domenica 5 aprile 2015

I versi dell'infanzia

Ecco venti componimenti in versi che contraddistinsero gli anni della mia infanzia. Sto parlando di oltre quaranta anni fa, quando, frequentando le scuole elementari e medie, mi capitava di dover leggere e, in alcuni casi, imparare a memoria delle poesie. Spesso, questa operazione forzata, non mi portava ad apprezzare moltissimo quei versi: a volte ebbi anche dei brutti voti sul registro scolastico perchè non seppi o non volli imparare perfettamente a memoria una certa poesia. Ma, ritrovati quei vecchi libri scolastici e, riletti dopo tanti anni quei versi, mi è sopravvenuta un'enorme nostalgia per un tempo perduto e irripetibile; ed ora so apprezzare quelle poesie così come quei poeti che, coi loro futili versi, riempivano le pagine delle antologie scolastiche di qualche decennio fa.
Leggendole attentamente, si noterà che prevalgono alcuni autori famosi come Giovanni Pascoli o Gianni Rodari, ma non mancano illustri sconosciuti che in vita, spesso e volentieri, professarono l'insegnamento, e solo per passione scrissero dei versi in genere destinati ai bambini. Gli argomenti dei testi qui presenti riguardano in molti casi la natura, le stagioni dell'anno e gli eventi festivi: cose che col passare degli anni erroneamente vengono marginalizzate a vantaggio di altre assai meno importanti ed emozionanti; sono però presenti anche un paio di componimenti prettamente patriottici che non potevano assolutamente mancare, data la loro rilevanza e dato che rimangono particolarmente impressi nella memoria anche a distanza di tanti anni. Quasi tutte le poesie sono state trascritte direttamente dai testi scolastici e da altri indirizzati al pubblico infantile che ancora posseggo; fa eccezione La notte santa di Guido Gozzano, che non compare in alcuno dei libri da me consultati, ma che ben ricordo di aver scritto sul mio quadernetto sotto dettatura della maestra.





X AGOSTO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

(Da "Quante strade, vol I", Loffredo, Napoli 1976)





A MIA MADRE
di Edmondo De Amicis (1846-1908)

Non sempre il tempo la beltà cancella
O la sfioran le lacrime e gli affanni;
Mia madre ha sessant’anni,
E più la guardo e più mi sembra bella.

Non ha un detto, un sorriso, un guardo, un atto
Che non mi tocchi dolcemente il core;
Ah se fossi pittore
Farei tutta la vita il suo ritratto.

Vorrei ritrarla quando inchina il viso
Perch’io le baci la sua treccia bianca,
O quando inferma e stanca
Nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

Ma se fosse un mio prego in cielo accolto
Non chiederei del gran pittor d’Urbino
Il pennello divino
Per coronar di gloria il suo bel volto;

Vorrei poter cangiar vita con vita,
Darle tutto il vigor degli anni miei,
Veder me vecchio, e lei
Dal sacrifizio mio ringiovanita.

(Da "Nuova guida al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)





APRILE
di Graziella Ajmone (1912-1993)

Aprile che ridi
con occhi turchini,
che il dono del sole
accogli con gridi
di bimbi e di rondini;

Aprile che odori
di vento e di viole,
di prati e di fiori,

Aprile giocondo,
tu sei mio fratello:
un bimbo che vede
bellissimo il mondo.

(Da "Il fiore d'oro 2. Letture del 1° ciclo", Editrice Noseda, Como 1970)





UN BAMBINO AL MARE
di Gianni Rodari (1920-1980)

Conosco un bambino così povero
che non ha mai veduto il mare:

a Ferragosto lo vado a prendere
in treno a Ostia lo voglio portare.

- Ecco, guarda – gli dirò -
questo è il mare, pigliane un po’! -

Col suo secchiello, fra tanta gente,
potrà rubarne poco o niente:

ma con gli occhi che sbarrerà
il mare intero si prenderà.

