martedì 11 novembre 2014

San Martino (da un album)

Sempre ti vedo e penso, San Martino,
solo soletto e di notte in cammino.
Ed è la notte dei tempi, un piovoso
Medioevo remoto e pauroso.
Sei così rustico, sei così antico,
e così serio in volto e così amico!
Vai per terre e per borghi a passi eguali,
buon pellegrino, e liberi i mortali
d'ogni male, fai piovere e ristare,
della campagna nume tutelare.
Magno Martino, santo parrocchiano,
tutto tu puoi sul popolo cristiano.
A un tuo cenno è sconfitto anche il demonio
che tentò nel deserto Sant'Antonio.




NOTA

La poesia San Martino di Vincenzo Cardarelli (1887-1959), uscì per la prima volta ne Il Tesoretto. Almanacco delle lettere. 1939, Milano, Edizioni Primi Piani, 1939. Fu quindi inserita nel volume dei Meridiani della Mondadori dedicato al poeta di Tarquinia: Opere, la cui prima edizione fu stampata nel 1981; qui, la suddetta poesia è inserita nelle Poesie disperse. Per il medesimo argomento e per la stessa, inedita forma di filastrocca, è interessante, dello stesso autore, leggere anche Santi del mio paese.



El Greco, "San Martino e il mendico"

domenica 9 novembre 2014

Può bastare poco

Può bastare poco a riprendere fiato,
uno slancio puerile, un impeto a vuoto.
Non conosco le strade che calpesto,
i muri che rasento sconosciuto.
Come un ebete urlo a mani alzate.
La vita non l'ho combattuta.
Ho schiacciato la miccia sotto i tacchi,
ho franto i fiori tra le dita.
E non mi accosto più
ai vecchi affetti, alle insegne abbattute.
Io allargo intorno il vuoto.



COMMENTO

La poesia di Leonardo Sinisgalli (1908-1981) intitolata Può bastare poco, fa parte della raccolta L'età della luna (Mondadori, Milano 1962). Il testo mostra una sorta di dramma personale, un senso di sconfitta, di inutilità e di vuoto che il poeta evidenzia in modi originali. Già i primi due versi spiegano che, per superare un momento critico della vita (riprendere fiato), non serve un evento importante, ma una semplice emozione o una piccola, stupida gioia momentanea. Dopo questa osservazione Sinisgalli sembra che inizi a fare un bilancio della propria esistenza, palesando un senso di estraneità nei confronti della società e delle cose che lo circondano; si rende conto di non aver vissuto come avrebbe voluto, di aver perso le occasioni, di aver rinunciato al combattimento per ottenere qualcosa d'importante. Alla fine, ciò che gli rimane è soltanto il vuoto, l'isolamento. Ma s'intuisce che in fondo, forse inconsciamente, il poeta ha cercato e voluto una situazione del genere, e che oltretutto tende a consolidarla.


Edvard-Munch, "Melancholia"

sabato 8 novembre 2014

San Martino e dintorni in 10 poesie italiane

San Martino cade l’11 novembre di ogni anno. Il clima dei nostri tempi, è cambiato: l’inquinamento atmosferico, come tutti sanno, ha causato un costante innalzamento delle temperature, mutando drasticamente le classiche caratteristiche delle stagioni. L’estate di San Martino, oggi, per i motivi che ho spiegato, non è più identificabile climaticamente parlando; in passato era un periodo compreso nella prima metà di novembre, e coincideva spesso con una serie di giornate serene, tiepide, tanto da far pensare ad un ritorno dell’estate. Ovviamente non sempre il tempo regalava queste belle giornate, ma già il fatto che in diversi anni, tale evento si ripetesse, fece in modo che gli esseri umani fantasticassero su una repentina e inattesa ricomparsa dell’estate, destinata durare pochissimi giorni. Ecco, a tal proposito, una serie di poesie italiane dell’Ottocento e del Novecento che parlano del giorno di San Martino e della sua estate.





SAN MARTINO

di Giosuè Carducci (1835-1907)

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale 
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini 
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi 
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

(Da "Rime nuove", 1889)





NELL'ESTATE DEI MORTI
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Guarda. Non ha la terra una pianura
più dolce. Sotto l’autunnale giorno
come regina sta, porpora e oro,
immemore de l’alta genitura.
Alte le biade, se ricordi, in torno
fluttuavano come un mar sonoro,
avanzando la grande tua figura.

Guarda le nubi. Fendono leggère
talune il cielo come le galere
un ellesponto cariche di rose
che si riversan pe’ ricurvi fianchi;
vanno talune come gloriose
quadrighe tratte da cavalli bianchi;
figurando la forza ed il piacere.

Dense come tangibili velarii
scorrono il piano le lunghe ombre loro.
Entro splendonvi or sì or no le vigne
pampinee, le pergole, i pomarii,
e le foreste da la chioma insigne,
e tutte quelle sparse cose d’oro,
come entro laghi azzurri e solitarii.

Guarda. Ti dà la terra tutti i suoi
pensieri. Lèggi. Mai per le sue forme
visibili ella espresse più profondi
pensieri. (Io ben li leggo ora, da poi
che tu nel giorno più non mi nascondi
il sole.) Guarda come ella s’addorme
ne’ suoi pensieri. - Che faremo noi?

Oggi, per far più cupo il tuo pallore,
per far più triste l’anima dolente,
evocherò, come più tristamente
non volli mai - con una melodia
infinita, continua, che sia
senza numero quasi -, un grande amore
passato, un grande lontano dolore.

Tendevi, ne la luce ultima, ieri
verso i tuoi fulvi alberi ancor vocali,
tendevi tu l’orecchio, - ti ricordi? -
proclive, come un musico che accordi
una lira; ed a te l’ombre dei neri
capelli in fronte battevan come ali.
E parevi diffusa in quei misteri.

Or tu m’odi ne l’atto che mi piacque,
t’inclina al verso come a quel susurro
di morienti nel letale occaso.
Rimanesti in ascolto quando tacque,
immota; e l’ora ti coprì d’azzurro
e di silenzio pia. Sole, nel vaso
marmoreo, per te piansero l’acque.

