lunedì 23 marzo 2015

I vènti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Il vènto, quanto è fastidioso! Sia di tramontana, gelido e penetrante, che non riesci a proteggerti neppure se indossi due cappotti; sia di scirocco, che ti procura un malessere generalizzato, che fatichi persino a respirare e non sai dove trovare scampo; sia di libeccio, poiché le famigerate libecciate sono potentissime, e spazzano via ogni cosa che incontrano (perfino tu barcolli quando cammini controvènto); sia di maestrale, che non è gelido, ma freddo sì, ed anche intenso; e poi c'è il grecale: il più freddo dei vènti che, alcune volte, ci porta la neve. No, non amo le giornate vèntose, e quando arrivano preferirei di gran lunga rimanere in casa, aspettando che i vènti cessino e che torni la calma.



AL VENTO D'INVERNO IN ROCCASTRADA

di Carlo Betocchi (1899-1986)

Io, qui in turrite case
ràbido cane t'attendo:
miro le stelle invase
da un celestiale sgomento;
e in aere deserto il cielo
morir sul tuo rapido gelo.

Là, dove son romite
valli monotone, spente,
acque lacustri e trite
stagnandovi sonnolente
nasci, e per sete del mondo
balzi nel cielo profondo.

Come colui che in caccia
affronta montagne e valli
fiuti l'azzurra traccia
dei venti, e il selvaggio hallalli!
hallalli! latri, selvaggio
nemico del dolce maggio.

Con la tua alta fame
che niuno sa di che fatta
urli vittorie strane,
sibili e scrolli la fratta,
e rechi, nel cielo fosco,
la gialla morte del bosco.

Conquistator d'inverno
che, dunque, porti in tua palma?
col tuo urlo d'inferno
sulla morente campagna?
Balzi, e com'aquila infesta
vola l'invitta tempesta.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984)





IL VENTO, ECCO IL MIO VENTO AUTUNNALE
di Giovanni Descalzo (1902-1951)

Il vento, ecco il mio vento autunnale
con la sua salda frenesia di scoppi
tra le rame impigrite e il mugghio sordo
dell'onde che travolge.
Mi sento avvolto nella corrente
quale pianta che lascia
predare foglie e speranze.

(Da "La vana fatica", San Marco dei Giustiniani, Genova 2002)





IL VENTO
di Luisa Giaconi (1870-1908)

Qualcuno spinge la mia porta, l'agita violento;
qualcuno piange con dei lunghi gemiti stasera,
uno che corse sibilando per la notte nera...
È il vento che si leva, è il vento.

Egli ha la voce delle turbe pazze di spavento,
egli ha lo scroscio degli oceani, l'ansar delle selve,
e par che aspetti con un lungo bramito di belve...
È il vento che si lagna, è il vento.

Ora, dopo un mormorio stanco di sistri d'argento
sosta, come chi troppo, troppo lungamente pianse,
come nell'ansia d'una prece che un singhiozzo franse...
È il vento che riposa, è il vento.

In vano sotto al fioco lume che fiammeggia lento
io schiusi il libro che i momenti deserti consola,
in vano io tesi anima e sensi a un'altra parola...
È il vento che mi chiama, è il vento.

Nell'ombra, che come un oceano mi circonda, sento
che passa e passa senza fine un'ignota pesta,
un soffio sveglia ora la lunga mia tosse funesta...
È il vento che cammina, è il vento.

Ecco, e alla fine con più fieri gemiti irruento
egli spalanca la mia porta ch'io gli opposi dura;
s'odon misteriosi schianti per la casa oscura...
È il vento che mi cerca, è il vento.

Ei volta al libro le profonde pagine violento,
le straccia come in una vana ansia della fine,
e abbassa e spegne la tremante lampada alla fine...
È il vento che c'incalza, è il vento.

(Da "Tebaide", Zanichelli, Bologna 1912)





TRAMONTANA
di Adriano Grande (1897-1972)

La tramontana ti porta ai mattini
di fanciullezza, al gelo
sulle fontane, a quando, con le dita
spaccate dai geloni,
pulivi le vetrine del merciaio
e t'incantavi a contemplar le frange
delle sciarpe di seta
che ad ogni colpo del tuo strofinaccio
salivano dal fondo verso i vetri
come fibre marine nell'acquario.

