domenica 26 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Mi ricordo che, bambino, una sera d’autunno andai al cimitero di Ostia Antica con mia zia. Lei portò con sé dei fiori da mettere sulle tombe di alcuni suoi cari estinti. Io, mentre lei si apprestava a fare ciò per cui era venuta, mi guardavo intorno; ad un certo punto vidi una tomba quasi staccata da tutte le altre, in un angolo del cimitero, era di pietra grigia e consunta, e non c’erano fiori su di essa, ma soltanto foglie secche mosse dal vento autunnale. Chiesi allora a mia zia perché quella tomba si trovasse in tali condizioni; la zia rispose: «Non lo so perché, forse i parenti di quel defunto sono già tutti scomparsi, o forse lo hanno dimenticato». Fu una delle prime volte in cui provai una tristezza profonda, dovuta a quella tomba desolata, abbandonata… E ancora oggi, con tutto che è passato mezzo secolo, me la ricordo perfettamente.




CAMPOSANTO SUL MARE

di Mario Alessandrini

Un muricciolo mezzo diroccato
tiene in grembo sul greto
il camposanto vecchio:
quattro croci fiorite
fra l'erba alta battuta dal vento.
Il mare mugghia sotto la scogliera,
drizza l'onde squamate sulle rocce.
È tutto irsuto: si dibatte e squassa
e di rabbia s'imbava e vane schiume.
I morti han pace e gli elementi guerra.

(Dalla rivista «Maestrale», febbraio/marzo 1941)





DAI CIMITERI
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Noi siamo i più reclusi dei reclusi, noi.
Non ci han voluto neppure più sulla terra.
Potevano gettarci capofitti nel mare
appenderci ad un aerostato senza ritorno.
Ci diedero la bolgia di Papa Bonifazio;
le sere, venite a vedere le fiamme se rampollano!
Siamo i più queti, non i più morti, credete!
Le nostre folle incubano i vostri letarghi.
Il terremoto, forse, è la nostra convulsione di noia.
Giorno verrà che dietro ogni porta, nelle vostre case,
a sera bassa, troverete uno scheletro di sentinella.
Allora darete tutte le salme alla pira!
Il mondo avrà più fiamma, più luce, più libertà.
Frattanto, noi ci gloriamo de' nostri fosfori freddi,
dei nostri fiori notturni pieni di lucciole bianche
e delle nostre lampade flebili
aspettando gl'incendi cadaverici dell'Avvenire!

(Da "Aeroplani", 1909)





IL CAMPOSANTO NUOVO
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Un sol morto nella pallida deserta
vastità del camposanto... Quattro muri,
bianchi, nuovi, un cancel nero e un morto, solo...
Un giallognolo rialzo, e il verde magro
della zolla intorno intorno, qualche paglia...
Una croce, senza croci in compagnia...
L'ombra, in terra, d'una croce che s'allunga,
con l'aiuto della luna, a ricercare...
Una lampadina sola, nella notte
di novembre, che si dondola a far segno
di lontano, verso i vivi. Ma niun ode
ciò che grida a' suoi fratelli il derelitto.
- Perché - grida, mi lasciate così solo?
Pur, m'avete, coricandomi, cantato:
Dormi in pace!... Ma non è la pace, questa.
È il deserto con intorno quattro muri.
O fratelli, nessun viene? (Io ben verrei,
tanta gioia è star coi vivi): - Ohimè, venite -
grida l'uomo abbandonato. E scuote il suo
lumicino, quando già da ore ed ore
con un soffio gliel'ha spento il vento.

(Da "La stellata sera", 1933)





CAMPOSANTO DEGLI INGLESI
di Franco Fortini (1917-1994)

Ancora, quando fa sera, d'ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d'edera e i cipressi
del Camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi.
                                               Verde
il fumo delle frasche
come quello dei carbonai nei boschi
di montagna.
                     Morivano
quelle sere con dolce strazio a noi
già un poco fredde. Allora m'era caro
cercarti il polso e accarezzarlo. Poi
erano i lumi incerti, le grandi ombre
dei giardini, la ghiaia, il tuo passo pieno e calmo
e lungo i muri delle cancellate
la pietra aveva, dicevi, odore d'ottobre e il fumo
sapeva di campagna e di vendemmia.
Si apriva la cara tua bocca rotonda nel buio
lenta e docile uva.
                   Ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo
anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze ove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d'alloro.

(Da "Versi scelti", 1990)





CIMITERO
di Guido Marta (1882-?)

Presso la chiesa bianca, al limitare
del villaggio, la Morte un suo giardino
pien di croci s'è fatto, un suo giardino
con un muro, due pietre, un cancellino
sempre aperto per chi volesse entrare.

(Da "La neve in giardino", 1922)





PICCOLO CIMITERO LUNGO IL MARE
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Piccolo cimitero lungo il mare
Stipato d'erbe amare
E di croci!
L'erbe non v'è chi le falci
E le croci aprono i tralci
Delle braccia tese al sole
Che le bacia come suole
E le fa nel bacio eguali.

Il recinto somiglia
Una chiara conchiglia.
Ombra non v'è che dentro vi si cali
Né moto d'aria o d'ali
Né sospiro o suono d'ore
Né vi fa l'onda rumore
Più del battito d'un cuore
Che nel sonno si assottiglia.

Sotto le croci i morti
Alleggeriti di beni e di mali
Ancoràti a sicuri porti
Posano in giusta pace
Aspettando come a Dio piace
Che un angelo spieghi le ali
E una tromba loro porti
L'annunzio che sono risorti.

(Da "Tempietto", 1939)





SORPRESA
di Luigi Pirandello (1867-1936)

Mi parea, sù da quei greppi scoscesi,
che fosser pannilini di bucato,
gli arredi, forse, d ’un bambino, stesi
su questo verde tenero del prato.

Lapidi! Un cimitero abbandonato...

(Da "Tutte le poesie", 1991)





LUCE BIANCA
di Antonia Pozzi (1912-1938)

All'alba entrai 
in un piccolo cimitero. 
Fu in un paese lontano 
ai piedi di una torre grigia 
senza più voce alcuna 
di campane – 
mentre ancora le nebbia 
inargentava 
le querce oscure, 
le siepi alte, 
l'erica 
viola – 

Nel piccolo cimitero 
le pietre 
volte all'Oriente 
come in un riso 
bianco 
parevano visi di ciechi 
che allineati marciassero 
incontro al sole. 

(Da "Parole", 1998)





NEL CIMITERO DI CHISWICK
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Risonanze di mortelle
nel recinto verde di morti
antichi, dove Foscolo posò la testa
dentro un sarcofago in un tempo d'amore
per gli inglesi. La sua pietra
porta la data di nascita e di morte. Di fronte,
nella curva della strada si beve birra
forte in un pub di legno
a spiovente nordico. Una ruota gira,
un vecchio picchia con un martello su una tavola.
L'amore per le ombre foscoliane è più qui
che in Santa Croce, ancora nell'armatura
dell'esilio. I timidi carnefici lombardi
temperavano aste e scuri, misuravano
l'uomo sugli stipiti delle porte
come oggetto utile alle armi.