Piansero quelle ch’eran sì canore!
Scendea l’azzurro col silenzio e il gelo
notturno, senza fine; senza fine
gli astri sgorgavan come adamantine
lacrime dal profondo cielo; e il cielo
era lontano come un grande amore
passato, un grande lontano dolore.

Odimi, reclinata verso il suono.
L’anima imperiosa, dal suo trono
piegando verso me che parlo, m’oda.
La farò triste come non fu mai.
Sol una volta almen tu piangerai,
tu che non ridi al verso che ti loda
e scuoti il capo quando io t’incorono.

(Da "Poema paradisiaco", 1893)





WATERLOO
di Romualdo Pantini (1877-1945)

San Martino, bel santo della guerra,
oggi ch'è la tua festa qua discendi,
e l'ombra de la tua lancia protendi
sopra la dissodata umida terra!

Chi mai t'invochi in questo dì non erra:
che nel primaveril sole risplendi,
e di luce benefica raccendi
ogni zolla che ancor sangue rinserra.

Ma i cavalli, che già scosser di polve
nembi pugnaci, traccian lenti i solchi
allo stanco richiamo dei bifolchi.

E al clangor delle trombe non risponde
che il fischio del vapor, e '1 sol confonde
con gli ori suoi la gloria e la dissolve.

(Da "Antifonario", 1906)





SAN MARTINO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

La prima neve subito si squaglia,
e di ruscelli abbevera i maggesi.
Avvezzi i pin dei venti alla battaglia,
stanno nell'aria tepida sorpresi.

Ma per che l'ala intirizzita pesi
al passerotto che qua e là si scaglia;
e tace il verso dei tacchini vanesi,
e stecchita si drizza la boscaglia.

Pur se questo, Novembre, è un tuo trastullo,
e di timo non hai cespo che odori,
né lodoletta e lasci il pesco brullo,

mi piace il gesto tuo, perché t'accori
d'esser barbogio e vuoi tornar fanciullo,
come d'un vecchio che raccolga fiori.

(Da "Resine", 1911)





INSALATA DI SAN MARTINO
di Ernesto Ragazzoni (1870-1920)

I
È una tepida estate
di San Martino, tanto
dolce che le giornate
d’April non hanno incanto

maggior. Le stesse foglie
secche, per i vïali
più che l’aria di spoglie,
hanno un aspetto d’ali

mutevoli, lunghesso
i fossi e dentro i carri,
che se le tiran presso
in turbini bizzarri.

Io vo’ pei campi; avanzo
oltre i sentieri, e fumo,
contandomi un romanzo
per mio uso e consumo;

dove, com’è disegno
nelle oleografie,
ci son isbe di legno
sotto la neve, vie

tra pioppi ermi al tramonto,
cacciatori in cucina
attorno a un pasto pronto;
un’Ada, un’Ermelina

che guardan pei cancelli
se giunge Adolfo, Arturo;
rovine di castelli
chiuse in un cielo oscuro,

sassi di muriccioli
coll’edera, e un mendìco...
mulini... boscaiuoli...
un pozzo sotto un fico,

bimbi affacciati ai vetri
che guardan, chi sa dove;
passan forme di spetri
(son tanti dì che piove);

nubi, e una spiaggia incolta.
Insomma, l’arsenale
completo d’una volta,
romantico - autunnale.


II
Io vo’ pei campi, fiuto
per l’aria odor di tordi
arrosto, in un velluto
— cari! — di lardo a fior di

fiamma sovra uno spiedo;
e il buon odor mi viene
da un luogo che non vedo,
ma certo assai dabbene.

O pace! Che mai l’oste
mi servirà stasera?
Forse le caldarroste
— o pace! — e del barbera?

O le pere in giulebbe...
(che giorni ha San Martino!)
Né mi dispiacerebbe
prima uno stufatino.

Che pace! È come un lento
lasciarsi andare a caso
s’un fiume sonnolento,
incontro a un bell’occaso...

L’acque, in un loro velo
viola e d’or, pare ardano;
e sono l’acque e il cielo
silenzi che si guardano.

Io vo’ pei campi. Lungi
bruciano forse stipa,
c’è un fumo, e ve ne aggiunge
pur uno la mia pipa.

Oh, il fumo? Chi la sente
la nostalgia che ha
il fumo — che, silente —,
d’autunno se ne va,

(esule e senza casa)
d’autunno, e verso sera...
sulla campagna rasa...
ombra che si fa nera!

Con che, detta la mia,
(come la mulinavo!)
brava corbelleria,
fo’ punto, e vi son schiavo.

(Da "Poesie", 1927)





ESTATE DI SAN MARTINO
di Emilio Girardini (1858-1946)

Oh, la piccola estate! Al tempo bello
il tardo autunno infreddolito e vizzo
si ringalluzza come un vecchierello
che dal cantuccio ai campi esce rubizzo.

Io pur l'aggranchita anca mi rizzo
e lungo i miei viottoli, bel bello,
nel sole, a la vitalba, acceso tizzo,
sosto, o a una rosa languida a un cancello.

Ma, giunto a un bivio, simili a orfanelle,
se vogliono la madre che non hanno,
gemere udendo al vento tre alberelle

a piè di un calvo e taciturno abete,
m'auguro, sciolto dal fugace inganno,
fra quattro sue compatte assi quiete.

(Da "I canti della sera", 1931)





SAN MARTINO
di Luigi Fallacara (1890-1963)

L'autunno, doratura
d'alberi e di paesi,
sulla nera pianura,
gli aridi fuochi ha accesi.

Passeggero brillare
di splendori fra i rami,
dolce sogno a sognare,
per me senza richiami.

Guardo, appare, si perde,
ciglio di neonata,
l'esile filo verde
del grano dell'amata.

Le bianche radichette
affonda la semente,
la primavera mette
oggi il suo primo dente.

