lunedì 14 aprile 2014

Gli alberghi nella poesia italiana decadente e simbolista

Gli alberghi sono, molto spesso, i luoghi dove i poeti sfogano le loro malinconie. Situati in località della provincia italiana, quasi sempre semideserti, antichi e demodé, suggeriscono agli autori di versi l'elencazione di una serie di oggetti frusti che riempiono le loro stanze; per questo rappresentano l'inutilità dell'esistenza. Persino i nomi sono, oltre che bizzarri, "fuori moda" e, in un certo senso, stupidi. Più raramente si nota una attenzione al lato erotico: là dove il poeta fissa l'attenzione su alcuni ospiti (in genere giovani coppie) che frequentano tali posti anche per conquistarsi un'intimità ed una libertà altrimenti impossibili. Da non trascurare, infine, alcuni elementi lugubri, che fanno assomigliare gli alberghi ad una anticamera della morte.




ALBERGHI DI CAMPAGNA
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Alberghi di campagna
con un'insegna a l'«Olmo»,
al «Belvedere» al «Pino»
dove si capita stanchi
le sere dopo la caccia
coi bracchi che perdono i fianchi!

Sperare traverso la fiamma
il colmo bicchiere
mentre i vecchi giocano a carte
e in disparte una mamma
dà il latte cullando il bambino.

Pian pianino con garbo Rosinetta
ti serve la cena.
Dal paralume sbiadito
della lucerna a petrolio
pende una mosca morta.
Sul muro c'è un dito
di fumo: che importa?
Il vino è schietto:
la cantilena dei grilli
t'inonda d'una
malinconia gioconda.

Lenzuola di tela odorosa
sul letto di piuma
dove s'affonda nel sogno!
Ramo d'olivo!
Acquasantiera di stagno
con qualche filosofo ragno
che traballa sulle gambe
svegliato dalla candela!

Quando il gallo suoni la diana
se t'affacci
Rosinetta nel cortile
tira l'acqua alla fontana
bracci nudi, in gonnellino.
Zirlando i tordi nel cielo turchino.
E tu fai la riverenza:
un madrigale
velato di partenza
magari
in versi ottonari,
mentre la diligenza
con l'abate la posta il cesto d'uva
strombetta troppo presto
sul piazzale.

(Da "Arie paesane", Taddei, Ferrara 1920)





SERA D'ALBERGO
di Lorenzo Giusso (1900-1957)

Nubi pistacchio e amaranto s'indugiano sulle finestre
dove creature discinte concedono forme rosate
a bocche d'avidi amanti. Lunghesso le vie inazzurrate
dalle alte pompe nevose echeggian freschezze d'orchestre

Dai corridoi tappezzati si sciolgono murmuri gravi
d'acque che lente zampillano in vasche di marmo egiziano.
Fuma il vapore tepido. Nei parchi i custodi con mano
rapida curano aiuole di gigli e d'ortensie soavi.

Nella brevissima rada s'avvolgono galanterie
di lumi verdi ai canotti di mogano. Un bimbo robusto
pende sul filo dell'acqua già bruna ed ascolta il trambusto
della campana del pranzo che picchia sulle vetrerie.

Fascie di pini odorosi allaccian terrazze granite
dove rampolli biondastri implorano lenti supplizi
da fastidite creature, le bocche stigmate dai vizi.
Gelide, statiche le anime son lancie di ferro brunite.

Fra colonnati di lauri e rosei oleandri rituale
fuma il tramonto d'incensi usciti da gemme patère.
Al dileguare del sole protendon liane leggere
le rame qual sonatrici di sistri in un tempio orientale.

Placidità milionarie s'imprimono sopra lo schermo
d'immoto azzurro del mare, un mare dai lembi violetti
morbidi come i pijama di raso distesi sui letti.
Coppie di lusso sbadigliano innanzi a un palmizio alto e fermo.

Hanno vent'anni soltanto. L'età in cui la carne pagana
tersa, marmorea, distilla la luce qual spera infiammata
di vetro. L'uomo è un superbo semidio. Una forza pacata
gli danno il sole e il bagno, e brilla la sua fronte piana.