(Da "I Quindici, I: Poesie e rime", Roma 1968)






I DODICI MESI
di Elda Bossi (1901-1996)

Gennaio porta il ceppo e la Befana,
Febbraio carnevale e tramontana,
Marzo le pratoline e le viole,
le rondinelle Aprile e il dolce sole.
Salutan Maggio gli uccellini in coro;
Giugno ha tra il fieno lucciolette d’oro;
Luglio è biondo di grano al sole;
Agosto porta frutta dolci e buone;
Settembre ha l’uva d’oro e di rubino,
Ottobre poi la pigia dentro il tino;
Novembre porta i fiori al Camposanto;
Dicembre culla i semi sotto il manto.

(Da "Paese 3. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)





FOGLIE GIALLE
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Ma dove ve ne andate,
povere foglie gialle
come farfalle
spensierate?
Venite da lontano o da vicino,
da un bosco o da un giardino?
E non sentite la malinconia
del vento stesso che vi porta via?

(Da "Paese 4. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)





MEZZOGIORNO
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Chiesoline di campagna
lontane e vicine,
i vostri campanilini fumano
come tanti comignoli di cucine.
Mezzogiorno !
«Bambini si va a mangiare».

(Da "I Quindici, I: Poesie e rime", Roma 1968)





LA MIA STELLA
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Gli altri bimbi solo essi eran bimbi:
Io no. Io ero un bimbo che guardava
vivere gli altri, capitato a caso
tra gli altri sulla terra: certo un bimbo
caduto da una stella, ecco. E la notte
scivolavo dal letto per cercarla
di là dai vetri, al buio, la mia stella.

(Da "I Quindici, I: Poesie e rime", Roma 1968)





MILITE IGNOTO
di Renzo Pezzani (1898-1951)

Fratello senza nome e senza volto,
da una verde trincea t'han dissepolto.
Dormivi un sonno quieto di bambino,
un colpo avea distrutto il tuo piastrino.
Eri soltanto un fante della guerra,
muto perché t'imbavagliò la terra.
Ora dormi in un'urna di granito,
sempre di lauro fresco rinverdito.
E le madri che più non han veduto
tornare il figlio, come te, caduto,
né sanno dove l'abbiano sepolto,
ti chiamano e rimangono in ascolto,
se mai la voce ti donasse Iddio
per dire: «O madre, il figlio tuo son io».

(Da "Paese 4. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)





NEL GIORNO DEI MORTI
di Maggiorina Castoldi

Piove nebbia sulle croci. Poche voci
van nell'aria, pianamente;
cantilene
dolci e tristi, bisbigliate,
fra le tombe seminate.

Va la gente
lenta, assorta; altra ne viene,
altra sosta al tuo cancello
per segnarsi, o campicello
benedetto.

Sulle braccia tese ha un fiore
ogni croce, e più d'un lume
fioco spande il suo chiarore
nelle brume.

(Da "Paese 5. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1972)

  



LA NOTTE SANTA
di Guido Gozzano (1883-1916)

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

- Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?
- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!

Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!

Alleluja! Alleluja!

(Da "L'incanto del Natale", Paoline Editoriale libri, Milano 1996)





I PASTORI
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natía
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sí la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
264
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

(Da "Quante strade, vol I", Loffredo, Napoli 1976)





QUANTI PESCI CI SONO NEL MARE?
di Gianni Rodari (1920-1980)

Tre pescatori di Livorno
disputarono un anno e un giorno
per stabilire e sentenziare
quanti pesci ci sono nel mare.

Disse il primo: «Ce n’è più di sette,
senza contare le acciughette».
Disse il secondo: «Ce n’è più di mille,
senza contare scampi ed anguille».
Il terzo disse: «Più di un milione!»
E tutti e tre avevano ragione.

(Da "I Quindici, I: Poesie e rime", Roma 1968)




LA QUERCIA CADUTA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Dov’era l’ombra, or sè la quercia spande
morta, nè più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!

Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto... d’una capinera

che cerca il nido che non troverà.

(Da "Paese 5. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1972)





IL ROSPO E IL VILLANO
di Ferruccio Orsi

Stava nel mezzo a un prato
un grosso rospo mezzo addormentato.

Avvenne che di lì passando a caso,
lo vide un certo contadin, un certo Maso.

Tolse dal vicin campo un grosso palo
per dare al rospo con quel palo addosso.

«Fermati!» disse il povero animale.
«O che t’ho fatto, Maso mio, di male?

Io non ti rubo nulla, anzi ti netto
i prati e i campi d’ogni tristo insetto.