(Da "Tutte le poesie", 1995)





A GUARDARTI M'INDUGIO INTENERITO
di Camillo Sbarbaro (1888-1967)

A guardarti m’indugio intenerito,
d’oltre il muretto basso che ti cinta,
piccolo cimitero di campagna.
Aperto al celo, alla mercé del vento
della pioggia, vegliato dalle stelle,
tu ancora partecipi alla vita.
Soave come l’improvviso sonno
che chiude gli occhi al piccolo che piange,
l’erba qui addormenta le speranze
delle fanciulle, l’ansia delle madri
e tutto il nostro affaccendarci invano...

Qui la vita e la morte si dan mano
come sorelle...
                      Tutto ciò che è,
è un poco ciò che fu, un poco ciò
che sarà...
                Qui è facile pensare
che quella farfalletta che là alia,
chiusa la sua vicenda, rivivrà
nel geranio fiammante del balcone
o nei capelli d’una donna amata...

Piccolo cimitero di campagna,
in questo poco sole di settembre
è così dolce quel che insegni al cuore
ch’egli di gratitudine si gonfia.
E, uscendo da me stesso, mi vedo,
in altre forme in sempre nuove forme
essere eternamente come i cieli.

(Da "L'opera in versi e in prosa", 1985)

mercoledì 22 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

LE FOGLIE
di Arrigo Boito (1842-1919)

Nascean le stelle; la lontana chiesa
Emanava armonie. Reprobamente
Vagolando pe’ campi io le sentivo;
        E una voce, repente,
Surta dall’ombra e che parea d’un vivo
Gridommi a lato: — «Tutto ciò che pesa,
        Uomo, ha peccato.»

Io tutto mi restrinsi per paura,
Nè corpo vidi che paresse accanto;
La notte s’avanzava e in bel celeste
        Cangiava l’amaranto.
Era l’ora che fa le cose meste,
Quando negli orti — fra le vecchie mura
        Errano i morti.

La sinistra parola m’avea scosse
Le radici del core e all’aura bruna
Vagavo al pari di corsier che aòmbra.
        Le foglie ad una, ad una,
Cadean dai rami lor, pagine d’ombra,
E in vol scosceso — parean carche e mosse
        Da un grave peso.

Se non è fatua visïon che illuda
La mente mia, pensai, qual è il peccato
Che sì vi fuga o foglie intorno, intorno?
        E allor la larva a lato
«Esse tremar di voluttà quel giorno,»
— Mi rispondeva — «che covrir la nuda
        Bellezza d’Eva.»

(Da "Il libro dei versi", 1902)





L'ULTIMA FOGLIA
di Contessa Lara (Evelina Cattermole, 1849-1896)

Dal ramo ischeletrito
L'ultima foglia pende:
E, come d'oro, splende
Al sol che, smorto, non ha fiamme più.

Esita, al freddo invito
Della caduta neve;
Poi, sospirando lieve,
Rassegnata si stacca e piomba giù.

(Da "Nuovi versi", 1897)





FOGLIE MORTE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Dai rami sui quali poc'anzi l'ebbrezza 
Saliva esultando dei fulgidi dì, 
Cacciate dal primo rigor della brezza, 
Scendete, fogliuzze, scendete, così. 

Scendete sui campi lucenti di sole, 
Sui solchi bagnati di tanto sudor; 
Su gli ampii giardini, su l'umili aiuole, 
Sui mille del mondo ignoti dolor. 

Narrate ai felici, ai ricchi, ai potenti. 
Che tutto è una fuga di foglie quaggiù. 
Si sveglia l'aprile sui rami languenti...
L'april della vita non svegliasi più! 

Coprite gli amori dei giovani assorti 
Nei miti, autunnali tramonti del sol; 
Coprite le tombe dei poveri morti 
Dormienti nell'alto silenzio del suol. 

È questo il mio sogno: — Fogliuzza smarrita 
Sul margine ascoso d'un triste sentier, 
Fogliuzza sperduta nel mar della vita, 
Col giorno che muore anch'io cader; 

Col bacio dei sacri miei vecchi sul fronte, 
E un' ultima fede perduta nel cuor; 
Volgendo lo sguardo al mesto orizzonte, 
Sognando il mio primo, il mio ultimo amor! 

Quel giorno, o fogliuzze, che oscuro poeta 
L'estremo saluto al mondo darò; 
Se santa fu sempre del verso la mèta, 
Se all'umile canto un cuor palpitò, 

Quel giorno l'eterna parola mi dite, 
Che sola la fede nel mondo ci dà; 
Cingetemi il fronte, fogliuzze avvizzite... 
L'alloro sognato... il vostro sarà! 

(Da "Il canzoniere del villaggio", 1898)





FOGLIE SECCHE
di Arturo Graf (1848-1913)

Oh, come lugubre
Veder sull’arido
Suolo cinereo
Discolorite,
Tremule, tacite
Cader dagli alberi
Le foglie morte!

Oh, come lugubre
Veder da un’anima
Cader le povere
Fedi tradite
E i segni gracili
Cui franse l’invida
Man della sorte!

(Da "Le poesie", 1922)





IMITAZIONE
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

Lungi dal proprio ramo,
Povera foglia frale,
Dove vai tu? — Dal faggio
Là dov'io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo
Dal bosco alla campagna,
Dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
Dove naturalmente
Va la foglia di rosa,
E la foglia d'alloro.

(Da "Canti", 1974)





CADUTA DI FOGLIE
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Non più di trilli argute risonanze
per la montagna. In voce di lamento
geme la selva, cui rapisce il vento
le prime foglie e l' ultime fragranze.

Quando il pallido autunno d'improvvise
tristezze aduggia e scolorisce il mondo,
e piangono le pioggie alla campagna,
tutta l'alpestre via di fango intrise
copron le foglie, che stormìan giocondo
l'inno dell'albe in vetta alla montagna.
E al faticoso viator, cui bagna
di pianto gli occhi una stanchezza nova,
ad ogni passo che in quel fango ei muova,
sembra di calpestar sogni e speranze.

(Da "Poesie", 1907)





CADON LE FOGLIE
di Cesare Rossi (1852-1927)

Odi una flebile
come si lagna
nota di cembalo
per la campagna:
pian quella musica
l'anima accoglie.
Cadon le foglie.

Cantano l'ilari
vendemmiatrici
spiccando i grappoli
per le pendici,
poi meste lasciano
le viti spoglie -
Cadon le foglie.

Corre degli agili
vetri la muta
che i lepri timidi
vigile fiuta:
Ottobre in pallido
pianto si scioglie -
Cadon le foglie.

Rosseggia l'edera
pei casolari,
la fiamma crepita
su' focolari,
ma i vecchi guardano
tristi a le soglie -
Cadon le foglie.

Con occhi languidi,
senza parole,
saluta il tisico
l'ultimo sole.
Spera ma un brivido
sottil lo coglie -
Cadon le foglie.

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





FOGLIE
di Ulisse Tanganelli (1853-1931)

Al sospirar di maggio
Dal primaticcio mandorlo
Volano vie le bianche foglioline:
Le dànno il buon viaggio,
Col tremolìo dei calici
Dei peschi le fogliuzze carnicine:
Quindi al ramo natìo
Dicon pur esse addio.

O vaga pioggia, lieta
Di rosei spruzzi e candidi,
Che discende negli orti e li ricama.
Sottil, come di seta,
Presto germoglia e svolgesi,
Collo sviluppo della verde trama,
Una chioma abbondante
Sopra tutte le piante.

Allor corre una voce
Che i poeti comprendono
E i savi no, dai tronchi alla vermena!
Il melo, il fico, il noce
Un bel terzetto cantano
Del teatro campestre in su la scena:
Cantano i boschi in coro
Dal cipresso all'alloro.