Anche rivedi, in oscillante abbaglio
d'acetilene, il mondo
sguaiato delle maschere ch'entrava
usciva dal nevischio e che una notte
intiera ti costrinse dentro l'àndito
d'una gargotta, impaniate le penne
dell'anima da risa grossolane.

I calcinosi visi dei pupazzi
viventi, i brevi sprazzi
di luce colorata,
i goffi tonfi dell'ossessionante
musica dalla sala, travolgevano
la tua tristezza in un lucido inferno.

Finché non scese l'alba, illividita
dal fiato dell'inverno, a rivelare
i coriandoli sporchi
e le stelle filanti calpestate,
pian piano ti mordesti
le dita fino a farle sanguinare.

Intanto spalancavi, pur pregando
in te di non poter mai diventare
simile a quella gente
orrenda, tutte quante
le porte del tuo essere alle brame
convulse e rumorose della vita
che sentivi sbagliate.

(Da "Fuoco bianco", Ed. della Meridiana, Torino 1950)





MAESTRALE
di Eugenio Montale (1896-1981)

S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.

Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.

Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.

O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi tuoi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:

sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai:perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»!

(Da "Ossi di seppia", Mondadori, Milano 1948)





LIBECCIO
di Mario Novaro (1868-1944)

Libeccio furioso sfrenato
tu che pieghi durevolmente gli ulivi,
che pur nella calma
a te seconde stendan le braccia:
tu vento che l'onde volgi maggiori,
che i moli oltrepassino gonfie
spumeggiando in tumulto,
belle e tremende a vedere:
libeccio, tu che soffi che soffi a gran voce
coprendo la voce del mare
(oh come tu amando lo sferzi!
fin qui sul colle gli spruzzi ne perdi!)
bruciando, rapendo
pur le foglie de' lecci tenaci,
strinando i pini
e alle palme le chiome di serpi
che per te sibilano
e urlano col mare a gara:
non mi sdegnare!
poi che sempre sempre io ti amai:
soffia, soffia, soffia,
non aver pace nel cuore mio!
oh non è in pianto
che tu rompi il tuo canto possente:
la pioggia che ti scroscia seguace
lava il cielo e la terra feconda.

(Da "Murmuri ed echi", Ricciardi, Napoli 1941)





SCIROCCO
di Lucio Piccolo (1901-1969)

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri...

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

(Da "Canti barocchi e Gioco a nascondere", Scheiwiller, Milano 2001)





VENTO DI NOTTE
di Agostino Richelmy (1900-1991)

Nel silenzio notturno arriva il vento,
gonfia l'aria vagante,
diafana belva ai monti e alla pianura
fuggente e inseguitrice:
brucia nei viali i rami,
nelle vie vuote si atterrisce e raspa
sotto gli usci e agli spigoli,
tocca finestre da lunghe ore prive
di luce vegliatrice.

Ancora un poco, o sonno,
nella pausa protetta delle stanze
chiudi palpebre e menti,
con pietosa dolcezza
alle donne e agli uomini
che amandole ne spensero il brillio,
a bambini e bambine
nati da loro e di null'altro eredi
che d'assai più profondo sonno poi.

(Da "Poesie", Garzanti, Milano 1992)





GIORNO DI VENTO
di David Maria Turoldo (1916-1992)

E sono senza pietà per questo
mio cuore denudato;

come un giorno di vento
un albero batteva alla finestra
con braccia dementi
il mare era tutto un pianto;

e giù alla riva appena
respiravano le pietre
coperte di schiuma,
e c'erano rottami
di brache e di rami
e una scarpa gettata tra i sassi
e un lembo di veste;

ed io guardavo ridendo
ai vetri della cella.

(Da "O sensi miei...", Rizzoli, Milano 2002)





GRECALE
di Giuseppe Vilaroel (1889-1968)

Ore d'infanzia alla città natale,
approdo di velieri levantini.
Nelle icone del porto i suonatori
ciechi, con ronfi di chitarre e gli urli
delle sirene e il fumo dei camini
tra le raffiche nere del grecale.

(Da "Ingresso nella notte", Vallecchi, Firenze 1943)

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