Sono brutto, lo so, ma, caro mio,
e se son brutto, che colpa ce n'ho io?».

Commosso e vergognoso, quel villano,
tosto il palo gettò a sé lontano

e disse: «Poveretto, hai ben ragione!
io commettevo una cattiva azione.

Ma di già rospo mio, per dar molestia,
spesso l’uomo è più bestia della bestia».

(Da "Nuova guida al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)





SAN MARTINO
di Giosuè Carducci (1835-1907)

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

(Da "Nuova guida al comporre", Casa Editrice A. & C., Torino-Roma)





SCUOLA DI CAMPAGNA
di Renzo Pezzani (1898-1951)

È fuori dal borgo due passi
di là del più fresco ruscello
recinta di muro e cancello
la piccola scuola di sassi.

Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco
nell’aula che odora di gesso.

C’è ancora la vecchia lavagna
con su l’alfabeto mal fatto:
lo scrisse un bambino distratto
dal verde di quella campagna.

E lei, che mi vide a sei anni,
c’è ancora. La voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.

C’è ancora il vasetto d’argilla
che m’ebbe suo buon giardiniere;
è verde, fiorito di lilla,
e un bimbo gli porta da bere.

Il tempo passò senza lima
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino d’un giorno
sereno, nell’aula di prima.

E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto.

(Da "Parliamo la nostra lingua", De Agostini, Novara 1974)





LA SPIGOLATRICE DI SAPRI
di Luigi Mercantini (1821-1872)

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

Me ne andavo al mattino a spigolare,
quando vidi una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore;
e alzava una bandiera tricolore;
all'isola di Ponza s'è fermata,
è stata un poco e poi è ritornata;
è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.

Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
ma s'inchinaron per baciar la terra,
ad uno ad uno li guardai nel viso;
avean tutti una lagrima e un sorriso.
Lì, li dissero: ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
ma li sentii mandare un solo grido:
«Siam venuti a morir pel nostro lido».

Con gli occhi azzurri e i capelli d'oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per mano,
gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»
Guardandomi, rispose: «Cara sorella...
vado a morir per la mia patria bella».
Io mi sentii tremare tutto il core,
che non potei dirgli: «V'aiuti il Signore!»

Quel giorno dimenticai di spigolare,
e dietro a loro decisi d'andare.
Due volte si scontrar con li gendarmi,
e l'una e l'altra li spogliar dell'armi;
ma quando fur della Certosa ai muri,
s'udirono suonar trombe, gridi e tamburi;
e tra fumo, spari, urla e scintille
piombaro loro addosso più di mille.

Eran trecento, e non vollero fuggire;
parean tremila e vollero morire:
vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa di sangue il piano:
fin che pugnar vid'io per lor pregai;
ma a un tratto venni men, né più guardai;
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!

(Da "Tamburino '65. Sussidiario 5°", Editrice Le Stelle, Milano 1974)






SPERANZA
di Milly Dandolo (1895-1946)

C’è un grande albero spoglio
in mezzo all’orto: pare
che soffra e non si possa
coprire e riscaldare.
Vola sui nudi rami
un passero sperduto,
e cinguetta più forte
in segno di saluto.
Geme l’albero: “Un tempo
fui giovane e fui bello:
candidi fiorellini
erano il mio mantello.”
Il passero cinguetta:
“Oh vecchio albero, spera!
Si scioglieran le nevi:
verrà la primavera."

(Da "Paese 4. Letture del 2° ciclo", Editrice Le Stelle, Milano 1973)





L’ULTIMA ORA DI VENEZIA
di Arnaldo Fusinato (1817-1888)

È fosco l’aere,
    È l’onda muta!...
    Ed io sul tacito
    Veron seduta,
    In solitaria
    Malinconia,
    Ti guardo, e lagrimo,
    Venezia mia!

Sui rotti nugoli
    Dell’Occidente
    Il raggio perdesi
    Del sol morente,
    E mesto sibila,
    Per l’aura bruna,
    L’ultimo gemito
    Della laguna.

