lunedì 22 ottobre 2012

Poeti dimenticati: Vittoria Aganoor Pompilj

Vittoria Aganoor Pompilj (Padova 1855 - Roma 1910), scrittrice di origine armena, fu allieva dei poeti Giacomo Zanella ed Enrico Nencioni. Nelle sue poesie, pubblicate in età matura, si nota l'influenza di poeti italiani e francesi del secondo Ottocento, tra i quali anche domenico Gnoli, col quale ebbe una relazione amorosa; proprio il tema dell'amore infelice predomina nella sua prima raccolta: "Leggenda eterna" (1900), cui seguì "Nuove liriche" (1908). La Aganoor morì prematuramente dopo un intervento chirurgico e a causa del dolore provato per la sua scomparsa, il marito Guido Pompilj, famoso giurista e uomo politico, si uccise. L'intera opera in versi della poetessa veneta fu pubblicata postuma nel 1912 col titolo "Poesie complete".
 
 
Opere poetiche

"La leggenda eterna", Treves, Milano 1900.
"Nuove liriche", Nuova Antologia, Roma 1908.
"Poesie complete", Le Monnier, Firenze 1912.
 
 
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (pp. 1-11).
"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1310-1313).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 252-253).
"La fiorita francescana", a cura di Tommaso Nediani, Istituto italiano d'arti grafiche, Bergamo 1926 (p. 257, 360).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 311-313).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 144-146).
"La lirica moderna", a cura di Francesco Pedrina, Trevisini, Milano 1951 (pp. 429-437).
"Poetesse del Novecento", a cura di Giovanni Scheiwiller, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1951.
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 62-70).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 316-319).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 286-288).
"Poeti minori dell'Ottocento", Tomo I, a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli-Milano 1958 (1173-1182).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 89-94).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 629-638).
"La poesia femminile del '900", a cura di Gaetano Salveti, Edizioni del Sestante, Padova 1964 (pp. 243-252).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 21-24).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 120-1213).
"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 454-458).
"Poeti del riflusso", a cura di Rina Gagliardi, Savelli, Roma 1979 (p. 113).
"Bizantini e decadenti nell'Italia umbertina", a cura di Elsa Sormani, Laterza, Bari 1981 (pp. 243-248).
"Scrittrici d'Italia", a cura di Alma Forlani e Marta Savini, Newton Compton, Roma 1991 (pp. 181-184).
"Otto secoli di poesia italiana", a cura di Giacinto Spagnoletti, Newton Compton, Roma 1993 (pp. 553-555).
"Poesia religiosa italiana", a cura di Ferruccio Ulivi e Marta Savini, Piemme, Casale Monferrato 1994 (pp. 571-572).
"Poesia italiana 1224-1961. Un'Antologia", a cura di Antonio Carlo Ponti, Guerra, Perugia 1996 (pp. 173-174).
"Antologia illustrata della poesia", a cura di Elvira Marinelli, Giunti, Firenze 2001 (p. 358).
 

 
Testi
L'AVE

Alfine, alfine! ecco tutte
le cose tacciono; il mondo
tace. Regina o schiava
qual mi vuoi abbimi! è questo
il momento, per questo
l'universo aspettava.

Certo aspettava da cento
secoli, e tutti chiedeano:
— Che attende? E perchè questa
tenace estasi, e tanto
accendersi di stelle
come faci a una festa?

Ecco la febbre dell'ora,
scote di palpiti novi
le Pleiadi e nel vento
passa l'annuncio... O mio amore,
unico amore, udisti
l'Ave del firmamento?

( Da "Leggenda eterna" )
 


 

venerdì 19 ottobre 2012

La nera solitudine

La nera solitudine alla nera
solitudine;- il sogno alto al profondo
pensier;- la sera che è triste, alla sera
che piange; - al mondo infranto, il bieco mondo.