Comprendon coi poeti
Quella voce ineffabile
La cingallegra, il merlo e la ghiandaia.
L'usignol sui roveti
E sui castagni il tortore
Gorgheggian, coaliscono, alla gaia
Prosperità dei nidi
Soavemente fidi.

Quanta molle verdezza
Velo alla immensa Cerere,
Chiara stormisce dalla valle ai monti,
Eterna giovinezza
Rinnovellando! Han gli alberi
Increspature e luccichìi di fonti
Nel gran frescheggiamento
Del pomeriggio al vento.

Ora sacra! Le capre
Le note balze tornano
Desiderose dello stabbio. Intanto
Alle memorie s'apre,
Come a notte un convolvolo,
L'anima vinta da un serale incanto,
E la tristezza sente
Accidiosamente!

Fischia la mandriana
Alle sbrancate; e intorbida
Forse di pianto le pupille e il cuore
Di ricordanza arcana!
L'acuto fischio scivola
Fra le dolcezze del giorno che muore,
Come squillo pugnace
In un inno di pace!

Ma poiché l'aria imbruna
Le verdi foglie perdono
La singolarità folta e smerlata.
E vanno, ad una ad una,
Gradatamente a fondersi,
Come fine cesello
Che torni nel fornello.

(Da "La buona dea", 1892)





IO VADO ERRANDO LONTANO DALLA MIA PATRIA
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1969)

Io vado errando lontano dalla mia patria, e veggo aggirarsi per l’aria una foglia di cipresso trasportata dal vento. Dove te ne vai, o piccola foglia di cipresso, dove te ne vai? Noi ci faremo compagnia. Nello stesso modo che tu vieni trasportata pel cielo dal turbine impetuoso, io sono cacciato dal mio destino per terre non conosciute... Ohimé! tu non potrai piú ritornare al tuo albero! povera foglia! povera foglia!

Maledetta la mano che ti ha distaccata dal tuo ramo. Io sono pure allontanato dalla mia patria da una mano maledetta. Precedimi, o piccola foglia di cipresso nel cammino doloroso dell’esiglio: il mio destino non sarà mai diverso dal tuo; tu anzi sopravviverai forse a me stesso, e sbattuta dopo tanti anni dal vento, verrai un giorno a riposarti inconsapevole sul mio sepolcro. Precedimi dunque, o povera foglia, noi ci faremo compagnia. Giovine ancora senza affetti, e senza speranze, io vado errando sulla terra come una foglia trasportata dal vento.

(Da "Tutte le opere", 1967)





A UNA FOGLIA
di Niccolò Tommaseo (1802-1874)

Foglia, che lieve a la brezza cadesti 
sotto i miei piedi, con mite richiamo 
forse ti lagni perch’io ti calpesti. 

Mentr’eri viva sul verde tuo ramo, 
passai sovente, e di te non pensai; 
morta ti penso, e mi sento che t’amo.

Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai 
venivi amica nell’anima mia; 
con lor d’amore indistinto t’amai.

Conversa in loto ed in polvere, o pia, 
per vite nuove il perpetuo concento 
seguiterai della prima armonia. 

E io, che viva in me stesso ti sento, 
cadrò tra breve, e darò del mio frale 
al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento. 

Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale 
recherà grato lo spirito mio; 
e, pura idea, di sorriso immortale 

sorriderai nel sorriso di Dio. 

(Da "Poesie e prose", 1942)

martedì 21 ottobre 2014

Gli spazzini in tre poesie

Quello dello spazzino, del netturbino o operatore ecologico che dir si voglia, non è certo uno dei mestieri più ambiti dalla gente; anzi, si può ben dire che sia tra i più disprezzati, schifati e evitati dalla maggioranza dell'umanità. Eppure tutti, penso, dovrebbero essere d'accordo sul fatto che questo sia uno dei lavori più utili, poiché senza l'intervento giornaliero degli spazzini le città sarebbero sommerse dall'immondizia. Passando alla letteratura, e in particolare alla poesia, c'è stato qualche poeta che ha dedicato a questi lavoratori bistrattati alcuni versi. Ho trovato tre componimenti poetici in cui gli spazzini la fanno da protagonisti. In tutte e tre le poesie, nei confronti di essi, si nota sia una simpatia, sia un non velato apprezzamento per il compito che assolvono, insieme ad una sorta di comprensione umana, se non di pena, per l'umiltà e la sofferenza che contraddistinguono spesso questi personaggi, per nulla considerati dalla moltitudine degli umani.



LO SPAZZINO
di Siro Angeli

Prima che ti ripari
dai raggi che sul letto
rimanda la persiana,
attendi, tanto usuale
da farsi necessario
al vuoto nell'orecchio,
il passo dell'addetto
alla Nettezza Urbana,
finché tra voci nuove
di fuori si riaccampa
nel sonno delle scale
trascorrono dall'albore
che piove il lucernario.

Paziente sale (il volto
leale, con i tratti
scavati e gli occhi chiari
di quando in lui t'imbatti,
affiora dall'ascolto)
e al sesto piano inizia
la sua fatica: frana
nel sacco l'immondizia
davanti ad ogni porta,
un tonfo d'ossa rotte
rintrona fino al tetto,
e nasce dal rammarico
ch'esso non sia minore
il gesto che riporta
al suolo, cauto, il secchio.

Così di rampa in rampa
discende sotto il carico
crescente, e il passo vecchio
ma fermo oltre il portone
si perde nello schianto
strozzato che sommuove
la mole d'alluminio
in sosta col motore
acceso, mentre inghiotte
a brano a brano quanto
rimane al condominio
d'un giorno e d'una notte.

(Da "Il grillo della suburra")





SPAZZINI FIORENTINI A DICEMBRE
di Arnaldo Beccaria

Nell'ora antelucana
(ma è ancora notte fonda,
non un bar che sia aperto,
e il gelo una camicia
di forza che costringe corpo e mente),
nell'ora antelucana,
i primi ad apparire sulla scena
della città deserta
sono i vispi spazzini
con gli arguti fumetti del lor fiato.
Ruzzan fra loro, sciolti e allegri, angioli
senza ali, nelle casacche blu;
nettano con le grosse
scope le vie della città
non calpestate, e i porticati,
ne fanno alvei politi,
dove fra poco
scenderà a insudiciarli
la fiumana degli uomini,
ancora addormentati.

(Da "Sull'orlo del cratere")





LO SPAZZINO
di Gianni Rodari

Io sono quello che scopa e spazza
con lo scopino e con la ramazza:
carta straccia, vecchie latte,
bucce secche, giornali, ciabatte,
mozziconi di sigaretta,
tutto finisce nella carretta.

Scopo scopo tutto l'anno,
quando son vecchio sapete che fanno?
Senza scopa, che è che non è,
scopano via pure me.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra") 



Vincent van Gogh, "The Dustman"
(da questa pagina web)


domenica 19 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Camminavo, in una giornata grigia di metà novembre, su un viale alberato di Ostia, tutto ricoperto di foglie secche. Camminavo lentamente, ed ero quasi felice di ascoltare il rumore dei miei passi su ciò che restava di quelle povere foglie. Ogni tanto, ne vedevo qualcun’altra cadere, e se osservavo i rami dei platani, mi accorgevo che le poche ancora attaccate, si reggevano a stento (erano destinate a cadere a breve). Allora, come tanti che mi hanno preceduto, ho pensato che la nostra vita somiglia assai a quella delle foglie: sia noi che loro siamo destinati a cadere – chi prima, chi dopo – e a non rialzarci mai più. Eppure, tale pensiero non mi rattristava più di tanto, poiché non ho mai ambito all’immortalità, e anzi, pur non essendo ancor vecchio, mi sento addosso la stanchezza di vivere. In fondo, anch’io vorrei essere una di queste foglie: cadere senza drammi, in un giorno grigio di novembre, e dopo la caduta dimenticare tutto il male, tutto il bene di un’esistenza inutile. 