(Da "Antologia", 1934)





ESTATE DI SAN MARTINO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Le colline e le rive del Po sono un giallo bruciato 
e noi siamo quassù a maturarci nel sole. 
Mi racconta costei - come fossi un amico -
«Da domani abbandono Torino e non torno mai più.
Sono stanca di vivere tutta la vita in prigione».
Si respira un sentore di terra e, di là dalle piante,
a Torino, a quest'ora lavorano tutti in prigione.
«Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola
senza piangere e senza pensare alla gente che vive.
Là mi caccio  un grembiale e mi sfogo  in cattive risposte
ai parenti e per tutto l'inverno non esco mai più».
Nei paesi novembre è un bel mese dell'anno:
c'è le foglie colore di terra e le nebbie al mattino,
poi c'è il sole che rompe  le nebbie. Lo dico tra me
e respiro l'odore di freddo che ha il sole al mattino.
«Me ne vado perché è troppo bella Torino a quest'ora:
a me piace girarci e vedere la gente
e mi tocca star chiusa finch'è tutto buio
e la sera soffrire da sola»! Mi vuole vicino
come fossi un amico: quest'oggi ha saltato  l'ufficio
per trovare un amico. «Ma posso star sola cosi?
Giorno e notte -l'ufficio - le scale - la stanza da letto
se alla sera esco a fare due passi non so dove andare
e ritorno cattiva e al mattino non voglio più alzarmi.
Tanto bella sarebbe Torino - poterla godere 
solamente poter respirate». Le piazze e le strade
han lo stesso profumo di tiepido sole 
che c'è qui tra le piante. Ritorni al paese.
Ma Torino è il più bello di tutti i paesi. 
«Se trovassi un amico quest'oggi, starei sempre qui».

(Da "Poesie del disamore", 1977) 





ESTATE DI SAN MARTINO
di Gian Carlo Conti (1928-1983)

Una nebbia sospesa appena si distende
sui neri solchi e le siepi già irte,
ma il sole è ancora tiepido
in questa lunga estate di San Martino
in cui cammino a passi lenti per la via,
che non conduce più a verdi paradisi,
ma ad una casa vicina,
al naturale confine della vita.

(Da "Il profumo dei tigli", 1960)





L'ESTATE DI SAN MARTINO
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Questi che scopa, scopa
le sue foglie d'autunno
nel sol di San Martino,

questo buffo becchino,
in tuta, malinconico,
che i pensieri di casa

nella scopa travasa,
mentre la fa pei lastrici
puliti andar per nulla

tra il vento che gli frulla
le crepitanti foglie,
via! povero gnomo...

E soltanto gli giova,
di quel lavoro inutile,
quel che ripensa e cova

dell'umil vita in sé:
lì presso, intanto, un cumulo
di tali foglie brucia,

e quieto par che dica:
- Ad altro indirizzo
col mio bel ghiribizzo

di fumo al vento; e... senti,
senti sì come odora
di ciò che fu e sarà! -

Di quante libertà
fatto è il mattino: ognuno
ha la sua propria, e tutte

ne fann'una; e niuna è sola,
e tutte sono sole:
e c'è il sole per tutti.

Anche per me, simpatico
passeggiator che passo
e sbocconcello un pane

con l'uva e il ramerino,
e con l'occhio strapazzo
(tal quale un giovinastro

le fuggiasche ragazze),
l'aria fresca, pungente,
le frasche d'un giardino,

il mio caro spazzino.

(Da "L'Estate di San Martino", 1961)

domenica 2 novembre 2014

Novembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Novembre, penultimo mese dell'anno, detto anche "mese dei morti", perché nel suo secondo giorno ricorre la commemorazione dei defunti. Per quanto mi riguarda, ho sempre amato Novembre, che viene troppo spesso descritto in modo negativo, con aggettivi che si rifanno a sentimenti tristi. Purtroppo, negli ultimi anni a Novembre sono accaduti eventi climatici e atmosferici tali da renderlo ancor più odioso. Ma se accade questo, se le piogge sono sempre più abbondanti e violente, se si susseguono alluvioni, bombe d'acqua e quant'altro, è veramente colpa di Novembre? Non c'entra nulla l'uomo? Comunque la pensiate, ecco 10 poesie di 10 poeti italiani dell'Ottocento, in cui Novembre viene descritto con quel romanticismo che ancora era di moda in quel secolo per noi così lontano. Com'era bello, allora, il Novembre!



NOVEMBRE
di Fausto Bonò (1832-1890)

Stavamo alla finestra,
Ed attraverso i vetri
Vedevansi grigi e tetri
Gli orti, le case, il ciel;

Mentre le morte foglie
Che con fioco lamento
Fea turbinare il vento
Portava il fiumicel.

Noi tacevam: tremando
Sulla chiusa vetrata
Dall'alito offuscata
Io scrissi: - T'amo, e tu? -

Ella arrossì: col dito
Scrisse non so che cosa,
Ma il ciel si tinse in rosa,
Altro non vidi più.

(Da "Poesie edite e inedite", 1890)





AL PITTORE LORENZO DELLEANI
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Conoscete in Val Pesio il paesello,
Il grigio guardian della vallata?
Incubo e spia, gli sovrasta il castello
Dalla montagna squallida e bruciata.

Strepitante di sol, taglia il murello
I bitumi e le ombrìe della borgata,
E il campanile scintillante e snello
Fende l’aria autunnale immacolata.

È il giorno sesto di novembre, è l’ora
In cui fumano i tetti, e barcollando
L’enorme disco rovente si affonda

Nel zaffir delle gravi Alpi; e tu ancora
Una volta, sognando e contemplando,
Stampasti la virile orma profonda.

(Da "Poesie", 1968)





NOVEMBRE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Da gli alberi le foglie ad una ad una
Con mesto crepitìo cascano giù:
Così è caduto l'amor mio; nessuna
Dolce speranza in cor palpita più!

Passò l'estate, ahimé! l'ore gioconde...
Il sorriso dei miti occhi passò;
Venne la pioggia delle foglie bionde,
E l'inverno del cuor seco portò.

(Da "Il canzoniere del villaggio", 1898)





LA FINE VOLGARE E TENERA
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Le povere viole hanno un lontano
odor di morte che mi fa sognare:
violettine di novembre rare
portemi dalla tanto amata mano!