È una delle poesie più brevi di Giovanni Camerana (1845-1905), poeta della scapigliatura che non volle mai pubblicare i suoi versi perchè ritenuti incompatibili col suo mestiere di magistrato e che quindi uscirono postumi a partire dal 1907. Qui si possono leggere quattro concetti a cui il poeta affianca, come se fosse un'operazione di matematica, altrettanti concetti: i primi due sono identici e la solitudine viene aggettivata col colore più fosco e lugubre: il nero, ne seguono due che potrebbero definirsi nobili e idealitari; gli altri, riferiti alla sera triste e piangente, e al mondo infranto e bieco, si rifanno alla iniziale "nera solitudine" ed esprimono, nell'insieme, quello "spleen" baudleriano che spesso ha caratterizzato i versi dei seguaci della poesia simbolista, come fu anche Camerana.


martedì 16 ottobre 2012

Il castello e la torre nella poesia italiana decadente e simbolista

Non è frequente (se si esclude qualche caso) la presenza di castelli e di torri nelle poesie dei decadenti e dei simbolisti italiani, ma, quando c'è, in genere vuole indicare una chiusura, un arroccamento del poeta nei confronti di una società non solo ostile, ma anche incapace di comprendere od apprezzare l'opera artistica e in particolare i versi. Succede, nel caso di alcune poesie di Palazzeschi, che la scena si svolga all'esterno del castello, dove una folla guarda l'edificio con curiosità inaudita, poiché dentro di esso si narra accadano fatti incredibili; da qui si capisce che il castello (o la torre) rappresenta un luogo misterioso e inarrivabile, dove vive un'umanità spesso mitizzata fino all'inverosimile. A proposito della torre, inserita insieme al castello perché, come è evidente, quasi sempre fa parte di esso, c'è da notare che in alcuni versi si fa chiaro riferimento alla famosa "torre d'avorio", ovvero un luogo protetto e inaccessibile dove l'intellettuale si chiude per rimanere in aristocratico isolamento dal resto del mondo; altre volte essa s'identifica col sogno (si legga "La torre dei sogni" di Alessandro Giribaldi) in quanto la sua altezza permette al poeta di avvicinarsi maggiormente al cielo e, di conseguenza, all'universo, ovvero d'immergersi nel non-conosciuto o nell'inconscio.




Poesie sull’argomento

Antonio Beltramelli: "I due castelli" in "I Canti di Faunus" (1908).
Francesco Cimmino: "Su l'altura" in «La Settimana», maggio 1902.

Giuliano Donati Pétteni: "La melodia delle sette torri" in "Intimità" (1926).
Emilio Girardini: "In un castello" in "Chordae cordis" (1920).
Alessandro Giribaldi: "La torre dei sogni" in "I canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "Il castello del Loengrino", "Il castello di Ofelia" e "La torre" in "Poesie elettriche" (1911).
Giuseppe Lipparini: "Il castello" in "Lo specchio delle rose" (1898).
Giuseppe Lipparini: "La torre" in "Poemi ed elegie" (1908).
Aldo Palazzeschi: "Il castello dei fantocci" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Torre burla" in "Lanterna" (1907).
Aldo Palazzeschi: "Il mio castello e il mio cervello" in "L'incendiario" (1910).

 
 
Testi
SU L’ ALTURA
Di Francesco Cimmino

Nel silenzio della notte,
Quando via per l'aria scura
I fantasmi vanno in frotte
Seminando la paura,
S'odon voci cupe e rotte
Risonar sovra l'altura
Su cui sorge nel mistero
II castello antico e nero.

Là, una lampa fioca in pria
Or si spegne, or si raccende;
Poi, fra l'ombre della via,
Col suo rosso lume splende:
Chi da l'alto i campi spia ?
Forse è alcun che un altro attende
Ed un caro nome, invano,
Forse invoca di lontano ?

E quel lume triste e fìoco
Divampar si vede aifine:
V'è un baglior come di foco
Del Castel fra le rovine;
E già s'ode a poco a poco
Risonar su le colline,
In quell'aer fosco e muto,
Il lamento d'un liuto:

«Dama bionda, o mio tesoro,
A le mie tristezze amare
Tu sei l'unico ristoro:
Occhi azzurri come il mare,
Trecce bionde come l'oro
Che mi fate sospirare,
Voi sol bramo: solo in voi
Pose amor gl'incanti suoi!»

Poi, più nulla: nel mistero
Che ogni cosa intorno asconde.
Con quel canto lusinghiero,
Suon di baci si confonde;
Ma, ad un tratto, in sul sentiero
Fragor d'armi ecco risponde;
Fin che, in alto, non si sente
Che il singulto d'un morente...

Spunta il sol: fìn le secrete
Valli irradia il novo giorno;
Là son plaghe amene e liete,
Qui di fiori è un campo adorno:
Come un senso di quiete
Al castello spira intorno;
Ed un passero cinguetta:
Oh, che notte maledetta!