LA FOGLIA E TU

di Siro Angeli (1913-1991)

La foglia non si sente più sola
sul ramo, ora che l'hai accolta
nel tuo sguardo. Ecco esita, vola
per la prima e per l'ultima volta.

Chiedi al filo d'aria che la porta
almeno un indugio prima che tocchi
il suolo. Non si sentirà morta
finché non l'abbandoni con gli occhi.

(Da "Il grillo della suburra", 1990)





UNA FOGLIA
di Angelo Barile (1888-1967)

Una foglia nel giovane vento
è crollata che non sussurrò
sul ramo.
Non l'addolcì
rugiada a lungo materna e scarso
un sole la vestì
di verde.

Orfana foglia
che l'aprile in un soffio sospinge
e indifesa l'avvia
alle soglie della prim'estate:
già straziate di luce, incendiate
di papaveri. Ostile
alla sua scarna pagina, un raggio
la trafigge, la spoglia
in una viva geometria di nervi.

(Da "Poesie", 1986)





A UNA FOGLIA
di Gherardo Del Colle (1920-1978)


Stamattina ti ho colta,
povera foglia, e la mia mano fu
forse un precoce autunno...
ma tu resta con me:
fuori di questa soglia
più nessuno ti ascolta - o si ricorda
di te.

Ti ho colta, a primavera,
nella serenità del mio giardino
di fanciullo poeta:
perché tu mi ripeta
nell'insonne mia sera
le giulive canzoni del mattino.

(Da "Il fresco presagio", 2008)





E QUESTE FOGLIE
di Libero De Libero (1906-1981)

E queste foglie
e questo amore,
questa sera che viene.
Dove io trascorro
fa orma il silenzio,
già sento nella notte
diffusi papaveri.
Voglia di stare
nel folto sonno
fedele, amore,
alla tua mano.

(Da "Scempio e lusinga", 1972)





COME MAI LE FOGLIE...
di Franco Fortini (1917-1994)

Come mai le foglie e le campane
le foglie che il vento muove e le campane
che il vento porta e la sonnolenza
che l’estate porta e come mai questa dolenza
e perché continuare a guardare i colori
della sera sulle montagne multicolori
le nuvole che da tutta eternità ripetono
decoro miserabile divieto
se ormai solo le foglie
chiedono a te come oscillare
nella notte senza mai variare
sine rationis lumine le gemelle foglie.

(Da "Versi scelti", 1990)





FOGLIE E FIORI
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

Aprile chiama, settembre risponde:
son d'uno stesso lago opposte sponde
echi diversi d'una stessa voce,
sono due specchi d'uno stesso volto:
l'uno ti prende quel che ti fu tolto
quel che l'uno ti dà l'altro ti toglie:
uno di fiori e l'altro è pien di foglie.

(Da "Tutte le poesie", 2007)





STRIDONO LE FOGLIE
di Leonida Repaci (1898-1985)

Io cammino
su tappeti di foglie arrossate
dagli ultimi barbagli del sole
e non le guardo
quelle foglie secche che stridono
sotto il mio passo.

Cammino senza meta aspettando
che cosa? Nulla nulla
ma pur mi debbo convincere
di aspettare qualcosa qualcuno
perché la maggior povertà
è sapere di non aspettare nessuno
nessuna cosa.

Ma le foglie non stridon più forte?
Ora sento nettissima
una presenza che mi cammina
al fianco e mi osserva
invisibile, mi scruta spietata,
entra in me, diventa me stesso.
Ma chi sei chi sei mai
che cammini al mio lato
confondendo alla mia
la tua ombra?
Fratello o nemico
chi sei, sconosciuto, che batti
la stessa strada
sulle stesse foglie invetriate?
Oh potessi levare gli occhi dal cielo
specchiarmi in te senza fremere
sapere da te
perché mi segui così
perché dài un accento
tanto solenne alla mia melanconia?
Sei tu forse la Morte?

(Da "Poesie", 1999)





LA FOGLIA MORTA
di Umberto Saba (1883-1957)

La rossa foglia morta
che il vento porta via,
il vento e lo spazzino,

- sotto il fulgido cielo cadde, insanguina
con le altre la via -

imiterei. Per nausea
delle parole vane,
dei volti senza luce.

Ma la tua voce, o gentile, mi parla;
fa' che non cada ancora.

(Da "Tutte le poesie", 1999)





FOGLIE CADONO, VITE. C'È UN ISTANTE
di Francesco Tentori (1924-1995)

Foglie cadono, vite. C'è un istante
che chi le stacca le tiene con mano
lieve nell'aria, nella luce e vedi
come mai prima le fragili vene
per cui correva l'esistenza, il palpito
che viene meno. Affréttati, raccogli
nello sguardo fedele quanto ancora
è, prima che con le altre spoglie
anche queste si perdano.

(Da "Migrazioni", 1997)





LE FOGLIE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Guardavo le macere foglie
che il vento ammulina fra i turbini
della pioggia e le macina e le stritola
fino a mutarle quasi nel suo ululo, 
nella sua marcia funebre di sibili.

Allora m'è venuto il pensiero
della morte che stacca noi pure
così dai rami dell'albero umano,
quando vecchiezza o fuoco
di febbri hanno consunto
la nostra foglia grama.
Un soffio appena più forte
il tremulo gambo recide;
e saremo così trascinati
negli abissi, mischiati
a nuvole d'altre foglie?
La morte ci scioglie
nelle grida del vento.

Eppure, chissà quale senso
di felicità originaria
ci libererà nell'immenso,
quando tutte le corde
troncate dalla morte fremeranno
all' unisono con l' accordo
maggiore dell'universo.
Forse l'estrema gioia
che invano chiedemmo alla vita,
è quella che ci folgora al momento
di morire, nel gran mutamento.

(Da "La luce ricorda", 1967)



Louis_Grube, "Study of Autumn Leaves" 
(da questa pagina web)


domenica 12 ottobre 2014

L'autunno in 20 poesie di 20 poeti italiani del XIX secolo

PENSIERI D'AUTUNNO
di Giuseppe Arnaboldi (1827-1896)

Amo le nebbie ond' è coperto il piano,
Qui nerissime e grevi e là sfumato,
Le lunghe nebbie che lontan lontano
Hanno aspetto di mura o di cascate;
Amo il lume che in voi splende sì arcano
dell'autunno pallide giornate,
Ed incoloro e senza moto il lago,
Specchio appannato dove muor l'imago.

Traverso all' acqueruggiola che scende
Lentissima, di filo e fine fine,
E che col fitto suo vel ne contende
Qual'è sfondo di monti e di colline.
Amo veder quai forme di tregende
Giganteggiar le balze più vicine;
Amo le foghe gialle e turbinanti
Ed i vigneti ove ammutirò i canti.