Lei nella sua veste gialla, somiglia un flacone d'odore
dolce e snervante. In silenzio lui tutta la beve. All'attrito
dei loro corpi si pensa scintille d'un oro forbito
debban balzare. Per loro la notte è un diffuso splendore.

Dismemorarsi! Annullarsi! Svuotarsi di torvi miraggi
come oleandri e palmizi al blando libeccio serale,
avere l'età delle pietre ignare che il mare carnale
torna a baciare inesausto dal ciclo dei lunghi viaggi!

(Da "Musica in piazza", Editrice Tirrena, Napoli 1930)





L'ALBERGO DEL PELLEGRINO
di Corrado Govoni (1884-1965)

O albergo provinciale,
vecchio albergo del Pellegrino,
dove è dolce riposar male
dopo un aspro cammino!
Albergo d'altri tempi,
quando viaggiare era uno svago,
sotto il sole o tra i nembi,
e ogni meta rendeva pago;
quando non c'era questa smania
di correre d'adesso,
che ci affatica e ci dilania,
e s'arrivava pur lo stesso.
Dalle vetrate si profila
un giardino, un po' tetro,
con un getto, che fila
la sua malinconia di vetro.
Ci sono corvi imbalsamati
sulla credenza oscura,
e lunghi corni lucidati
contro la iettatura.
In un quadro, c'è un viandante,
lungo una via infinita
che indica, tra bagnate piante,
una rossa città turrita.
Com'è strano quel pellegrino,
col suo cappello a larga tesa,
il bordone e la zucca appesa,
che gli grava sul sanrocchino!
Chi è? San Rocco, che sopporta,
curvo, dei mali suoi la soma?
O il Tannhauser, che vien da Roma
con la speranza morta?
Oh, se potessi anch'io,
con quest'anima che non crede,
andare fino a Roma, e Dio
supplicare d'un po' di fede!
Forse è Aasvero, l' impietoso,
dannato a ramingar pel mondo
senza un minuto di riposo,
senza morir mai, moribondo.
Ma che strazio, che pena
quel dover sempre andare andare,
come l'acqua nel mare!
Eppur fa bene e rasserena,
qui nella calda quiete,
pensando che là fuori piove
e nevica e fa freddo altrove,
mirar, sulla parete,
i piedi travagliati
di quel povero pellegrino,
là, ch'è ancora in cammino,
mentre noi siamo già arrivati.
Oh, dolce udire, al nostro arrivo,
echeggiar sulle scale
il cù-cù intempestivo
del vecchio pendolo murale;
e il decrepito pappagallo
che dalla sua gruccia,
con una voce di metallo,
vi chiede l'ora e si corruccia!
Dolcezza, scendere, un mattino
d' autunno, freddo e lento,
per la pioggia e col vento,
all'albergo del Pellegrino!
Con un'amante provinciale,
a cui fanno da ombrello,
con due candide ale,
le rose smorte del cappello.

(Da "L'inaugurazione della primavera", Taddei, Ferrara 1920)





L'ALBERGO DELLA NOIA
di Remo Mannoni (1883-1966)

Com'è triste l'albergo della Noia!
S'inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.

Tappeti grigi, grigi come l'ombre
che vegliano alle soglie delle porte
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.

Mobili taciturni come bare
dimenticate... - Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri - Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.

E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni
poltrone che poltriscono enfiate,
a braccia aperte, nell'attesa vana
che vi si sdrai l'Ospite accidioso.

Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto,
o qualche accoppiamento mostruoso?

Scale di sopra, scale in basso, scale
che si perdono su, nell'infinito,
tutte a spirali tormentose come
l'anime folli che non hanno tregua.

Solo, ogni tanto, qualche lucernario
sgrana nell'ombra la pupilla smorta,
una nube d'ovatta insanguinata,
rade i vetri stagnanti, e vi si fiocca.

Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia?...
Cerco invano la stanza che m'accolga,
la crisalide bigia dove il sogno
tessere possa qualche filo d'oro...

Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette, che lacerano il tempo,
segnano tutte la medesima ora!...
- Chi, di sorpresa, mi condusse qua?

Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso,
additarmi la stanza del riposo,
e lasciarmi così, senza risposta.