(Da «La Settimana», maggio 1902)

domenica 14 ottobre 2012

Poeti dimenticati: Lorenzo Giusso

Lorenzo Giusso (Napoli 1899 - Roma 1957) nacque da una famiglia nobile e colta che molto contribuì alla sua formazione culturale. Dopo il conseguimento della laurea si interessò principalmente di filosofia ma non disdegnò la pratica di altre discipline, tra le quali la poesia. Giusso pubblicò alcune raccolte di versi in cui mostra una certa simpatia per le tematiche dei decadenti e dei crepuscolari, ma in alcuni casi si avvertono anche elementi rientranti nella poetica leopardiana.


 
Opere poetiche
"Musica in piazza", Editrice Tirrena, Napoli 1930.
"Don Giovanni ammalato", A. Guida, Napoli 1932.
"Cadenze di Sigismondo nella torre", Guanda, Modena 1939.
"Elegie del torso della saggezza mutilata", Corbaccio, Milano 1941.
 


 
Testi

NON SEI UN AUDACE

II
Sognavi essere un duca refrattario,
posato sopra i lombi gentilizi
d'un cavallo dagl'impeti fittizi
crudele tracotante autoritario.

Bandito dalla Corte, solitario,
processato per mille orrendi vizi
agli occhi delle dame i malefizi
t'ornavan d'uno stupro leggendario.

Sanguinario dandy dal busto snello,
trascorrevi spavaldo le osterie
fustigando i borghesi intimiditi.

Così passavi i giorni isteriliti
tra risse ed orgie. Un dì le artiglierie
abbattevano al suolo il tuo castello.

(Da "Musica in piazza")


mercoledì 3 ottobre 2012

Antologie: "La fiorita francescana"

"La fiorita francescana" (Istituto d'Arti Grafiche, Bergamo 1926) è il titolo di un "saggio d'una antologia della poesia francescana", così come lo definisce il suo curatore Tommaso Nediani (1871-1934). Si tratta di un libro che raccoglie i migliori versi mai scritti su San Francesco d'Assisi e su altri santi a lui molto vicini, a cominciare da Santa Chiara per arrivare fino ai frati più umili e poco conosciuti che vissero molti anni insieme a Francesco. Non sono assenti inoltre poesie dove vengono messe in primo piano le atmosfere mistiche dei paesaggi e, più in generale, dei luoghi dove visse e operò il santo patrono d'Italia. I poeti che compaiono in questa antologia sono molti: da religiosi e vati dell'epoca di San Francesco a lirici del Novecento; vi sono compresi anche alcuni scrittori stranieri. In complesso "La fiorita francescana" si può definire un'opera assai interessante e originale, che si avvale anche di alcuni fregi e varie composizioni di Luigi Zago (1894-1952) e Mario Barberis (1893-1960). Ecco per concludere l'elenco delle 5 parti che compongono il libro e quindi i nomi di tutti i poeti ivi compresi.
 
 
Parte prima: FRATE FRANCESCO
Parte seconda: AUREOLE FRANCESCANE
Parte terza: LA CANTICA DANTESCA - PAUPERRIMUS BONORUM - L'ABISSO
Parte quarta: CONVENTI E PAESAGGI FRANCESCANI
Parte quinta: LA POESIA E LA LEGGENDA FRANCESCANA
 
 
 
Vittoria Aganoor Pompilj, Ciro Alboni, Francesco Sofia Alessio, Dante Alighieri, Luisa Anzoletti, Zino Ardizzone, Lina Barberis, Clemente Barbieri, Giovanni Bini-Cima, Mario Borgialli, Maria Alinda Bonacci-Brunamonti, Aniello Calcara, Alberto Cappelletti, Giosuè Carducci, Corrado Corradino, Filippo Crispolti, Silvio Cucinotta, Francesco Degli Albizi, Gabriele D'Annunzio, Mariano De Fraia, Luciano De Nardis, Beniamino De Ritis, Alessio Di Giovanni, D. Dragoni, Mariano Falcinelli Antoniacci, Agostino Fattori, Giuseppe Fedele, Saverio Fino, Maria Luisa Fiumi, Mevio Gabellini, Elda Gianelli, Corrado Govoni, Jacopone da Todi, Johannes Joergensen, Louis Le Cardonnel, Zairo Leonelli, Achille Leto, Giulio Locatelli, Henry W. Longfellow, Giuseppe Manni, Ferdinando Merli, Marino Moretti, Ettore Moschino, Giuseppe Nanni, Tommaso Nediani, Angiolo Silvio Novaro, Angiolo Orvieto, Giulio Orsini, Enrico Panzacchi, Ugo Panziera, Ferdinando Paolieri, Giovanni Pascoli, Edvige Pesce-Gorini, Rina Maria Pierazzi, Alfonso Pisaneschi, Ettore Ricci, Giacinto Ricci Signorini, Fortunato Rizzi, Cesare Rossi, Giuseppe Sacconi, Giulio Salvadori, Fausto Salvatori, Edvige Salvi, Ubaldo Scotti, Carlo Sordi, Giovanni Enrico Sturani, Torquato Tasso, Térésah, Giuseppe Urbani, Camilla Varano, Giacinto Verdaguer, Luigi Zambarelli, Giacomo Zanella.