Passa una gondola
    Della città:
    ― Ehi! della gondola
    Qual novità ?
    ― Il morbo infuria...
    Il pan ci manca...
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca! ―

No, no, non splendere
    Su tanti guai,
    Sole d’Italia,
    Non splender mai!
    E sulla veneta
    Spenta fortuna
    Sia eterno il gemito
    Della laguna!

Venezia, l’ultima
    Ora è venuta;
    Illustre martire,
    Tu sei perduta;
    Il morbo infuria,
    Il pan ti manca,
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!

Ma non le ignivome
    Palle roventi,
    Nè i mille fulmini,
    Su te stridenti,
    Troncan ai liberi
    Tuoi dì lo stame:
    Viva Venezia:
    Muor della fame!

Sulle tue pagine
    Scolpisci, o Storia,
    Le altrui nequizie
    E la tua gloria,
    E grida ai posteri
    Tre volte infame
    Chi vuol Venezia
    Morta di fame.

Viva Venezia!
    Feroce, altiera,
    Difese intrepida
    La sua bandiera;
    Ma il morbo infuria,
    Il pan le manca;
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!

Ed ora infrangasi
    Qui sulla pietra,
    Finch’è ancor libera,
    Questa mia cetra.
    A te, Venezia,
    L’ultimo canto,
    L’ultimo bacio,
    L’ultimo pianto!

Ramingo ed esule
    Sul suol straniero,
    Vivrai, Venezia,
    Nel mio pensiero;
    Vivrai nel tempio
    Qui del mio cuore,
    Come l’imagine
    Del primo amore.

Ma il vento sibila,
    Ma l’onda è scura,
    Ma tutta in gemito
    È la natura:
    Le corde stridono,
    La voce manca,
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!


(Da "Tamburino '65. Sussidiario 5°", Editrice Le Stelle, Milano 1974)

lunedì 30 marzo 2015

La Settimana santa in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Manca una settimana alla santa Pasqua: arriva la Settimana Santa. Quanti ricordi infantili, mi suscita questo periodo dell’anno! Ricordi prettamente infantili, quando, a metà della settimana, cominciavano le vacanze pasquali, e non si andava a scuola fino alla metà della settimana successiva; non erano lunghe come quelle natalizie, ma erano comunque bellissime. Poi c’erano i riti religiosi che la mia famiglia, essendo cattolica, seguiva scrupolosamente; nel pomeriggio tardo del venerdì santo si andava in chiesa, a visitare i Sepolcri; nello stesso giorno non si mangiava alcun tipo di carne; la sera, poi, si assisteva alla Via Crucis che era trasmessa dalla televisione. Il sabato iniziavano i preparativi per il giorno della Pasqua. Ora che è passato quasi mezzo secolo, mi rendo conto di quanto siano belli questi ricordi, così lontani che mi occorre frugare con insistenza nella memoria per farli riemergere. Pur avendo perduto da decenni la fede, ricordare questi eventi mi procura un benessere indescrivibile, poiché appartengono al periodo più felice della mia esistenza.



MERCOLEDÌ SANTO

di Nicola Moscardelli (1894-1943)

Le ore passano frettolose quasi timorose d'essere riconosciute.
Dietro i cancelli belano gli agnelli come se sapessero d'essere già stati venduti. Il loro belato purifica l'aria. Se il profumo delle margherite avesse una voce sarebbe simile a quella dell'agnello. La giornata passa presto tra sole e nuvolo come di marzo. Se un canto di donna si leva, subito si spegne.
Gli abitanti del paese sono distratti e sui calzoni di tutti i giorni portano la giacca nuova, perché la giornata è metà lavoro e metà festa.
Il tramonto arriva quando meno ci si pensa: rosso come d'estate.
Il belato degli agnelli nella sera che odora come un prato si ode appena appena, come se il sangue del tramonto fosse il loro.

(Da "Le grazie della terra", Carabba, Lanciano 1928)





LE MANI DI GIUDA
di Nicola Valenza (1890-?)

Ne l'ultima Cena
appena Gesù dice:
"La mano di colui che mi tradisce
è meco a tavola"
gli occhi dei Discepoli
inorriditi si spiano
ma quelli di Giuda
fiori di precipizio
vorrebbero sorridere al Maestro.