(Da "Fermento", Tip. Sallustiana, Roma 1931)





L'ALBERGO
di Tito Marrone (1882-1967)

Naufrago nella notte di Natale
in una scialba camera d'albergo
dinanzi alla candela
che guizza e fuma...
E, mentre si consuma
l’anima ad ascoltare il tristo vento
che schernisce sul tetto
la magra pioggia,
di là l’ostessa con la voce chioccia
litiga in suo gergo maledetto.

Pace, ostessa! A quest’ora, nelle chiese 
del mio paese, 
s’inazzurra la messa di Natale, 
brulicano i lumini dei presepi. 
I Re Magi viaggiano 
lungo le siepi, 
dietro la stella di fili d’argento, 
verso la capannuccia di Gesù: 
brontola il vento e la neve vien giù. 
Or dove mai sarà 
quel piccolo pastore 
che alla sua rammendata cornamusa 
appendeva il mio cuore? 
Dove, la stella di fili d’argento? 
Dove son io fanciullo? 
Il mio presepio è brullo, 
abbandonato, spento. 

(Da "Antologia poetica", Guida, Napoli 1974)





L'ALBERGO DELLA TAZZA D'ORO
di Marino Moretti (1885-1979)

Presso un'arola o in mezzo d'una strada
nessun desìo si fa più vivo in me:
triste son io, triste son io, perchè
la tristezza è il mio pane e la mia piada.

Or chi m'ascolta più? Chi si sovviene
della mia povertà cogitabonda
se quando quest'ambascia mi circonda
anche mia madre non mi vuol più bene?

Meglio è ch'io vada in un paese, in uno
di quei paesi che hanno un lungo nome,
in cui si vive così mesti come
se non ci fosse, insieme a noi, nessuno.

E passo il limitar d'una locanda
piena di gabbie d'uccellini in cova,
e mi sorride timorosa, a prova,
la padroncina con far d'educanda.

Oh l'alberghetto dal nome sonoro
come mi piace subito! Quest'è
l'Albergo della Luna? dei Tre Re?
dei Pellegrini? della Spada d'Oro?

Oh la locanda dal nome sonoro
quale riposo all'anima! Questa è
la Locanda dell'Aquila? dei Tre
Mori? del Genio? della Tazza d'Oro?

Sì, sì, la Tazza d'Oro! E c'è la tazza
d'oro, lucente, nell'insegna nera
che copre tutta quanta la ringhiera
del balconcino che dà su la piazza!

O locandiera intenta ad un lavoro
d'uncinetto, vi chiedo per piacere
di dare all'ultimo ospite da bere
la vostra albana nella tazza d'oro!

Dolce l'albana, fresca la locanda,
e cortese e devota la padrona.
E c'è di là un odor d'erba limona,
e c'è di qua il sentor della lavanda.

E ci sono i gerani e la cedrina
nel testo verde, e i mobiletti frusti,
e Garibaldi e il Passatore e Giusti
alle pareti.... e c'è la signorina.

La signorina che arrossisce un poco
pur sorridendo nei grandi occhi mesti:
o dolce ignota, di', tu non vorresti
fare all'amore oggi con me, per gioco?

Amore! La parola che si ascolta
dolcemente così, come un messaggio....
Amor che passa: amore di passaggio....
Amore che ritorna, qualche volta.

(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)





DA "L'ERRANTE"
di Ada Negri (1870-1945)

...
La tristezza di gelo ella conosce
delle stanze d'albergo, ove la gente
passò col suo mistero e il suo pungente
destino a tergo, e le sue sorde angosce:
ove un ignoto visse la sua notte
ultima, forse — e rise e pianse amore
fra baci senza fine,
e l'insonnia spiò fra le cortine,
e l'odio sibilò le rauche e rotte
parole, che di pietra fanno il cuore.
.... Da quale mano il fiore
cadde che or, vizzo, sul tappeto giace?...
Chi morse ieri il candido guanciale?...
.... Non sa, non pensa. È stanca.
Solo vorrebbe riposare in pace.
E scioglie il velo e libera le trecce;
ma fra le trecce v'è una ciocca bianca,
il viso è smorto come il capezzale.
...

(Da "Dal profondo", Treves, Milano 1910)





IL VECCHIO ALBERGO
di Romualdo Pantini (1877-1945)

- Amico, e torni ancóra al vecchio albergo?
E' l'ombra di sé stesso, ingrata e oscura:
Mi pare un ospedal, mi fa paura!