domenica 30 settembre 2012

Ottobre nella poesia italiana decadente e simbolista

Ottobre è il primo mese interamente autunnale e, proprio perché rientra totalmente nella stagione delle foglie morte, ha attratto molti poeti decadenti e simbolisti che hanno scritto dei versi in cui il decimo mese dell'anno si poneva quale annuncio di una fine imminente; fine che coincideva col termine dell'anno solare ma che simbolicamente rappresentava quella della fede, degli ideali, della giovinezza, della speranza e della vita in generale. Il mese di ottobre ha spesso caratteristiche che lo rendono meno crudo e freddo rispetto a novembre, il quale si distingue anche perché definito "mese dei morti", in quanto il suo secondo giorno è proprio dedicato alla commemorazione dei defunti. Ecco quindi le poesie in cui ottobre assume il ruolo di protagonista apportando atmosfere molto spesso tristi e malinconiche, altre volte languide e struggenti, altre ancora impressionistiche.
 
 
 
 
POESIE 
 
SERA D'OTTOBRE
di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912)


Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina!...

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1891)

Pubblicata nella prima edizione di "Myricae", questa breve poesia di Pascoli mostra un paesaggio suggestivo e malinconico. Sulla scena vi sono gli elementi contrastanti che denotano da una parte allegria e quiete (le bacche che ridono e le vacche che placidamente ritornano alla stalla), dall'altra tristezza e malnconia (il povero che si trascina sul terreno pieno di foglie morte e il canto della fanciulla). Tutto ciò per mettere in netto contrasto la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, passaggio che avviene nel mese di ottobre.
 



 
MORIENTE OCTOBRE
di Giovanni Tecchio (Bassano 1872 - ?)


Muore l'Ottobre. Tristi, funerali
fra una tetra e monotona giallura
e dando al cuore un senso di paura,
s'ergono ignudi i tigli ne' viali.

Cala il corvo librandosi su l'ali
per le macchie che imprunan la pianura.
Muore l'ottobre e par che la Natura
tristemente il sospiro ultimo esali.

Or non fioriscono più le rose, o Amore.
Funebri su le tombe i crisantemi
han sussarri di morte e di dolore.

Ma il Dolore e la Morte Tu non temi,
poi che T'arride giovinezza in fiore:
di gioia e di salute esulti e fremi!

(Da "Mysterium", Galli & Guindani, Milano 1894)

È la descrizione di una rigida giornata di fine ottobre, fatta d'impressioni che fanno pensare alla morte: la morte dell'anno che, come dice lo stesso poeta, "esala l'ultimo respiro". La presenza dei crisantemi sta ad annunciare l'imminente novembre che, come è ben noto, inizia con la commemorazione dei defunti.
 

 

 
TRAMONTO DI UN GIORNO DI OTTOBRE
di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937)

Una sera d'ottobre tutta piena
d'incanti. L'acqua gialla come un oro
liquido, il cielo giallo come un oro
trasparente, una lenta cantilena
che scendea nella gran calma serena
del tramonto, sul fiume tutto d'oro
ed un irraggiamento tutto d'oro
intorno a qualche lucida polena.

Io guardai lungamente quella sera
una bianca goletta che partìa
tacita, senza che nessuna voce
le lanciasse il saluto ultimo. Ed era
come un antico sogno che svanìa,
navigante così verso la foce.

(Da "La Città di Vita", Premiata tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)

È questa una poesia che in primis mette in risalto i colori e i conseguenti effetti che provocano sul paesaggio dove domina un effetto ipnotico, di profondissima calma. L'immagine della goletta che si allontana lentamente rappresenta la fine di un grande sogno e la conseguente rassegnazione.
 

