invisibile danza -
Ma poi si dispersero i contorni
delle fresche figure nel muovere tardo
dell'eguale rosario dei giorni,
e ancora: fu buio, che muta
la scena e sui marosi attendiamo
sorgere le statue dorate
le torri incantate...
Ma oggi un respiro che varia
le tempre della luce m'ha detto
che da la china dei monti le bianche
mule sempre scendono, sempre l'aria
di giugno che schiuma i canneti
scuote su la sabbia dei greti
tremula piuma di fonti.

(Da "La seta e altre poesie inedite e sparse", All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1984)





PER UN CANE
di Antonia Pozzi (1912-1938)

Sei stato con noi per undici anni. 
Una sera siamo tornati: 
eri disteso davanti al cancello, 
il muso nella polvere della strada, 
le zampe già fredde, il dorso 
tepido ancora. 
Ora sei tutto 
nella buca che ti abbiamo scavata. 
Ma gli undici anni 
della tua umile vita, 
il gemere 
per ognuno che partiva, 
il soffrire di gioia 
per ognuno che ritornava 
– e verso sera 
se qualcuno 
per una sua tristezza 
piangeva 
tu gli leccavi le mani: 
lo guardavi 
e gli leccavi le mani – 
oh, gli undici anni 
del tuo muto amore 
tutto qui 
sotto questa terra 
sotto questa pioggia 
crudele? 
Esitavi 
sulla ghiaia timida: 
sollevavi 
una zampa – tremando. 
Ora nessuno ti difende 
dal freddo. 
Non ti si può più chiamare. 
Non ti si può più dare 
niente. 
Solo le foglie fradice morte 
cadono su questo pezzo 
di prato. 
E pensare che altro rimanga 
di te 
è vietato: 
di questo il nostro assurdo 
pianto si accresce.

(Da "Parole", Garzanti, Milano 1998) 





PER UNA TARTARUGA
di Francesco Tentori (1924-1995)

Tartarughina, tu
dallo sguardo sagace di chi ha visto
scorrere epoche e vite
che ricordi del tempo che mia madre
gettava ombra, non ancora un'ombra
e con sguardo sagace districava
nel fitto dell'esistere la trama
giusta per sé e per gli altri
seguendo dall'origine alla fine
il percorso del filo la scia
che ciascuno si lascia dietro
                              e aveva
il dono giusto per ciascuno e a me
dette il suo muso aguzzo ché imparassi
da te forse (ma non l'ho fatto poi)
la pazienza e il coraggio
di rifiutarmi quando è in giuoco il più?

(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)





IL MERLO CHE TUTTO IL GIORNO...
di Diego Valeri (1887-1976)

Il merlo che tutto il giorno ha saltato
tra l'erba alta e a pie' dell'irta siepe,
ora che scende la sera
è volato sul ramo alto del pero.
Di lassù guarda il mondo che si oscura,
e fischietta sommesso
come parlasse a se stesso.
Certo è salito sull'albero
per prendersi l'ultimo sole.
Ma sole non c'è già più, né giorno.
Il merlo si rituffa nell'erba:
piccola ombra nera nell'ombra verde.

(Da "Calle del Vento", Mondadori, Milano 1975)

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