A tal scena sei triste, anima mia,
E nondimanco non domandi il sole.
Ah, nell'inconscia tua malinconia
Più pensieri non hai né più parole!
Eppur misera è l'anima se oblia
Come da lei l'assidua opra si vuole
Onde in sé chiusa ver' l'Idea s'innalzi,
aperta il mercator secol v'incalzi!

Malinconia figliuola è a gentilezza,
Che non conosce lei cuore villano;
Ma se ognora sé stessa ella accarezza,
Se l'un verso la circonda invano,
Dell'indico papavero è l'ebbrezza,
È la Villi del canto lituano
Che in fondo all'acque, ove sepolto giace,
Tragge chi troppo accanto a lei si piace.

Oh migriam cogli augelli! In liete schiere
Ei mi passano innanzi alle vetrate
Sorvolando con lor piume leggere
Le sodaglie ed i colti e le boscate.
E un gruppettin dall'alto aere mi fere
Di note sottilissime e serrate,
E par che ad esse di lontan risponda
D'un ragazzetto la canzon gioconda.

La fredda Alpe lasciando e l'Apennino,
Ei cercano oltre il mar cielo novello,
Le plaghe d'onde a noi spunta il mattino,
I regni della prole d'Ismaello;
E allegreran, danzando, il pellegrino
Quando sceso dal docile cammello
Adora Macometto e la sua legge
Che gli esulati volator protegge.

E un sorriso sul labbro or mi balena,
E, dentro a nube dal color di rosa,
Di Damiata m'adagia in sull'arena
La fantasia ch'è donna e capricciosa.
Già sento dalla libica catena
Della mirra spirar l'aura odorosa,
Già m'affido del Nilo ai mille giri
Fra i boschetti di palme ed i papiri!

Ma ogni sogno gli è sogno, e, se la vita
Attorno a me già quasi tutta è spenta,
Il tenace voler nella romita
Anima mia di ridestarla tenta.
Un vegliardo, un poeta, a sé m'invita
Che, fulmineo lo ingegno e l'orma lenta,
Dal mio lago ove al dì gli occhi ei schiudea,
Povero prete, alla città scendea.

Sul colle ancora il suo tugurio siede,
Ed un senso ineffabile ne spira;
Se appena poso sulla soglia il piede,
Tosto m'esulta il cor, tosto sospira.
«Oh Parini,» esso grida, «oh qual ti diede
«Genio l'arguta e formidabil lira?
«Qual sacra fiamma ti lambì le chiome,
«Nato di plebe che non sa il tuo nome?»

Sulle grandi librarsi ali dorate
Veggo del veglio allor l'ode civile.
Del veglio che le nuove e non fucate
Idee scolpì col verecondo stile,
E quante poscia l'alme rassegnate
Piansero nenie avrebbe avute a vile,
E affilò l'ironia per cui non muore
Colle sue ciprie il giovine Signore.

Ma il sole è ricomparso, e su pei monti
S'arrampica la vinta nuvolaglia
Che percossa dai crocei tramonti
Di molteplici tinte n'abbarbaglia;
Onde ne par che dalle auguste fronti
La fiamma e il fumo d'un incendio saglia,
Mentre il cielo su noi stendesi azzurro
D'una fresca del norte aura al sussurro.

Lago gentil, poetica parola,
D'oro e d'argento l'Eupili risplende
E un color di simpatica viola
Sul verde delle selve si distende; 
Poscia l'ultimo raggio al pian s'invola
E lenta l'ombra le montagne ascende
E in suon di voce lamentosa e pia
Intuonano le squille: «Ave Maria!»

«Ave Maria!» Già tace ogni lavoro,
Si chiudon limitari e davanzali,
E dall'opre del dì cercan ristoro
Gli uomini affaticati e gli animali.
Scendon gli angeli a schiere, e sogni d'oro
Depongono dei bimbi in sui guanciali;
Indi suona il rosario entro le stalle,
Prece d'afflitti in lagrimosa valle.

Strano fumo frattanto esce dai tetti
Dov'ardon torbe a preparar le cene,
E alternata a fantastici diletti
Una tristezza dentro al cor me 'n viene,
Poich'esso evoca in me squallidi aspetti
Di borusse pianure e di rutene
Ove in luogo di gelsi e di vigneti
Provan eriche solo e negri abeti.

Fra quei vari pensieri inavvertito
Il fedele mio sigaro si è spento,
Ed invan colle labbra, invan col dito,
Di richiamarlo vivo io m'argomento.
Ma poi che il picciol astro è disparito
Io sollevo gli sguardi al firmamento;
E mi veggo sul capo arder Boote
E stelle e stelle oltre ogni dir remote.

Oh di Laplace ipotesi stupenda
Che plasmasti d'ardente etere il cielo!
Quando sarà che tutto alla tremenda
Dilacerar si possa Iside il velo?
Ah ovunque, ovunque il mio pensier si stenda,
Arcano al core si raccoglie un gelo...
Ma la via per cui movo è sterpi e sassi,
E gli è buio che tinge... Occhio a' ma' passi!

(Da "Versi", 1872)





AUTUNNO E AMORE
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)

Giunto è novembre; dal cielo plumbeo
cade la pioggia, lenta, monotona;
la brezza il fior distrugge,
la rondinella fugge.

A noi che importa? se i fiori sbocciano
nel maggio eterno delle nostre anime?
se il vivo sol d'amore
le inonda di splendore?

(Da "Petali e lagrime", 1894)





AUTUNNALE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Io son l’albero strano, che protende
Sotto le fredde nubi accavallate
I biechi rami; e fra le interminate
Solitudini, e per le steppe orrende

L’albero maledetto io son, che attende
Giù dalle torve nubi accavallate
La folgore fatale, onde troncate
Vi sperda Iddio, presàghe ansie tremende,

Infinite stanchezze, ore più affrante
Ore più tristi che un calar di feretro
Dentro la sepolcral fossa beante;

A me il vento di morte!... A me i tramonti
Del funereo novembre; io son lo scheletro
Spaventator dei lùgubri orizzonti.

(Da "Poesie", 1968)





NOTTE D'AUTUNNO
di Tommaso Cannizzaro (1838-1912)

Tacito, inerte e dentro ascose al seno
Le palme irrigidite
Da la brezza marina,
Allor ch'alta è la notte ai bruni ferri
Di quel veron sovente il fianco io poggio.
E la notturna brina
Silentemente cade, e la natura
Ne l'ombra oscura un ferreo sonno dorme.
Sol la profonda ascolti
Cupa voce de l'onda
Risonar per l'azzurro aer sereno,
Ne per le sparte case o a' verdi colti
Rumor di passi alcuno,
O soffio alcun di vento
Per entro ai folti arbori.
Io le pupille , ignude
Sì tosto, ohimè, dei più gentili amori,
Al mio "zenitte" appunto, e tu dal cielo
Sette raggi di luce a me tu piovi
O grand'Orsa cui sempre, or mi ricorda,
Ne la mia lunga via
Di sospiri e d'affanni,
Per le notti serene
Ancor fanciullo a contemplar venìa.
Tu vivi ognor! Ma che più a me rimane
Altro che il pianto e il lamentar de gli anni?