E mentre tutte le mani tremano d'angoscia
come a carezzare il cuore sanguinante del Signore
quelle di Giuda
pian piano sotto la mensa scivolano
e pur celate
si sentono perdute.

Vorrebbero, gelide, avvincersi...

Ma come stroncate
da monconi pendono.

(Da "Getsemani", Milia Russo, Caltanissetta 1927)





GIOVEDÌ SANTO
di Biagia Marniti (1921-2006)

Un crepuscolo continuo rende umida la notte.
La luna velata d'azzurro sorride di luce.
L'infinito tace e si ascolta.
Più gli alberi
verso l'imo da cui scesero,
immoti calici ricevono
le voci sommerse dell'acqua
dalle fistole bianche che tremano.
I tesi rami
cercano il mistero che scorre.
Un bisbiglio. Si sporgono.
È volata una foglia.
Più chiare oscillano
le varie fiammelle dell'aria.
L'aria candida, pudica
si spoglia, anela il vento che manca.
Si è mossa la ghiaia.
Un'ombra entrata nell'ombra.
Odi un passo? È nell'orto la Morte.

(Da "Nero amore rosso amore", Fiumana, Milano 1951)





GESÙ ENTRA NELL'ORTO
di Elena Bono (1921-2014)

La carne è stanca.
Gli uomini non veglieranno con me.
Voi grandi alberi
che sempre parlate col vento,
notturni uccelli
che non dormite,
notte che accogli nel grembo
tutte le cose
vegliate voi con me,
non mi lasciate.
Non lasciatemi solo col mio cuore.

(Da "Alzati Orfeo", Milano 1958)





VENERDÌ SANTO
di Fausto Maria Martini (1886-1930)

Nulla, credi, è più dolce per i nostri
occhi di questo giorno senza sole,
con i monti velati di viole
perché la primavera non si mostri...

Venerdì santo! E ieri sera tu
ti rimendavi quest'abito, tutto
grigio, un abito come a mezzo lutto
per la morte del povero Gesù...

Traevi dalla tua cassa di noce
qualche grigio merletto secolare:
così vestita, accoglierà l'altare
la buona amante con le mani in croce...

Prega per me, prega per te, pel nostro amore,
per nostra cristiana tenerezza,
per la casa malata di tristezza,
e per il grigio Venerdì che muore:

Venerdì santo, entrato in agonia,
non ha la sua campana che lo pianga...
come un mendico, cui nulla rimanga,
rassegnato si muore sulla via...

Prega, e ricorda nella tua preghiera
tutte le cose che ci lasceranno:
anche il ramo d'olivo che l'altr'anno
ci donò, per la Pasqua, Primavera.

Quante volte l'olivo benedetto
vide noi moribondi nel piacere,
e vide le nostre due anime, in nere
vesti, per noi pregare a capo al letto!

E pregavamo, come se morisse
qualcuno: un poco, sempre, morivamo...
Ma sempre sull'aurora nuova, il ramo
d'olivo i lieti amanti benedisse!

Ora col nuovo tu lo cambierai:
anche devi pregare per gli specchi
velati, per i libri, per i vecchi
abiti che tu più non vestirai...

È sera: un riso labile si perde
sulle tue labbra, mentre t'inginocchi:
io guardo, dietro la veletta, gli occhi...
due perle nere in una rete verde.

(Da "Poesie provinciali", Ricciardi, Napoli 1910)





VENERDÌ SANTO
di Francesco Tentori Montalto (1924-1995)

Torna l'inverno, torna
l'ufficio delle tenebre.
Pasqua intrisa di pioggia, che non osa
far sonare le squille della gioia
ma a capo chino ripete il confiteor,
i salmi della penitenza.
Gocciano lacrime i ceri,
vestita a lutto va la processione
tra le oscure crociere e gli ambulacri
che sospirano ai verdi porticati.

(Da "Migrazioni", Passigli, Firenze 1997)





VIA CRUCIS
di David Maria Turoldo (1916-1992)

La bocca rotta dalla pena
i denti legati
dal dolore.
Intanto la luna si alza
e una musica arriva
sul selciato delle case
a morire.

(Da "Io non ho mani", Bompiani, Milano 1948)





L'ORA SESTA
di Franco Berardelli (1908-1932)

Il sangue scorre da la bionda testa
coronata di spine, lungo il viso,
e asconde ai fili l'ultimo sorriso.
Urla la folla e ondeggia. È l'ora sesta.