 
 
 
OTTOBRE
di Giuseppe Deabate (San Germano Vercellese 1857 - Torino 1928)

Ottobre è il mese in cui più tristi e acute
Scendon le amare ricordanze in core,
E il pensier delle dolci ore vissute
Desta i rimpianti d'un perduto amore.

Tutto; il bel verde che languendo muore
E le foglie dagli alberi cadute
Svegliano mille voci di dolore,
Mille pensieri ed estasi perdute....

Così io lo sento nei tramonti d'oro
Di queste meste e placide giornate,
Nell'eco estrema dell'uman lavoro

Che via pei campi dileguando sale....
Sento levarsi dalla morta estate
Il divino d'ottobre inno autunnale.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)

Come spiega bene il poeta il mese di ottobre suscita nell'animo umano una profonda tristezza, ciò si deve al paesaggio che mostra immagini di decadimento e di fine imminente. Eppure anche queste sensazioni posseggono un fascino arcano, che molto si avvicinano a qualcosa di divino. Tutto questo sentire è poi confermato dalla quiete estrema che contraddistingue alcune giornate di ottobre, particolarmente quando lo scenario è quello della campagna, così ricca in tale periodo dell'anno di colori vivi e suggestivi.
 
 
 

 
OTTOBRE
di Enrico Thovez (Torino 1869 - ivi 1925)

Calpesto adagio le foglie stridule al passo: ho rimorso
d'essere solo. Non penso soltanto a me quassù: sento
che un bene inutile palpita per l'aria, e fugge per sempre.
Guardate! È un magico incendio. Il sole basso sul colle
traversa d'un oro languido le masse rosse dei boschi.
Ardono pallidamente ; sembrano struggersi in fiamma
nel cielo cerulo: dicono qualcosa al cuore di tenero,
di grande. È forse il ricordo di un altro giorno d'autunno,
lontano, un altro tramonto languido d'oro, una fiamma,
e in fondo all'anima il lampo d'un indicibile amore.
Io salgo su per la ripida costa boscosa; mi pungo
aprendo a forza i cespugli, affondo in mucchi di foglie,
mi volto ansante a guardare, salgo più alto, più alto...
Al vento freddo le foglie accartocciate sui rami
crocchiano fragili, parlano. E tutt'attorno è un'immensa
caduta rossa di foglie, un rosso turbin di foglie.
Io, solo, ritto sul sommo della collina, protendo
la faccia al vento gelato, saluto il sole spettrale.
Godo del sibilo acuto dei rossi sciami, e mi creo
l'esile donna pensosa della mia mente, l'amante
che mi comprenda in quest'ora, in quest'angoscia, che langua
con me d'inutile amore per questo roseo fulgore
del cielo dietro le siepi, le rame e i tronchi dei boschi:
credo sentire sul viso il gelo della sua guancia...
Rabbrividisco; mi getto pel bosco a corsa, gemendo,
e annego me col mìo spasimo nella pietà di quest'ombra.

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)

A conferma della poesia precedente ecco questa di Thovez, dove il poeta rimane estasiato dal grandissimo fascino del paesaggio ottobrino; è un'estasi che, negli animi più sensibili, sollecita il sogno, la visione. Così Thovez immagina di trovarsi, in quel mondo magnifico, insieme ad un'amante impossibile: la donna ideale, la sola capace di comprendere il difficile e tormentato animo del poeta.
 
 

 
MOMENTO OTTOBRINO
di Giovanni Bertacchi (Chiavenna 1869 - Milano 1942)

Profumi di giovani donne
che recan sul cuor le viole;
fruscii di piedini e di gonne,
sussurri di rotte parole,

io seguo, poeta disperso,
le vostre disperse malie;
stillante di lagrime, il verso
rivola d'amor sulle vie.

Oh, dolce passar delle foglie
cadute sul molle tappeto!
La nebbia d'intorno raccoglie
dei cuori l'errante segreto.

Oh, dolce dell'umide bocche
libar dell'amore i veleni!
Si celan, d'un brivido tocche,
le morte viole ne' seni.