Ella le tolse — oh vi morìan sì bene! -
dalla pelliccia della sua mantella:
le violette nella mano bella
avevano il color delle sue vene:

care pallide vene ove già tanto
s'indugiò la bocca disiosa:
care pallide mani ove il mio pianto
cadea come rugiada entro una rosa.

Io le dissi: Amor mio, ti sovverrai,
ti sovverrai di me, sempre? Sorrise
ella, la mano dalla mia divise,
— oh! il sorriso più triste che fu mai -

e mormorò misteriosamente:
Si; per sempre: ricordati anche tu...
Io non risposi, io non risposi più...
Mi figurai la cara bocca assente,

la cara mano ad altre strette unita:
e un dolore cocente, una paura
della mia solitudine futura
mi traboccò nell'anima smarrita.

Strinsi la mano gelida, la mano
spoglia del guanto; e le dissi: Perdona,
quanto cattivo io fui, tu che sei buona,
tu che tenera sei, quant'io fui vano...

Ti sovvenga di me come di un mite
ricordo, di un amor dolce, o diletta:
o mille e mille volte benedetta
l'anima che fu vostra benedite.

Oh! il sottil gesto! Ella tolse dal petto
le violette di novembre, rare:
eran fresche così, d'un violetto
così molle, così piccole e chiare,

ch'io ripensai le sue piccole vene
tramanti l'epidermide sottile,
e la dolcezza del "Ti voglio bene„
detto altre volte al polso signorile.

Con strider lungo un tram sopravveniva:
ella alzò il braccio, lenta, in gesto lento:
mentre il tram si fermava, io lo rammento,
vidi che il dolce viso impallidiva.

Poi salì: mi gettò come un addio
il suo profumo di viole rare:
e fu la fine tenera e volgare
che la tolse al mio sogno e all'amor mio.

(Da "Il convegno dei cipressi", 1894)





TRISTEZZA DI NOVEMBRE
di Arturo Graf (1848-1913)

La prima neve imbianca
La sommità del colle:
Scende una pace stanca
Sulle mietute zolle.

Di trilli e di richiami
Più non risuona il bosco.
Oh, lo squallor dei rami
Nell’aer freddo e fosco!

La dïafana spera
Dello stagno sopporta
Qualche piuma leggiera
E qualche foglia morta,

E fa veder, raccolti
Nell’orbe che la chiude,
Gli spettri capovolti
Delle arbori ignude.

Fuor della rupe cava
Querulo il fonte sgorga;
Ma fiore più non lava
Che in suo margine sorga.

L’aere impigrito e denso
Smorza la luce e il suono;
Spira ogni cosa un senso
Di tedio e d’abbandono.

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.

Tornerai tu, se l’ôra
Blanda t’inviti, o maggio?
Rinverdiranno ancora
L’olmo, la quercia, il faggio?

Rinverdiran quei salci
Che dalla sponda a gara
Lentano i molli tralci
Sull’acqua muta e chiara?

Si copriran di novi
Fiori la piaggia e il brolo?
Rispunterà tra’ rovi
Il tenero giaggiolo?

Come novella sposa
Che s’alzi alla mattina,
Risorgerà la rosa
Dalla sua verde spina?

Faran da stranii lidi
Le rondini ritorno?
Pigoleranno i nidi
Al rinnovar del giorno?

O dolce primavera,
E tu che tanto amai,
Solitudine austera,
Vi rivedrò più mai?

D’una tristezza greve
L’anima mia s’ingombra:
Ecco la prima neve,
Ecco il silenzio e l’ombra.

(Da "Medusa", 1890)





LA GRIGIA NEBBIA DI NOVEMBRE...
di Olindo Guerrini (1845-1916)

La grigia nebbia di novembre ammanta 
Del paterno villaggio i casolari, 
Stridono i tizzi verdi in sugli alari, 
Geme il vento di fuori e il corvo canta. 

Oggi le donne pie disser la santa 
Prece dei morti a piè de' bruni altari, 
Ogni pietra, ogni croce oggi è compianta 
Dove dormon sepolti i nostri cari. 

Ma sono agli altri questi dì men gravi, 
Ma lieto il padre narra oggi al figliuolo 
Le antiche gioie e le virtù degli avi, 

Ma l'amor, la famiglia ad ogni duolo 
Recan oggi conforto e più soavi 
Sono i sorrisi, i baci... ed io son solo. 

(Da "Postuma", 1878)





NOVEMBRE
di Costantino Nigra (1828-1907)

Sull'irte stoppie dei mietuti campi
nella pianura grigia
la pioggia senza tuoni e senza lampi
scende lenta continua.

Come cappa di piombo, a poco a poco
s'abbassa il cielo. I villici,
nelle capanne affumicate, al fuoco
tendon le mani e guardano

per l'uscio aperto l'acqua che giù cade.
Ma l'affamata greggia
resta nei campi a divorar le rade
erbe del magro pascolo

nere di mota. Irrequieto attento
gira d'intorno e vigila
il cane, e su pel dorso ispido il vento
gli arruffa i peli ruvidi.

Ritto, appoggiato sul bastone, come
sentinella fantastica,
sta il pastor col cappuccio in sulle chiome
immoto all'intemperie.

Nella tasca ha la povera sua mensa,
dura ha la faccia ed ebete,
non favella, non opera, non pensa,
guata stupido ai nuvoli.

O vezzose Amarilli, o bionde Clori,
dai guarnelletti rosei,
o guinzagliate di nastrini e fiori
linde agnellette candide,

ecco il vostro Lindoro! Ahi! Sulla testa
ricci non ha né cipria,
e non vi mena ghirlandato a festa;
ai piedi nudi ha i zoccoli.

Ma dalla pieve suona il vespro. Ei piega
nel fango le ginocchia
e si fa segno di croce e prege.
Cade lenta la pioggia.

(Da "Idilli", 1893)





NOVEMBRE
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
                   senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
                   sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
                   fredda, dei morti.

(Da "Myricae", 1900)





NOVEMBRE
di Gabriele Rossetti (1783-1854)

Lascian gli alberi le spoglie
al venir dei dì brumali:
come cadono le foglie
così cadono i mortali;
ed ognuna, allor che scende,
par che dica a chi l'intende:

«Uom che passi, in me ti specchia,
se comprenderlo pur sai:
come fronda che s'invecchia
nel terren tu pur cadrai:
gioventù, se l'hai, si perde:
nell'estate anch'io fui verde».