- Amico, io torno ancóra al vecchio albergo!

- Non vedi? come lui s'è fatto vecchio
l'albergator gentile d'una volta:
t'accoglie male, quasi non t'ascolta.

- Amico, io pure come lui son vecchio!

- Non senti? tutto intorno sa di muffa,
l'atrio, le scale, le pareti sporche:
è un tanfo che avvilisce, afa di morte!

- Amico, in cor non sento alcuna muffa!
Vecchia città e vecchio albergo, un solo
cuore mi chiama a voi, mi chiude in voi:
nelle rovine è un nido, e prima o poi
l'uccello sperso vi ripiega il volo.

- Albergo lieto, non sei più lo stesso?
Pure chi torna non è più lo stesso.

- Siam deperiti insieme nella notte,
ci siamo insiem corrosi in tante lotte!

- Ma il ricordo è una fiamma che non cede
anche se il cuor si dice senza fede.

- E un ricordo d'amor canta alle stelle
canta col mar la pace e le procelle!

- E il passato purifica la fiamma,
la rende sacra come amor di mamma!

(Da "Canti di vita", Treves, Milano 1910)





NELL'HOTEL NON C'E' PIÙ ALCUNO 
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Nell'hotel non c'è più alcuno: 
per le loggie, sulle scale, 
sulle porte numerate 

cala il vespro algido e bruno; 
e quiete sepolcrale 
tien le stanze inabitate. 

Nelle stanze i bianchi letti, 
ove il popol dei bagnanti 
sognò il mare e l'allegria, 

paion tanti cataletti 
tristi, immobili, aspettanti 
che il becchin li porti via. 

Io, postremo abitatore 
e novissimo cliente 
dell'albergo abbandonato,

guardo all'ultimo chiarore 
che dilegua in occidente; 
guardo al mare ottenebrato. 

Odo errar per le pareti 
un sommesso favellio 
che racconta arcane istorie; 

e dai bianchi sepolcreti 
del silenzio e dell'obblio 
sorgon, sorgon le memorie. 

Le memorie in lunghe schiere 
passan, languide, il crin sciolto, 
l'alma empiendo di sconforti; 

e mi par di rimanere 
freddo, esamine, sepolto 
sotto un mucchio di fior morti. 

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)





GRANDI ALBERGHI, LARVATI LUPANARI
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Grandi alberghi, larvati lupanari
alla tetra ricchezza! miserande
baracche da frastuoni e sarabande
per vane genti senza focolari!

Lucide serre per malati rari
che di lor vizi fànnosi ghirlande!
bolge invase da scompigliate bande
d'allegre dame e taciturni bari!

Grandi alberghi, rifugi a la follia
dei soli che han terror d'essere soli
e si stordiscon roteando a sciami!

Regge sfarzose di malinconia
pronte a tutti gli approdi e a tutti i moli
per raccogliervi, o mondo, i tuoi rottami! 

(Da "Il randagio", Mondadori, Roma 1921)




HOTEL DE LA PENSION ANGLAISE 
di Remigio Zena (pseud. di Gaspare Invrea, 1850-1917)

La campagna ha il suo grigio accappatoio 
E i vetri hanno i ricami, 
Le fogliuzze che sembrano di cuoio 
Lasciano brulli i rami. 

Divorata dal livido avoltoio, 
Fatta un sacco d'ossami, 
Grida Mimì al suo Rodolfo: «muoio, 
Dimmi ancora che m'ami!» 

E fa aprir le finestre e nei giardini 
Di Nervi - ultima tappa – 
Vede appesi gli aranci e i mandarini. 

Un sospiro dall'anima le strappa 
Questa festa invernale: 
«Oh i bei cipressi del mio funerale!» 

(Da "Poesie grigie", Tip. de' sordo-muti, Genova 1880)

2 commenti:

  1. Queste poesie sono l'espressione di un tormento interiore, evocano ferite insanabili dell'anima, eppure hanno una straordinaria magia musicale che le fa apparire belle.
    Complimenti per il suo blog, per me fonte inesauribile di piacere

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  2. Condivido il suo commento e la ringrazio di cuore.

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