(Da "Liriche umane", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1903)

Si nota in questi versi di Bertacchi (poeta in verità quasi totalmente estraneo alla poesia decadente e simbolista) una insolita attenzione all'universo femminile, visto qui in modo originale e misterioso. Le donne affascinanti, coi loro profumi, i fruscii delle loro gonne, i fiori che abbellisicono la loro figura, attraggono il poeta che comunque si rende ben conto che sotto quelle immagini invoglianti si celano insospettabili pericoli.
 



 
IL RE DI THULE
di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943)

Ride nel cielo azzurro il sol delle età morte:
è l'aura delli autunni morti che intorno a me
lambe le gialle cime delle alberelle attorte
e ne sparge le frondi vizze sotto i miei piè.

Ottobre, o dolce mese che sapesti i miei giòchi,
che li amor miei sapesti - tutto e raccolto qua?
ben tu nel cielo azzurro riaccendi i tuoi fòchi,
come sognando un ultimo sogno di voluttà.

Oh! disperatamente soavi i baci estremi:
e tu lo sai: ti appresti, con dolente piacer,
ghirlandate le tempia fredde di grisantemi,
tra l'ultimo sorriso l'ultima coppa a ber.

Bevi, ottobre. Io pur giunto, precocemente, agli anni
freddi, sotto il tuo sole che non sa più scaldar,
io pur levo la coppa, libo a' miei vecchi inganni;
poi, come il re di Thule, gitto la coppa al mar.

(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio", Lattes, Torino 1903)

La poesia del Giorgieri Contri prende spunto da un altro componimento in versi, di Johann Wolfgang von Goethe, intitolato Der König in Thule, dove si parla del leggendario Re di Thule che ebbe in regalo una coppa d'oro dalla sua bella già moribonda. La preziosa coppa divenne l'oggetto più caro al Re, che continuò a bere soltanto da essa, fino alla sua morte, poco prima della quale bevve ancora un ultimo sorso e gettò l'oggetto nel mare.
 
 


 
FILATTERIO
di Corrado Govoni (Tamara 1884 - Roma 1965)

Ottobre. Addio di rondini. L'adagio
de le nebbie su le solitarie
dimore cala. Il debole suffragio
de la luce le tiene stazionarie.

Ma ecco che l'autunnale contagio
si propaga: e le cose più ordinarie
ne le stanze si sentono a disagio
come de le novelle pensionarie.

I monasteri dai muri di cloro
su cui l'inverno allenta le sue chiuse
incominciano tutti ad appassire;

e le sperse campane, da le loro
grige casucce da le porte chiuse,
fanno la propaganda di morire.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)

È la prima poesia della sezione intitolata Rosario di conventi che fa parte della raccolta più crepuscolare e decadente di Corrado Govoni: "Armonia in grigio et in silenzio". Leggendola si ha la netta impressione di trovarsi a Bruges, città belga tanto cara ai poeti crepuscolari e resa celebre dal romanzo di Georges Rodenbach: Bruges la morta. Gli "addii delle rondini", le "nebbie solitarie", le "novelle pensionarie", i "monasteri dai muri di cloro", le "sperse campane" e le "grige casucce" sono immagini simboliche che amplificano un sentimento malinconico tipico dell'autunno e in particolare delle giornate ottobrine.
 
 
 

 
PAESAGGIO D'OTTOBRE
di Federigo Tozzi (Siena 1883 - Roma 1920)

Sorgono i monti turchini, e in cima la neve biancheggia,
come un chiaro di sogno veduto da lontano.

Pallidi i boschi, e rinchiusi tra poggi che scendono a valle,
fremon a' venti freddi, con poche foglie vizze.

È questo il mese maligno, che lascia squagliare nel fango
i colori maliardi, pieni di nostri amori.

L'anima ancora si spoglia d'orgogli fioriti in estate:
nuda, ricerca il sole tiepido, e aspetta stanca,

quasi ch'un altro sorriso le giunga, invitandola a amare.
Passano in fretta donne meste, con nere trecce;

vanno lontane a morire in nebbie giallognole e verdi
di visioni oppresse da la mestizia loro:

sembrano foglie travolte dal vento, avviate ad un lago;
e un riso di pezzente s'asconde dietro i tronchi.

(Da "Le Poesie", Vallecchi, Firenze 1981)

Questa poesia del noto romanziere toscano fu pubblicata postuma nel volume Novale (Mondadori, 1925) e proviene da una copia manoscritta di Emma Palagi (moglie dell'autore) che a sua volta l'aveva recuperata da un taccuino di Tozzi; in quest'ultimo è presente la data di composizione: «19 ottobre 1903». Anche qui, come in molti altri versi, si nota una descrizione paesaggistica dalle tinte fortemente malinconiche.
 