Leve foglia, a te risponda
chi si sente un'alma in seno:
il mio corpo è gracil fronda
che rientra nel terreno:
tutto annunzia, a me d'intorno,
ch'indi venni e là ritorno.

Ma ragion che in me prevale
dice, unendosi alla fede,
ch'ho uno spirito immortale
come Quei che me lo diede:
torna al suol, ch'io tendo a Dio,
tu sei foglia, ed uom son io.

(Da "Poesie inedite e rare tratte dagli autografi", 1929)





NOVEMBRE
di Ulisse Tanganelli (1853-1931)

Distillano le rame a goccia a goccia
La lor malinconia nel tempo dolco;
È giallo d'acqua nei maggesi il solco,
E il primo verde del frumento sboccia.

Zirlano i tordi in cerca mattutina
Di ginepri odorati; il pettirosso
Torna alle siepi nella chiusa villa.
E fitta fitta un'acquerugiolina

Sopra il gran lutto del saturnio dosso
Piange l'occhio del ciel senza pupilla.
Non aura spira, né virgulto oscilla;

Tace d'intorno ogni tumulto umano,
Ma con singhiozzi di dolor silvano
Il rio percorre la materna roccia.

(Da "La buona dea", 1892)

Novembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ed ecco Novembre secondo i poeti italiani del Novecento. Si nota un insistente riferimento alla caduta quasi totale delle foglie dagli alberi; al vento che, spesso presente, soffia senza requie e disperde le foglie in terra; alla scarsa presenza di fiori; ai primi freddi che annunciano già l'imminente inverno... Ma, come spiegano altri versi, Novembre può ancora offrire delle belle giornate, anche se nel "cielo pacato" il sole è divenuto freddo, e non riesce più a scaldare chi ancora avrebbe tanto bisogno del suo calore; così, anche nei giorni soleggiati, affiora un senso di tristezza, e fa capolino "un sommesso piangere senza volto".


NOVEMBRE
di Corrado Alvaro (1895-1956)

Novembre, fa freddo qui in terra
e vogliono gli augelli fuggir;
attendono i morti sotterra
quegli altri che devon morir.

(Da "Il Viaggio", 1999)





ELEGIA DEL NOVEMBRE
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Dall'immortale pace
sorge vergine morte
e reca, al fin d'autunno,
sulle vigne contorte
i venti senza pace
e il vel notturno.

Il puro firmamento
in più luoghi maltisce,
e delle stelle il raggio
cela tra ombrose striscie
con il suo sentimento
alto e selvaggio.

Mena tra i giunchi e il nulla
per desolate piaggie
fiume che va diserto:
e l'alma roccia piange
l'onda, dov'ebbe culla,
in giogo aperto:

e la pigra fanciulla
che va cuore felice
coglie lungo la sponda:
non s'agita né dice
con la sua bocca brulla,
e in cuor le affonda.

Ma se alle case sue,
queste bagnate e frolle,
viene vergine morte;
che appaiono sul colle
tra le nebbie e son pure
apparse e morte:

qui, nel mio cuor, conserva
la colomb'alba un nido
bianco, com'ebbe l'ale:
che già, stamani, il fido
vol suo raccolsi, all'erma
montagna australe.

(Da "Tutte le poesie", 1984)





NOVEMBRE
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

Gli alberi sono rimasti senza foglie
e gemono al vento che le sparpaglia;
si trattiene ai tuoi occhi quel color di paglia
arido, che s'affolta alla tua soglia.
Se nella strada tu procedi, ascolti
che al tuo piede s'infrange
quasi un sommesso piangere senza volto...

(Da "Il fresco presagio", 2008)





NOVEMBRE A PESTO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ci furono le rose
un tempo, gli asfodeli.
Ora passa nei cieli
il cielo che rispose 

alla notte degli anni,
alle paludi,ai morti.
Ci restano più forti
del tempo questi inganni

della dolce stagione
E il povero che vede
fermarsi sul suo piede
il sole, già s'espone

al suo sorriso cieco.
Felice si somiglia,
balbetta con le ciglia
il soliloquio greco.

Poi trova il freddo, stretto
nelle stesse parole
con cui si scalda il petto.
A non volere vuole

il fondo del bicchiere.
La morte porge al nonno
degli anni sul braciere
di cenere quel sonno.

(Da "Tutte le poesie", 2005)





MOLTE VOLTE NOVEMBRE È RITORNATO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Molte volte Novembre è ritornato
Nella mia vita, e questo che oggi ha inizio
Non è il peggiore: quieto
Benché non privo di apprensioni. China
Mi trova su una culla, dove l'ultima
Mia nata dorme il misterioso
Profondo sonno dell'infanzia, ancora
Ospite più che cittadina in questo
Nostro mondo per lei straniero. Sento
La dolce ondata del latte salirmi
Al seno: tenerezza
Che di sé gonfia tutte le mie fibre,
Dilata i miei confini. Qui lo stanco
Sangue si rifà puro a una segreta
Sorgente, si rifà vergine e può
Calmar la sete di vergini labbra.
Il mio corpo è strumento di miracolo
Come già fu nel dare vita. Il seno
È la collina favolosa, scorrono
I fiumi d'abbondanza in un'età
D'oro, che segnerà
Per la creatura ignara il più profondo
Alveo della memoria, a cui più tardi
Ritornerà nel sogno o nel dolore...
Per lei intatta è l'immagine; per me
Che ne sono occasione, la scolora
Già il tempo, amaramente. È forse l'ultima
Volta che ho un figlio al seno, poiché incalzano
Gli anni ad inaridire
La mia linfa. Oggi sono
Ancora un vivo albero, frusciante
Di foglie, benedetto
Di succhi, ma in cammino è la stagione
Spoglia che su di me si chiuderà.
Tanto più dolce è questa sosta, prima
Ch'io stessa sia l'autunno: pure un'ombra
Di presagio la vela e di paura.
Il passo si stende alle mie spalle
Come una lunga via. So del futuro
Solo una cosa: che difficilmente
Potrà uguagliare per me la durata
Del tempo ch'è trascorso.