Guardate intorno, voi che fate festa
e schiamazzate per averlo ucciso!
Il velo del gran tempio s'è diviso:
s'apre la terra e mugge la tempesta.

Mirate! Il ciel si schianta, il sol s'oscura,
sfolgora il lampo, rumoreggia il tuono;
grida al delitto e freme ogni creatura.

È l'ora nona. Dal divino trono
il Padre placa, a un cenno, la natura,
e pace ai peccatori offre e perdono.

(Da "I sonetti", Tip. Mantellate, Roma 1931)





PER IL SABATO SANTO 1953
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

Il gallo s'è sgolato per millenni.
E Cefa ha pianto. E dondolò dall'albero
lo scheletro di Giuda. - Balza fuori
rovescia sopra il tetro nostro suolo,
o Signore, la pietra che Ti chiude.

Te Risorto presentono nei solchi
turgide gemme e pallidi frumenti.
Ripercorrono ansiosi i Due di Emmaus
l'antica strada. E là Maria di Magdala
nell'orto attende che Tu la sorprenda.

Hora est jam: il tedio e il lamento
vano, che noi tardi di cuore a credere
a guardia riponemmo del Sepolcro,
un Tuo urlo disperda, o Tu più forte
d'ogni morte, Gesù: de somno surge.

E gli Angioli, alleluja, e le campane
annuncino, alleluja, che Tu ritorni.
Per domani, Signore? Oh, da domani
s’inizino coll’alba i giorni nuovi,
alleluja, viso Domino. Alleluia!

(Da "Biancospino", La locusta, Vicenza 1957)





SABATO SANTO
di Francesco Gaeta (1879-1927)

Ritornavo: morìa sabato santo.
M'ero stancato i suoi piedi a baciare;
su quei piccoli piedi avevo pianto
le insensate mie lacrime più rare.

Movevan negri nuvoli lor manto
lacero su 'l baglior crepuscolare
di primavera; l'aer tutto quanto
echeggiava di reduci fanfare.

E il brulicar pasquale, e un repentino
odor di terra smossa con la brezza,
tra case alte accigliate, da un giardino,

pareanmi, tra il bruciar de le mie cave
mani, una mia seconda fanciullezza
accompagnare d'un sorriso grave.

(Da "Sonetti voluttuosi ed altre poesie", Roux & Viarengo - Roma-Torino 1906)

sabato 28 marzo 2015

Poeti dimenticati: Edvige Pesce Gorini

Nacque a Sellano, in provincia di Perugia, nel 1890 e morì nel 1983. Dopo gli studi svolti ad Orvieto divenne insegnante e tale mestiere praticò fino alla pensione. Scrisse versi che pubblicò in riviste e in volumi in cui predomina il tema della maternità.




Opere poetiche

"Il ritorno", Bemporad, Firenze 1922.
"Natività", Mondadori, Milano 1924.
"Le sette fontanelle", SEI, Torino 1933.
"Respingo il sole", Marzocco, Firenze 1953.
"Il tempo è uguale", Marzocco, Firenze 1956.
"Erbe tra i sassi", Barbera, Firenze 1964.
"Labirinti della memoria", Barbera, Firenze 1970.
"Alla finestra", Barbera, Firenze 1979.




Presenze in antologie

"La fiorita francescana", a cura di Tommaso Nediani, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo 1926 (pp. 355-356).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VI, pp. 104-108).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 450-451)
"Antologia della Poesia Italiana Cattolica del Novecento", a cura di Mario Nanteli, UPSCI, Roma 1959 (pp. 273-275).




Testi

IO SONO MAMMA

Io sono mamma! Ho un angelo sul petto
che si nutre di me, dei miei pensieri,
che ha fatto il nido suo presso il mio letto,
e i sogni guida in limpidi sentieri.

Io sono mamma! E bacio l'angioletto
che schiude agli occhi miei nuovi misteri:
nulla chiedo alla vita e nulla aspetto,
da che ridono a me quest'occhi neri.

S'è dileguato il senso d'ogni noia
nella casa che palpita serena
come l'anima mia pronta alla gioia.