 
COROT
di Giovanni Camerana (Casale Monferrato 1845 - Torino 1905)

È Autunno. Il parco tanto verde un dì
splendido tanto,
intirizzisce nella nebbia. il canto
cessò nei rami; ogni allegria finì.

È il triste Ottobre. I fracidi sentier
son seminati
di foglie gialle e piene d'acqua; i prati
fumano, come un immenso incensier.

Sullo stagno, che attonito squallor
che strana calma!
Forse lenta nel fondo erra la salma
di qualche ondina dai capelli d'or.

Le bacian l'alghe flessuose il piè
fatto di neve;
non è una morta, è un'ombra bianca e lieve
una ideale trasparenza ell'è.

Nel buio specchio rigato qua e là
di un tenue filo
bianco, immerge la selva il suo profilo
la selva sacra per antica età.

È Autunno, è il pianto funebre, il respir
dell'agonia;
gravi echi d'arpa e strofe d'elegia
paion dal lago e dalla selva uscir....

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)

Il componimento fa parte di un manoscritto del poeta piemontese che comprende 51 poesie scritte tra il 1870 ed il 1904; Corot porta la nota: «Ricopiato | addì 14 agosto 1904». Il titolo non è altro che il cognome del grande pittore francese Jean-Baptiste-Camille Corot (1796-1875), autore di molti paesaggi cupi e suggestivi. Per quanto riguarda il tema della poesia appare evidente il clima di totale tristezza e squallore che incombe in molti versi del Camerana, che vede nell'ottobre e nell'autunno la fine della vita.
 
 
 

 
OTTOBRATA IN MALINCONIA DI SBAGLIATO DESTINO
di Annunzio Cervi (Sassari 1892 - Monte Grappa 1918)

giornerello di ottobre mediocre di sole
un giornerello sciatto sciatto con uno sfinito solicino
da dolciastro ricordo di bambino
per sembrare marzolino non gli mancano che le viole

sole come una vecchia borchia d'ottone
cencini di nuvole a fregarlo
a lucidarlo
con lentissima attenzione precauzione

pozzette a terra di nottambula pioggerella
foglie cadute e foglie non cadute
vi galleggiano immerse o riflettute
qualche primo passero rapido scende a bere si dimentica saltella

cittadina goffagine dell'albero piazzaiolo
nella sua rivestitura di protezione
in cui sembra un monelluccio insaccato in un giacchettone
passato di padre in magrolino figliolo

nei giornerelli come questi piace
in una cabina di tram chiuso
- col suo vellutello granato consumato dall'uso -
lasciarsi scorrere verso un sobborgo in zitta pace

nel tram siete quasi soletto
appena una signora - vecchina -
- certamente nonnina -
il suo soldino lo trae da un nodello del fazzoletto

il tram in fuga per vie deserte
per infangate piazzole
in cui una fontanina nella dolcezza del sole
a lasciarsi colare in tanta limpidità si diverte

a qualche fermata di coincidenza
monotonamente lunga
attraverso i vetri chiusi può darsi che vi giunga
un po' di musica strimpellata in una scordata cadenza

non vi voltate neppure a guardare
dev'essere il solito storpiato
ma suona l'Addio del passato
e la vostra malinconia da quel ritmo baggiano ve la lasciate ninnare

ad una ripresa della melopea il tram stintinnando
birichinamente pianta in asso la vecchia musica e la fuga riprende
qualche monello al vagone si appende
tra staffone e terra il suo piedino titubando

e subito il desiderio di vederlo felice quel monellino
chiamandolo sopra e pagandogli un biglietto
anzi per fare al tranviere - che corre a scacciarlo - un dispetto
magari metterselo vicino

ma vi sentite tanto beato assonnato
nella dolcezza del melenso solicello
che non vi muovereste neppure se quel monello
nella corsa fosse sbalzato e sfracellato

oltre il caseggiato tra due muri umidicci
adesso il tram a tutta corsa si affretta
in un'ombra freddina quasi violetta
come un bucato d'assassino si stendono i tralci rossicci

ad una sosta di muraglione
il sole come un pazzo controllore
eccovelo sulla piattaforma anteriore
entra dentro con dorata precipitazione