(Da "Le poesie", 1999)





NOVEMBRE
di Sergio Ortolani (1896-1949)

Vedo la casa tua china sugli orti
maceri, il fiume gonfio, il cielo scuro;
e pensosa seguir ti raffiguro
le foglie morte giù dai rami morti.

Anch'io recluso medito le lente
ore. La pioggia tremula s'adagia.
L'ombra bianchiccia come la bambagia
ricolma le contrade sonnolente.

Esco, e ti penso. Vedo il tuo vestire,
ma contro voglia, neghittosamente.
T'aspetto in piazza tra la poca gente
che borbotta: comincia a rinfreddire.

Ecco, tu passi, bianca fuggitiva,
lieve falena delle nere strade;
e sul mio sguardo che ti brucia viva
sento il tuo sguardo, gocciola che cade.

(Da "Poesie", 1957)





NOVEMBRE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Dei giovani e dei vecchi
si raggruppano
fra le rovine calde di Roma
su cui i platani lasciano cadere
con frusciare di carta
le loro foglie dorate.
I giovani
fanno sapere ai vecchi
quello che a loro piace
e i vecchi
fanno finta di non sentire.

(Da "Cuor mio", 1968)





SOTTO IL CIELO PACATO DI NOVEMBRE
di Sergio Solmi (1899-1981)

Sotto il cielo pacato di Novembre
come nette profondano le linee
dei rettifili, preciso lo spigolo
dell'edificio l'ombra della luce
scompartisce, e beato posa l'albero.
Avrei voluto apprendere cotesta
tua chiarezza infallibile, meriggio
senza una nube, che a questo discreto
ed ovvio paesaggio cittadino
imprimi oggi un rigore architettonico
quasi di tela neoclassica. Invece
cancellarmi vorrei, tanto mi sento
un estraneo accidente in queste splendide
tue geometrie, non più che una confusa
macchia, una pena, un vagabondo errore.

(Da "Opere", 1983)





PRINCIPIO DI NOVEMBRE
di Carlo Stuparich (1894-1916)

O freddo sole di novembre, soltanto ricordi mi scalda in questo corpo rabbrividente. La mia vita ronza tutta dentro; guarda i miei occhi, ti pare che vedano la storia del prossimo, o quanto da godere darebbero quelle onde di carne femminile? La mia carne, se la tocchi, ti spaventi del suo poco fermento: è un ingombro di corpo che pesa brutamente sull'esilità nostalgica della mia anima.

Camminando fra due muri secchi - vi pendono tralci di vite intisichita, pampini rossi come gote assai febbrose - sento che la mia vita è tutta qui in questa solitudine soleggiata a freddo. In nessuna parte ho lasciato lembi della mia persona. Qui raccolgo e stringo tutta la mia anima come un lenzuolo piegato fittamente che odora di fresca lavanda.

(Da "Cose e ombre di uno", 1968)





ELEGIA DI NOVEMBRE
di Rina Sara Virgillito (1916-1996)

Se talvolta dalle ripe nebbiose si desti il richiamo;
se dal viluppo, fogliame di porpora e d'ombra
al fiume compagno, talvolta il richiamo ti giunga -
solitario, lontano, in questo morire dell'autunno -

oh ricorda: la primavera è perduta,
sfinita l'estate, anche il cielo dell'autunno
è consumato,

eppure eterna rimane, tra queste forme che sanno,
la sosta fuggitiva; le nostre vite si svolgono
in questi luoghi solo: inestricabili, intatte,
in un presente senza tempo al di là del presente.

(Da "I giorni del sole", 1954)



NSG-Wohldorfer Wald, Herbstnebel, 21 novembre 2016
(da questa pagina web)


sabato 1 novembre 2014

Il giorno dei morti in 10 poesie di 10 poeti del XIX secolo

Oggi è il Giorno dei Morti e io, dopo tanti anni che non lo facevo più, mi sono recato al cimitero di Ostia Antica. Avrei voluto visitare almeno una delle tombe in cui giacciono i corpi dei miei parenti, ma non ho potuto farlo: non ricordo più dove esse si trovino (se ci sono ancora). Allora ho vagato lungo le stradine del camposanto, osservando, di tanto in tanto, le lapidi che erano nei pressi. Erano le tombe di tante persone anziane, i cui cognomi mi sono spesso familiari; c’era anche qualche giovane, deceduto già da molti anni. Mentre mi aggiravo nel cimitero, dal cielo grigio è cominciata a cadere qualche goccia di pioggia. Ho pensato: in questo giorno la pioggia non poteva mancare. Ma quando l’intensità della precipitazione piovosa è aumentata, non avendo con me un ombrello, me ne sono andato piuttosto velocemente. Tornato a casa, ho pensato ai miei cari morti. Quante sono le anime assenti, che una volta vedevo quasi tutti i giorni, e alcune di esse mi volevano bene (io glie ne ho mai voluto?). Di loro, mi restano soltanto i ricordi (ogni anno più sbiaditi). E, considerata la mia profonda, irreversibile solitudine, si affaccia sempre di più in me una smania di raggiungerli al più presto: di entrare nel nulla dal quale provengo, e al quale - forse presto - ritornerò. 




DUE NOVEMBRE

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Oh se potessi ancora
sognar! ridirmi ancora:
— egli m'ama, egli pensa
a me, sempre; egli guarda
questi limpidi giorni e pensa a me;
guarda queste serene
notti, ed incontro sempre
l'innamorato suo pensier mi viene!
questa lucente vita
non gli par bella se non per me sola,
e con me sola; tutto l'altro ormai
follia, follia, follia,
e nessuna parola
lo accende e lo consola
se non gli viene dalla bocca mia.
Quando verrà l'inverno
coprendo il cielo d'una bigia trama
di nuvole, e cadranno
le lunghe piove e le melanconie
sovra la terra; intorno a me, ch'egli ama,
sarà il sole, una calda onda di sole,
l'ardente soffio dell'intensa brama,
la viva vampa delle sue parole
intorno a me, ch'egli ama!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco Novembre; s'aprono
i cimiteri. Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Cadon le pioggie lente,
s'aprono i cimiteri;
una campana suona
interminabilmente.