Quai sovrumani , orrendi
Martìri a me dischiude
Ciascun'ora che avanza!.. e nulla intanto
Esprimer sa, ne puote
L'onda affannosa del dolor che m'ange!
Niun labbro, niun accento
Aita i dolorosi:
E per mesto concento
Occhio mortai non piange;
Ahi! forse irride il vulgo, irride ancora
A queste voci, e già non sa ne crede
L'alto gemer de l'alma. — Altri, seggendo
A riguardar la vaga
Stella polare, o il sommo
Pianeta eccelso a cui per quattro lune
Piove a notte la luce, e lunge il fioco
Scintillar di Saturno,
A se va discoprendo
Nuovi e più lieti mondi ond'ei felice
Nulla curando il vero
Che a lui non morde il seno
Vive di dolci sogni in suo pensiero.

Ma se dal sommo là dei bruzii monti
Lenta emerge la luna
E i bianchi rai rifrange infra le nubi,
Se tondeggiante e bella
Andar la veggo e tremolar nel cielo,
Quanti pensieri aduna
La mente mia! talora in simil guisa
A lei mi volgo: o tu, cui tanto abbella
Nostro pensier, di questa atra dimora
Forse men vii non sei: —
E qui sommessamente il cor dolora
In pensar che da lunge il tutto scende
Gradito e ne innamora!
Così parrà gentile
Ai figli tuoi questa meschina sede
Se lei riguarderanno
Qual noi già te, d'ogni altro ignari e in forse,
Quando pel ciel si tragge e il sol la fiede.
E torno poscia sconsolato a quello
Vagar sublime e puro
De l'alma in sé ristretta; a quella dolce
Idealtà natia
Da cui disvelto, io giaccio
Come in orrendo esislio
Quasi presso a morir di nostalgìa!
Ogni amor mi fu tolto! ahi, non un viso
Sorride al mio sorriso;
E perché dunque io più non son quell'io?
Ciascun legame è infranto:
Fino i più cari a me dièrmi un addio!

Ma se tu vivi, o cara,
Se qui ancor tu rimani al petto mio,
Oh, non d'affetti avara
Fia la terra ch'io premo! a un sol tuo sguardo
Mi si dilegua alle pupille il mondo!
Oh novo amor sublime
Ch'ogni altro amor più santo in me travanzi!
Teco io vissi e morrò: per te di rime
L'aer qui trema! Oltre lontan que' mari,
Che si stendean dianzi
Qual molle ed ampio velo in lieve azzurro
Tra l'una e l'altra terra;
Oltre là quelle cime
Brune di monti, cui l'oscura notte
Quasi una negra fascia or mi dipinge,
Che dietro a sé già serra
Ai mio veder quei lucidi orizzonti,
Tu posi, fior d'ogni gentile idea!
In me, sì come bella
Appar l'attesa luce a quei del polo,
Con quai dolci desiri, ahi lasso, un giorno
La tua beltà sorgea!
Da me tu lunge or vivi: ed io quest'alma
Sento spezzarsi! oh, se compìti or fièno
Morendo i voti miei,
Diletta mia, deh voglia al tuo ritorno
Accor con ferrea calma
L'opra del fato; e i gemebondi lumi
Ah, non posar su l'infelice salma!

(Da "Ore segrete", 1862)





AUTUNNO
di Luigi Capuana (1839-1915)

Come fiocchi di neve
van cadendo le foglie
e gli alberi fra breve
saranno senza spoglie.

Soffia il vento, s'oscura
di tetre nubi il cielo,
e tutta la natura
par si copra d'un velo.

Ah, la bella stagione
con le foglie è finita!
Al sonno si compone
la terra intorpidita.

Ma, mentre così dorme,
tutte operosamente
rinnova le sue forme
la vita onnipossente.

Dormi, terra; dormite
alberi, erbe, fiori:
a primavera uscite
giovani e freschi fuori.

Oh, v'attendiam! Saremo
rinnovati noi pure.
No, non c'è un giorno estremo,
sorelle creature!

Creature sorelle
si migra ad altre rive;
in più serene, belle
forme, tutto rivive.

(Dalla rivista "Illustrazione Popolare", ott. 1899)





SALUTO D'AUTUNNO
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Pe' verdi colli, da' cieli splendidi, 
e ne' fiorenti campi de l'anima, 
Delia, a voi tutto è una festa 
di primavera: lungi le tombe! 

Voi dolce madre chiaman due parvole, 
voi dolce suora le rose chiamano, 
e il sol vi corona di lume, 
divino amico, la bruna chioma.

Lungi le tombe! Lontana favola 
per voi la morte! Salite il tramite 
de gli anni, e con citara d'oro
Ebe serena v'accenna a l'alto.

Giú ne la valle, freddi dal turbine, 
noi vi miriamo ridente ascendere; 
e un raggio del vostro sorriso 
frange le nebbie pigre a l'autunno.

(Da "Odi barbare", 1893)





MARIA
di Pietro Cossa (1830-1881)

L'autunno si dispoglia
Omai d'ogni sua foglia,
E riedono le piogge e il verno tristo.
Soletto ne la stanza,
A me sovvien de la stagione andata
Come d'una speranza,
E richiamo i suoi fiori, e la tepente
Aura, e il dolce sereno
Onde suole beata
Ai campestri piaceri uscir la gente.

Or dove ti nascondi,
Gracile giovinetta,
Che più non ti rincontro in su la via?
Una donna diletta
Chiamandoti Maria
T'accompagnava con materna cura,
E tu pesando sul fidato braccio
Venivi, uguale a stanca creatura
Che non spera vicino
Il termin del cammino,
Ma del penoso andar non si lamenta.
Talvolta, affatto spenta
Ogni forza provando, t'assidevi
Dove una quercia antica
Sparge freschezza amica
Da un lato del sentier che mena al borgo,
E colà sorridevi
Mesta, vedendo trapassar le belle
Che t'erano sorelle
In giovinezza, e ch'ivano cantando
A mover danze in mezzo a la campagna.

Io sentiva tristezza
In riguardarti, o tenerello fiore
Dell'autunno che muore,
E pien la mente e il petto
D'un angoscioso affetto,
Seguia quel tenuissimo profumo
Che lasciavi fuggendo da la terra.
Nel loco ch'è il più erto
Del bel villaggio, stava
La tua casa modesta,
E intorno v'aleggiava
Il venticel che vien da la marina;
Ivi io solea gran parte
De la notte vicina
Spender vegliando sotto la tua cella.
Pensoso del destin che si riserba
Si spesso a la donzella
Nell'età sua più acerba.
L'ultima volta che ti vidi, il giorno
Splendeva de la festa,
E le fanciulle attorno
Uscìan contente de la veste nova,
E adorne il crin di rose e di viole,
Segno a loquaci sguardi
E a timide parole;
I tuoi passi eran tardi
Più dell'usato, e fra la gente amena
Passava quella tua melanconia
Come picciola nube ov'è del cielo
La parte più serena.
O povera Maria,
Conscia quaggiù mai fosti
De la fiamma che ardevami nel core
Sì sconsolata, e uguale
A quel tuo chiuso male;
E che felice avrei
Dato a fine immatura i giorni miei
Per conservare il tuo gentil sorriso
Più a lungo in queste valli?

Poiché sparia la vaga
Stagione, e le famiglie
Abbandonar questo soggiorno verde,
Ogni di più si perde
De' campi l'allegria,
Il tedio incombe e sue nebbie compagne,
E del cor mio più sanguina la piaga.
Ieri per quella via
Che fra i cipressi mena al campo santo
Men giva solitario,
E uscir de la funerea chiesuola
Vidi una donna che guardava il cielo
Con l'occhio grosso dal continuo pianto.
Qual altro avea disio
Se non deporre de la carne il velo,
E riabbracciare in Dio
La sua morta figliola?