O figlio, figlio mio, con te vicino
buona la vita sento, dolce e piena,
sento compiuto tutto il mio destino.

(Da "Natività")

lunedì 23 marzo 2015

I vènti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Il vènto, quanto è fastidioso! Sia di tramontana, gelido e penetrante, che non riesci a proteggerti neppure se indossi due cappotti; sia di scirocco, che ti procura un malessere generalizzato, che fatichi persino a respirare e non sai dove trovare scampo; sia di libeccio, poiché le famigerate libecciate sono potentissime, e spazzano via ogni cosa che incontrano (perfino tu barcolli quando cammini controvènto); sia di maestrale, che non è gelido, ma freddo sì, ed anche intenso; e poi c'è il grecale: il più freddo dei vènti che, alcune volte, ci porta la neve. No, non amo le giornate vèntose, e quando arrivano preferirei di gran lunga rimanere in casa, aspettando che i vènti cessino e che torni la calma.



AL VENTO D'INVERNO IN ROCCASTRADA

di Carlo Betocchi (1899-1986)

Io, qui in turrite case
ràbido cane t'attendo:
miro le stelle invase
da un celestiale sgomento;
e in aere deserto il cielo
morir sul tuo rapido gelo.

Là, dove son romite
valli monotone, spente,
acque lacustri e trite
stagnandovi sonnolente
nasci, e per sete del mondo
balzi nel cielo profondo.

Come colui che in caccia
affronta montagne e valli
fiuti l'azzurra traccia
dei venti, e il selvaggio hallalli!
hallalli! latri, selvaggio
nemico del dolce maggio.

Con la tua alta fame
che niuno sa di che fatta
urli vittorie strane,
sibili e scrolli la fratta,
e rechi, nel cielo fosco,
la gialla morte del bosco.

Conquistator d'inverno
che, dunque, porti in tua palma?
col tuo urlo d'inferno
sulla morente campagna?
Balzi, e com'aquila infesta
vola l'invitta tempesta.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984)





IL VENTO, ECCO IL MIO VENTO AUTUNNALE
di Giovanni Descalzo (1902-1951)

Il vento, ecco il mio vento autunnale
con la sua salda frenesia di scoppi
tra le rame impigrite e il mugghio sordo
dell'onde che travolge.
Mi sento avvolto nella corrente
quale pianta che lascia
predare foglie e speranze.

(Da "La vana fatica", San Marco dei Giustiniani, Genova 2002)





IL VENTO
di Luisa Giaconi (1870-1908)

Qualcuno spinge la mia porta, l'agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera...
È il vento che si leva, è il vento.

Egli ha la voce delle turbe pazze di spavento,
egli ha lo scroscio degli oceani, l'ansar delle selve,
e par che aspetti con un lungo bramito di belve...
È il vento che si lagna, è il vento.

Ora, dopo un mormorio stanco di sistri d'argento
sosta, come chi troppo, troppo lungamente pianse,
come nell'ansia d'una prece che un singhiozzo franse...
È il vento che riposa, è il vento.

In vano sotto al fioco lume che fiammeggia lento
io schiusi il libro che i momenti deserti consola,
in vano io tesi anima e sensi a un'altra parola...
È il vento che mi chiama, è il vento.

Nell'ombra, che come un oceano mi circonda, sento
che passa e passa senza fine un'ignota pesta,
un soffio sveglia ora la lunga mia tosse funesta...
È il vento che cammina, è il vento.

Ecco, e alla fine con più fieri gemiti irruento
egli spalanca la mia porta ch'io gli opposi dura;
s'odon misteriosi schianti per la casa oscura...
È il vento che mi cerca, è il vento.

Ei volta al libro le profonde pagine violento,
le straccia come in una vana ansia della fine,
e abbassa e spegne la tremante lampada alla fine...
È il vento che c'incalza, è il vento.

(Da "Tebaide", Zanichelli, Bologna 1912)





TRAMONTANA
di Adriano Grande (1897-1972)

La tramontana ti porta ai mattini
di fanciullezza, al gelo
sulle fontane, a quando, con le dita
spaccate dai geloni,
pulivi le vetrine del merciaio
e t'incantavi a contemplar le frange
delle sciarpe di seta
che ad ogni colpo del tuo strofinaccio
salivano dal fondo verso i vetri
come fibre marine nell'acquario.