(Da "Poesie complete", 1912)





DUE NOVEMBRE
di Peleo Bacci (1869-1950)

Al giardiniere ho chiesto
perché l'ultime rose
cogliesse giù nell'orto,

ed ei col viso mesto
guardandomi, rispose:
- Pel mio bambino morto. -

E mentre al taglio eguale
cedeva la fiorita,
egli di tanto in tanto

la cocca del grembiale
prendeva colle dita
e s'asciugava il pianto...

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





I MORTI
di Giulio Carcano (1812-1884)

Dall'olmo solitario 
Le foglie inaridite 
Cadon sull'erba pallida; 
Già d'autunno la vesta ingombra il suol: 
Ma piove ancor col mite 
Ultimo raggio la sua gioia il sol. 

Più la canzon de' poveri 
Per l'aer non batte l'ale: 
Ma vive le memorie 
Albergano nel nido del dolor; 
Bagna il pianto mortale, 
In sacra terra, i pochi ultimi fior. 

Oh! chi non ama il memore 
Giorno de' mesti addii? 
Cui non è sacro l'angolo 
Ove dorme la madre ed il fratel? 
La prece umil, da' pii 
Sepolcri ascende, come incenso, al ciel. 

E possente dai tumuli 
Tuona il grido de' morti, 
Custodi della patria, 
E virtù desta de' viventi in cor. 
Ove dormono i forti, 
Là veglia sempre l'occhio del Signor.

(Da "Poesie edite ed inedite", 1895)





O VOI CHE NE LE FOSSE UMIDE E NERE
di Giuseppe Chiarini (1833-1908)

O voi che ne le fosse umide e nere
o sotto i marmi candidi dormite,
oggi un sordo romor per le severe
tacite sedi errar non lo sentite?

Oggi è il dì che i viventi in lunghe schiere
traggon pensosi e muti a le romite
vostre dimore; ed hanno in man fiorite
ghirlande, ed hanno in cor pianto e preghiere.

Anch'essa, o morti figli, anch'essa viene
oggi la madre vostra al cimitero,
porta anch'essa ghirlande al rito mesto;

ghirlande e pianto. Io no: dove conviene
molta gente, non vado: in casa io resto
a ragionar di voi col mio pensiero.

(Da "Lacrymae", 1880)





2 NOVEMBRE
di Renato Fucini (1843-1921)

Tornai! le lane sulle usate spalle,
Scende la brina dalle alture bianche;

Cadono in pioggia al suol le foglie gialle,
Suonano a morto le campane stanche.
Salute a noi dalle infiorale ajuole,
Dai marmi ghiacci dell'ospizio estremo!...

Cianciano i vecchi, sonnecchiando, al sole;
Vanno i malati pallidi a San Remo.

(Da "Le poesie di Neri Tanfucio", 1920)





DUE NOVEMBRE
di Pietro Gori (1865-1911)

Quante memorie, o Bice,
in questa notte buia e sconsolata!
Oh d'una infanzia garrula e felice,
      larva sfumata!

Oh fantasie gioconde,
ribelli al ritmo di studiato verso,
erranti strofe, nenie vagabonde
      de l'universo!

Oh per li elbani clivi
carme infinito di geniali accordi!
eravamo sì baldi e sì giulivi;
      te ne ricordi? 

Te ne ricordi? a piaggia 
de l'ondata vanìan le brume stanche; 
salpavan da la ripa erma e selvaggia
      le vele bianche.

Tu eri piccolina,
gaia, gentile; io ruvido monello;
oh infantil bisbiglìo d'ogni mattina,
      com'eri bello!

O Bice, ho ripensato,
stanotte, le paure d'altre volte,
le fole udite, mezzo addormentato,
      lugubri e stolte.

Nella notte dei morti 
in sogno rivivean quelle leggende, 
scendean di scheltri, da l'avel risurti,
      fosche tregende.

La visïon spettrale
riddava al mesto suon de le campane,
novellanti nel buio a funerale
      favole arcane.

Oggi non più. L'affetto
solo rivive memore al dolore,
oggi son morte le paure, e in petto
      non trema il core.

Eppur, deh, s'io vorrei
di nostra infanzia la illusione pia!
ma la tua fede nei moderni Dei
      non è più mia.

Ahimè! se fosse vero,
che un trapassato spirito errabondo
potea stanotte uscir dal cimitero,
      e gir pel mondo;

ei ben sarìa venuto,
il tuo mesto Luigi a la prigione,
m'avrìa portato il bacio ed il saluto
      de l'alme buone.

Ahi! muta è la sua tomba,
chiusa dal gelo nel silenzio eterno,
e la tragica squilla oggi rimbomba,
      come uno scherno.

Stanotte, o Bice, invano
nel mio carcer movean le ricordanze,
invano a requie un suon tessea lontano
      macabre danze.

Ma l'aerea cöorte
de li spirti ne' miei sogni non scese,
non temo più dai morti e da la morte
      ire od offese.

Da che i vivi crudeli
m'ebber, pel mio pensiero, i polsi avvinti,
se pur non credo ne li empirei cieli,
      amo gli estinti;

amo questa serena
folla di atòmi, cui morte travolve;
corrosi anelli d'immortal catena,
      perpetua polve.

E so ben che la vita
è un episodio ratto e passeggiero,
un'audacia di brame inassopita,
      un sogno altero;

ma so pur che, se il flutto
de l'essere, onde l'uom soffre, o gioisce,
è materia che palpita, non tutto
      con lui finisce.

L'umanità non muore,
e i ruderi di noi serba immortali,
perpetüando i nostri odî, l'amore,
      il fango e l'ali;

ali di cherubino,
torve passioni, aurore scintillanti,
di libertà radiosi in sul cammino
      martiri e santi.

Qui l'averno o l'eliso
son la fraterna pace, o l'aspra guerra;
lotta il veggente, e vuole il paradiso
      qui sulla terra.