(Da "Poesie liriche", 1876)





ROMANZA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Prono, su 'l mar natale
cui nasconde la duna,
ride il sole autunnale,
dolce come la luna.

S'ode il mare pe 'l lido
gemere, lento e grave.
S'ode talora il grido
fievole d'una nave

che faticosa in vano
lotta co 'l vento avverso,
il richiamo lontano
d'un uccello disperso,

o l'improvviso tuono
d'un'onda più gagliarda.
Ride il sole, già prono,
e dolcemente guarda.

(Da "Isaotta Guttadauro ed altre poesie", 1886)





ROGHI D'AUTUNNO
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Ricordi tu? Ti punge anche il disio
de' vespri gialli a' piani interminati,
o ben degli infantili anni passati
tiene l'anima vinta il pigro oblìo?

Oh! prati gialli nell'autunno! Oh foschi
vespri, di nebbia tenue nutriti:
oh strepente di uccelli impauriti
accidiosa ruggine dei boschi!

Io mi ricordo. Già mi piacque allora
la vostra intimità quasi dolente:
e a me bambino dolorosamente
voi già parlaste: e quella onde mi accora

la lontananza ch'io non so spezzare
meco bevve la vostra erma malia...
Or dove sei, prima compagna mia,
che non ti senti dal mio cuor chiamare?

Erravam per i campi. Eran silenti
i campi, e tristi: qualche foglia rada
s'udia pianger dai rami ai freddi venti:
tenean brevi pozzanghere la strada.

Noi soli... Oh! come il freddo vento a lei
scompigliava i capelli; e al dilicato
volto di bimba il timido incarnato
come fioriva sotto i baci miei!

Poi, per cacciare il freddo, ampia di stecchi
messe raccolta, e di foglie: scavata
una piccola fossa, ai rami secchi
davamo il fuoco: e su, lenta, serrata,

tra 'l fumo acre e 'l sonante crepitìo
salìa la fiamma vigile, sì come
balza da un cuore, al fiammeggiar d'un nome,
l'acre vampa del sogno e del disio.

Oh! pei campi deserti il breve foco!
sopra, qualche castagna abbrustoliva:
indi la fiamma si facea men viva,
e moriva e moriva, a poco a poco...

Restavano i carboni: e noi seduti
al morto rogo scaldavam le mani:
le tristezze perenni, i sogni vani
che dopo per tanti anni ho conosciuti,

oh! non allora mi crescean nel cuore,
oh! non allora il mio cuor sanguinava...
Ella parlava tenue, parlava;
io bevea dalla sua voce l'amore..

Tutto questo finì, tutto è caduto
nel vuoto abisso delle morte cose:
oh! con le nivee man piene di rose,
tenera visione io ti saluto!

Bionda bambina, che di poi dolente
seppi e pensosa del lontano amico,
io qua dirti vorrei, come non dico,
quanto soffersi e quanto t'ebbi in mente:

e ch'ogni anno, al tornar dei freddi giorni,
se pei campi io mi aggiri o a' gialli prati,
qua dove insieme non siam più tornati
dov'io solo ritorno, e tu non torni,

io ti penso e ti piango, e ti desìo;
e mi par di vedere anche, alla riva
d'un rosso bosco, una gran vampa viva
salir tra 'l fumo e 'l denso crepitìo:

i nostri roghi dell'autunno ai piani;
i roghi tristi, dove, a poco a poco,
simili a sterpi che divora il fuoco,
anche questi arderò sogni lontani.

(Da "Il convegno dei cipressi", 1894)





SONETTO D’AUTUNNO
di Arturo Graf (1848-1913)

O stanco autunno, o pia mestizia e cara
Allo stanco mio cor, dacché la folle
Lusinga tacque, e con lo sdegno a gara
L’inquïeto desio più non vi bolle;

O stanco autunno, dalle smunte zolle
Cui l’uom prostrato maledice ed ara,
Dal muto bosco, dal deserto colle,
Tu spiri al cielo una dolcezza amara.

E mentre il vento se ne trae le fronde
Inaridite, e pei cadenti clivi
Muojon, pregando il sol, gli ultimi fiori;

Tu, scolorate larve, e tremebonde
Ricordanze nell’anima ravvivi,
E dolci sogni di perduti amori.

(Da "Le Danaidi", 1897)





GLI ULTIMI GIORNI D'AUTUNNO
di Giuseppe Maccari (1840-1867)

Fosche nubi s' aggirano pel cielo
Nella pugna de' venti, e langue il sole.
Or qua or là s'imbruna la campagna.
Com'è solenne tal melanconia!
La vita alta e robusta delle piante,
E quella sottilissima dell'erbe
Languono insieme. Leva la farfalla
Melanconica il volo, che non trova
Un fior che la diletti nella valle.

Aquilone s'è desto; io ho veduto
Gli alberi turbinare sopra il colle.
Ricoprirsi di foglie inaridite
Il pratello ove rise primavera.
La fantasia vien meno, e più s'avviva
Del cor la vita e signoreggia, e move
Per la mente l'acerbe rimembranze.
Tutto soffre quaggiù; non è perito
L'amor del giglio e della rosa? ed era
Quell'amore innocente, e lo produsse
La forte giovanezza di natura.

Rosseggiavano i lampi, e il lume acceso
Ho nella cameretta; il primo sonno
M'ha interrotto la subita tempesta.
Io starò vigilante, che non posa
Il mesto core, e ad or ad or s'attende,
Perché crescon vicini li cipressi,
L'altissimo fragor della saetta.
La tortorella ha pur fatto lamento.
È timidezza propria di chi nulla
In sé confida, e figlia d'innocenza;
Ché la fiducia allora in Dio si pone.

Il cielo tenebroso piove il freddo;
Ma d' ogni parte all'occidente scoppia
Il fulgor del tramonto, e ancor da lunge
Le sovrapposte nuvolette pinge.
Riverenti alla luce che discende
Stanno le nubi; poi faran tempesta
Cozzando insiem regine della notte.
Cara fanciulla Emilia, ora m'attende
La famiglia che m'ama; un'altra sera
Mi sonerai le dolci melodie.

Quando tu siedi al cembalo fanciulla,
E i capei biondi toccano le spalle
E l'occhio azzurro ride come il cielo,
Io che ti sto d'incontro allora il vago
Paradiso degli angioli mi godo.
Io rinascer vorrei, fanciulla mia,
Vorrei com'ora languida tessuta,
Purché tutta con te pargoleggiasse,
Tutta con te fiorisse la mia vita;
Purché mi amassi, giovinetta, quando
In treccie avvolgerai la lunga chioma,
E sarà l'andar grave, e colmo il seno.

Tutta la vita di natura è un misto
Di gioia e di dolore; or, ecco, il cielo
Ch'era sì torbo, limpido risplende.
Cavalcano le nobili fanciulle;
E ve' tornata, com'april nascesse,
La scherzosa farfalla sui giardini.
Odi, Emilia, vo' dirti un bel secreto
Ch'all'orecchio m'ha amore susurrato;
Amano i fiori (ed esser si potrebbe
Senz'amor?), ma d'alcuni son desio
Mesto le fanciullette, e l'esser colti
Da queste è gioia dell'ingenuo amore.

(Da "Poesie", 1865)





AUTUNNALI
di Nicola Marchese (1858-1910)

Morta è la bella dai capelli d'oro
un'altra volta, la bella e la buona,
che, a fornir pane, ogni anno il suo tesoro
al taglio di più e più falci abbandona.