Anche rivedi, in oscillante abbaglio
d'acetilene, il mondo
sguaiato delle maschere ch'entrava
usciva dal nevischio e che una notte
intiera ti costrinse dentro l'àndito
d'una gargotta, impaniate le penne
dell'anima da risa grossolane.

I calcinosi visi dei pupazzi
viventi, i brevi sprazzi
di luce colorata,
i goffi tonfi dell'ossessionante
musica dalla sala, travolgevano
la tua tristezza in un lucido inferno.

Finché non scese l'alba, illividita
dal fiato dell'inverno, a rivelare
i coriandoli sporchi
e le stelle filanti calpestate,
pian piano ti mordesti
le dita fino a farle sanguinare.

Intanto spalancavi, pur pregando
in te di non poter mai diventare
simile a quella gente
orrenda, tutte quante
le porte del tuo essere alle brame
convulse e rumorose della vita
che sentivi sbagliate.

(Da "Fuoco bianco", Ed. della Meridiana, Torino 1950)





MAESTRALE
di Eugenio Montale (1896-1981)

S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.

Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.

Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.

O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi tuoi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:

sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai:perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»!

(Da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1948)





LIBECCIO
di Mario Novaro (1868-1944)

Libeccio furioso sfrenato
tu che pieghi durevolmente gli ulivi,
che pur nella calma
a te seconde stendan le braccia:
tu vento che l'onde volgi maggiori,
che i moli oltrepassino gonfie
spumeggiando in tumulto,
belle e tremende a vedere:
libeccio, tu che soffi che soffi a gran voce
coprendo la voce del mare
(oh come tu amando lo sferzi!
fin qui sul colle gli spruzzi ne perdi!)
bruciando, rapendo
pur le foglie de' lecci tenaci,
strinando i pini
e alle palme le chiome di serpi
che per te sibilano
e urlano col mare a gara:
non mi sdegnare!
poi che sempre sempre io ti amai:
soffia, soffia, soffia,
non aver pace nel cuore mio!
oh non è in pianto
che tu rompi il tuo canto possente:
la pioggia che ti scroscia seguace
lava il cielo e la terra feconda.

(Da "Murmuri ed echi", Ricciardi, Napoli 1941)





SCIROCCO
di Lucio Piccolo (1901-1969)

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri...

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

(Da "Canti barocchi e Gioco a nascondere", Scheiwiller, Milano 2001)





VENTO DI NOTTE
di Agostino Richelmy (1900-1991)

Nel silenzio notturno arriva il vento,
gonfia l'aria vagante,
diafana belva ai monti e alla pianura
fuggente e inseguitrice:
brucia nei viali i rami,
nelle vie vuote si atterrisce e raspa
sotto gli usci e agli spigoli,
tocca finestre da lunghe ore prive
di luce vegliatrice.

Ancora un poco, o sonno,
nella pausa protetta delle stanze
chiudi palpebre e menti,
con pietosa dolcezza
alle donne e agli uomini
che amandole ne spensero il brillio,
a bambini e bambine
nati da loro e di null'altro eredi
che d'assai più profondo sonno poi.

(Da "Poesie", Garzanti, Milano 1992)





GIORNO DI VENTO
di David Maria Turoldo (1916-1992)

E sono senza pietà per questo
mio cuore denudato;

come un giorno di vento
un albero batteva alla finestra
con braccia dementi
il mare era tutto un pianto;

e giù alla riva appena
respiravano le pietre
coperte di schiuma,
e c'erano rottami
di brache e di rami
e una scarpa gettata tra i sassi
e un lembo di veste;

ed io guardavo ridendo
ai vetri della cella.

(Da "O sensi miei...", Rizzoli, Milano 2002)





GRECALE
di Giuseppe Vilaroel (1889-1968)

Ore d'infanzia alla città natale,
approdo di velieri levantini.
Nelle icone del porto i suonatori
ciechi, con ronfi di chitarre e gli urli
delle sirene e il fumo dei camini
tra le raffiche nere del grecale.

(Da "Ingresso nella notte", Vallecchi, Firenze 1943)