Ma tu, sorella, speri,
levando prieghi supplici e devoti,
ch'ei viva in grembo ai fulgidi emisferi
      di mondi ignoti.

Non io. Pur se il tuo pianto
men triste è al raggio de l'antica fede,
prega, sorella, nè ti offenda il canto
      di chi non crede.

(Da "Prigioni", 1911)





OGGI È IL GIORNO DEI MORTI...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Oggi è il giorno dei morti. Ed una densa
Nebbia le cose intorpidisce, e serra
Il cielo tetro e livido.
L'anima tace nel mister: non pensa;
Quasi smarrita in questa fredda terra.

Solo percorro sul mattin le logge
Del cimitero; a poco a poco miro
Indifferente e rapido,
Adornarsi le tombe in nuove fogge:
Ma la tua tomba è lunge al mio desiro.

Come è vuoto il mio spirito! Non trema
Al fluir di quest'ora triste; e pare
Anche il creato esanime;
E che per l'aria senza sol mi prema
Come un silente transito di bare.

Or delle cose seppi la profonda
Vanità, la fuggevole parvenza:
Tutta scopresi l'intima
Fibra bestiale, nauseosa, immonda,
Che invigorisce questa nostra essenza.

E a che la lotta disperata agogna,
E la rabbia implacabile, omicida?
Son come al vento polvere.
Ronza d'intorno acuta la menzogna,
Ma non mi curo, se il mio cuore uccida.

Operi l'uomo a suo capriccio. Alcuna
Speranza non richiamo: il vento forte
Dentro i cipressi sibila.
Tesso la tela della mia fortuna,
Calmo, aspettando il bacio della morte.

(Da "Poesie e prose", 1903)





NEL DÌ DE' MORTI
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

I.
suonano a festa: olezzan di viole
Le morte zolle e si allegra la terra;
Cantano augelli, sfogliansi le aiuole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Inverno riede; Autunno, come suole,
L' ultime gemme de' fiori disserra,
Ronzano insetti e volteggiano al sole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Dormono stesi, immobili, stecchiti
Nell'umido, che stilla entro la fossa,
Col lenzuol roso e co' stinchi imbianchiti.

O padre mio, una voce mi dice
E mi suona nell'anima commossa
Che tu sei morto e non fosti felice!


II.
Che felice non fosti! E questo ingrato
Rimembrar che la mia vita addolora,
È il rimembrar che de' tuoi cari il fato
Non allieti la tua fredda dimora;

Ma dimmi, per le lacrime, che dato
Mi fia versar su la tua fossa ancora,
D'un'altra vita, in forme altre rinato,
Vedesti o vedi una più lieta aurora?

Dimmi: pel duolo ond'è l'anima oppressa
Per il negro avvenir, che m'impaura,
È una mercede alla virtù concessa?

Ma tutto è muto! — Il sol dall'alto sferra
Gl'ultimi raggi, e sorride natura... 
Tacciono i morti e dormono sotterra.

(Da "Disjecta", 1867)





LE CAMPANE DEL 2 NOVEMBRE
di Giuseppina Turrisi Colonna (1822-1848)

È la voce degli angeli e dei morti,
E dei secoli il pianto e di Natura,
Che noi, nel sogno della vita assorti,
Ad altro viver chiama, ad altra cura!
Ah tu, squilla mestissima, conforti
I languidi pensier della sventura;
Tu m'insegni a soffrir, tu mi riveli
Che fugge il duol, fuggono i dì crudeli.

Coi prischi vati, coi guerrier, con Dio
Vissi fuor della terra e de' suoi mali.
Chi mi destò dall'incoscente oblio?...
Ah, chi mi tolse la speranza e l'ali?...
Nell'audacia di nobile desìo
Bramai cangiar la sorte dei mortali,
Render tutti felici: ahi! tutto in pianto
Miro, e dei giorni miei rotto è l'incanto.

No, non vorrei coi morti e nell'orrore
Di gelido sepolcro addormentarmi;
Vorrei, come rugiada in grembo al fiore,
In grembo a rosea nuvola celarmi,
Piangere, amar, pregare, in fin che fuore
Me dal recesso mio, gli altri dai marmi
La novissima tuba un dì ridesti,
E n'apra i tabernacoli celesti.

Fuggir sopra una nube! ad ogni umana
Cosa fuggire è un nobile deliro,
Un sogno eterno, un'esistenza arcana,
Un mesto placidissimo ritiro.
Esser viva, esser sola, esser lontana,
Desìata nel mondo e nell'empiro,
Mistero a tutti, nota sol nei canti,
Ebbrezza di cherùbi, amor di santi!

Ecco: dell'aurea nube armoniosa
Veglio la Patria mia, desto gli eroi,
Parlo a' miei cari, e tenera, pietosa
Memoria sono al cor gli affetti suoi.
Lungi, o cari, da voi, solo riposa
Chi troppo e invano s'agitò per voi;
Addio per sempre... E tu di là tranquilla
Ripeti il mesto addio, funerea squilla.

(Da "Poesie", 1915)





POVERI MORTI!
di Annie Vivanti (1868-1942)

In lugubre cadenza le campane
Vogliono ricordarci i nostri morti;
E noi, che pure vi crediam risorti,
In vesti nere andiamo al Camposanto,
A rammentarvi che v'amammo tanto,
         Poveri morti!

Vedeste quanti fiori vi rechiamo!
D'ogni foggia e color, croci e corone!
De' fiori freschi non è la stagione
(Che vivon tutt'al più una settimana),
Ma quelle di perline o porcellana
         Son di durata!

Se gli occhi aveste ancor, poveri morti,
Sui vostri marmi leggereste tutto
L'amor che vi portammo e il nostro lutto.
Ed anche un grande elenco di virtù
Che forse voi non ricordate più
         D'aver avute.

Ma si fa tardi. Al caso un altro Requiem
In carrozza al ritorno è presto detto,
O guai! con questo freddo maledetto
Si corre il rischio di pigliar malanno.
Che autunno indiavolato abbiam quest'anno!
         — Cocchiere, a casa. —

(Da "Lirica", 1915)