Pallido, veste l'autunno le spoglie
che nere gli han tessuto i nuvoloni;
e piange e piange lacrime di foglie,
torvo imprecando col rombo de' tuoni.

Ma il vento sperde delle foglie il pianto;
sbiadisce, al sol, delle gramaglie il nero;
i novi azzurri già ridono al canto
che d'immemori ebbrezze è messaggero.

E la vendemmia vien fervida e pia,
porgendo un nappo con prodighe mani,
al qual bevendo, ignorasi ed oblia
d'ieri e d'oggi ogni cura e di domani.

Bevi, autunno, e t'addormi, e di lei sogna
i capei d'oro, non falciata messe.
Creder del vin gli giovi alla menzogna:
un sudario l'inverno a lui già tesse.

(Da "Crisantemi", 1895)





OMBRA D'AUTUNNO
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Or che si velano d'ombra cinerea
le notti roride, Falbe odorose,
che sotto il languido tedio dell' aere
               dormon le cose,

io della pallida mia solitudine
torno al silenzio, torno all' oblio....
Ahi com'è gelida l'ultima lacrima,
               l'ultimo addio!

(Da "Poesie", 1907)





FINE D'AUTUNNO
di Guido Menasci (1867-1925)

Ora il giardino è solitario. Posa
su 'l giardino la trista aria autunnale
grigia. Su 'l cespo arido una rosa
illanguidisce. È l'ultima. Il viale,

che già rideva a l'alba luminosa
d'april di voli e canti, un sepolcrale
silenzio vince. Pare in ogni cosa
un brivido ed un brivido qui assale

l'anima. Sembra che gli alberi spolti
sien scheletri ingialliti e dissepolti.
Poi come su le isterilite aiòle,

dispare il raggio ultimo del sole,
par che la voce non osi parole
e che il silenzio pauroso ascolti.

(Da "Il libro dei ricordi", 1895)





AUTUNNO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Vola, fuggiasca rondine,
che verrò teco a voi.
Tutto è qui morto — o rondine,
dove dirizzi il vol?

Lontan lontan ceruleo
sorride il ciel; sorride
più in alto il sole — o rondine,
quale più ti sorride?

Vola, fuggiasca rondine,
fuggiasco volerò:
tutto è qui morto — perdermi
lontan, lontan io vò.

(Da "Monotonie", 1888)





SERA D'AUTUNNO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Dove vanno le nubi? — In alto, fumide
Verso il ciel di Levante
Le spinge un turbo: viaggiando pigliano
Simulacri di mostro o di gigante

Mobili, strani: sui lor fianchi plumbei
In lunghe oblique file
Passan le gru, lontane, velocissime
Migranti a plaghe in cui s'innova Aprile.

Dove vanno le foglie? — Intorno ruotano
Della brezza sull'ali
Taciturne, o stridendo s'accartocciano
Delle chiuse finestre ai davanzali,

O tra' cespugli del giardin s'impigliano,
Sui fior già smorti infesta
Ghirlanda; cenci scolorati e laceri
Del superbo mantel della foresta.

Contro l'ultima luce del crepuscolo
I foschi baluardi
Erge intanto Bologna: fra i nudi alberi
Qualche acceso fanal brilla a' miei sguardi,

Dai viali del suburbio: un rumor languido
Vien di sopra le mura,
Mentre silenzio ed alta solitudine
Guadagnan d'ogni parte la pianura;

E sbucato pur or di sotto agli embrici
Mi gira un vipistrello
Dintorno al capo — muto, uggioso, assiduo
Come un pensier che ho chiuso entro il cervello...

(Da "Lyrica", 1877)





L'ULTIMO AUTUNNO
di Pietro Paolo Parzanese (1809-1852)

Fuggîr le rondinelle
lungi da questo ciel,
né come pria le stelle
splendono senza vel.

O autunno, e tu ritorni
un'altra volta ancor
co' pallidi tuoi giorni,
co' grigi tuoi vapor!

Eppur io non sperai
vederti ritornar,
ché a mezzo april pensai
la vita abbandonar.

Ma vidi sulla spina
la rosa rifiorir,
or veggo alla collina
i pampini ingiallir.

Deh! col morir dell'anno
potessi anch'io morir,
e senza nuovo affanno
la vita mia finir!

Meco morir vedrei
le foglie i cespi i fior,
le ciglia io chiuderei
ne' rai d'un sol che muor.

Ah! mi son cari tanto
i fiori il cielo il mar!
Nel lor più vivo incanto
non li saprei lasciar.

Chi visse ognor beato
non ama i cespi e i fior,
come chi abbandoanto
si pasce di dolor.

Le belle creature
già il vento scolorò;
già cascano, ed io pure
con esse morirò.

Oh addio! Se qualche fiore
pur dopo me vivrà,
la madre a me sul core
quel mesto fior porrà.

(Da "Canti del Viggianese", 1946)





TRAMONTO
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Porporeggian le viti a la campagna
Nel bigio autunno in sul mancar del sole;
Il pettirosso invita la compagna
A saltellar su le zappate ajuole;

Nel vóto stabbio querula si lagna
La vaccherella a cui tolta è la prole;
Per l'erma strada il poverel si duole
Col cencioso fanciul che l'accompagna.

L'aure senton di muschi e di vinaccia;
E lontan, l'uste de la fiera scòrte,
Latran le mute signorili in caccia;

Mentre a' figli pensando e a la consorte
Il nero carbonajo alza la faccia,
E con bieco pensier fischia a la morte.

(Da "Giustizia", 1883)





MUORE L'AUTUNNO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Muore l'autunno — al vento del giallo mantello si spoglia
il denso bosco; vanno — correndo il bianco

cielo con l' ali stanche — le rondini a più miti plaghe. 
Mesta seduta presso l' alto balcone,

pensando al triste amore, le nuvole guarda sospinte
dal vento ai bianchi colli, fumide, oscure

e le striscie di pioggia che cadono oblique sul lago.
Declina il volto la povera fanciulla

e lagrima — «Fra poco nel freddo sepolcro rinchiusa
giacerò. Il core mi si chiude pensando

ch'io debbo, ahimé morire, morire su 'l fiore de gli anni!»
Mentre l'attrista crudelmente il pensiero

di morte, il sole rompe da ponente le negre nubi,
l'erma campagna di rosea luce innonda,

il lago scintillante, le cime nevose de i monti;
un caldo raggio corre sul bianco volto

de la tisica — Scossa a la nova luce sorride...
ahi sorridendo socchiude gli occhi e muore!

(Da "I miei canti", 1880)





TEDIO AUTUNNALE
di Alberto Rondani (1846-1911)

L'albe son fosche, e lividi i tramonti;
Cascan gocce dai rami e foglie gialle;
Nuvole dense e irresolute i monti,
E tutto fango è il fondo della valle.

Or dove sono i ceruli orizzonti?
Che ne sarà di quel romito calle,
Lungo quel rio, quel rio pieno di fonti,
Di serpilli, di muschi e di farfalle?

In queste scarse ore di luce, a quante
Ricordanze che me chiamano a nome
S'apre il mio cuore come una ferita!

Ed io vi seguirò, trepide e sante
Voci. Ma che, di già s'invecchia? oh, come
Son lunghi i giorni, e rapida la vita!

(Da "Voci dell'anima", 1883)