spicca un salto dalla piattaforma di dietro
sparisce senza avere esaminato
se ognuno il suo biglietto di gioia l'abbia acquistato
siamo di nuovo nell'ombra del muro tetro

infine l'arrivo al borgo inatteso
intormentiti vi alzate senza ricordare
che cosa vi siete venuti a fare
non ve ne ricordate neppure quando siete sceso

accanto al capolinea
in un fornello di ferro - sforacchiato come un ordegno dell'inferno -
una donnina cuoce le prime castagne dell'inverno
quelle già cotte in un cantuccio le allinea

ai primi passi un bimbetto seduto sul marciapiede
a sfornare uno sbadiglio dalla bocca
salta su m'offre un soldo di spilli mi prega mi tocca
ma quasi convinto di darmi più di quello che chiede

pigro dilungo i miei passi pensandomi nel gorgo
forse d'uno sbagliato destino
nato per essere come quel bambino
per vendere un soldo di spilli in un sobborgo

nato per essere il bambino che quando se ne muore
la gente dice: - Ha cessato d'essere infelice -
e lui che dalla vita si allontana col segreto d'esser stato felice
e d'avere qualche cosa - quel segreto - da portarsi nel cuore.

(Da «La Diana», maggio 1916)

Una poesia che mostra chiari elementi di sperimentalismo, come era d'uopo nel periodo in cui fu pubblicata: vi sono tracce di futurismo, espressionismo e crepuscolarismo.
 


 
 
OTTOBRE
di Mario Adobati (Bergamo 1889 - 1919)

Anima cara che sorridi appena
di quale mai dolcezza sei custode!
Anima cara, è forse cantilena
d'una canzone che ora più non s'ode?

Anima cara, svolgesi la vena
di un fonte dolce entro di te: è un'ode
che pienamente nel fluire fa piena
una coppa con ritmo di melode.

Anima, custodisci la bellezza,
o tu del cuore piccola sorella,
questa bellezza che non mai si vide.

Anima cara colma di dolcezza,
anima mia, canora come quella
di un fanciullo innocente che sorride!

(Da "I cipressi e le sorgenti", Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)
 
È la decima poesia della sezione I mesi dell'anima che fa parte del volume "I cipressi e le sorgenti". La figura di Mario Adobati molto somiglia a quella di Sergio Corazzini, sia per la prematura morte, sia per i toni decisamente malinconici che manifestano i suoi versi. Anche i riferimenti frequenti all'anima accomunano i due poeti, come si può notare in questa poesia.

mercoledì 26 settembre 2012

Antologie: "La poesia italiana di questo secolo" (1929)

"La poesia italiana di questo secolo" di Pietro Mignosi è un libro pubblicato nel 1929 dalle Edizioni del Ciclope in Palermo. Non si tratta di una vera e propria antologia, ma, piuttosto, di un saggio antologico; ecco, comunque, cosa dice a proposito del suo libro Pietro Mignosi nella prefazione:
«Questo libro sulla poesia italiana dell'ultimo trentennio è il primo tentativo di vedere storicamente il sorgere, l'assestarsi ed il programma di una nuova poesia italiana. Non credo che si sia fatto ancora niente di simile. I tentativi di offrire in un quadro le prospettive e i documenti salienti della nostra poesia sono, come è risaputo, assai scarsi».
Di seguito a queste affermazioni, Mignosi fa una veloce disamina delle antologie uscite intorno a quegli anni, dalla celebre "Poeti d'oggi" di Giovanni Papini e Pietro Pancrazi, alla repertoriale "Le più belle pagine dei poeti d'oggi" di Olindo Giacobbe. Quindi il critico-poeta conclude la sua analisi ribadendo l'assoluta originalità e la totale novità del suo lavoro con queste parole:
«Il mio libro è un'altra cosa: pieno di responsabilità e di spine. Ed utile anche. Lacune? e sì che ce ne sono. Qualche sguardo troppo frettoloso? e lo credo. Qualche cantonata? è anche possibile. Ma bisogna pensare alle difficoltà di un lavoro di questo genere, allo sforzo cioè di chiudere una letteratura così frondosa ed esuberante in un libretto di trecento pagine dove ci fosse un po' di tutte le cose necessarie: quadro e giudizio critico, scorcio di personalità, informazioni bio-bibliografiche e saggi di quei poeti tra i meno noti, i più caratteristici, e i più degni».
Passando alla struttura del libro, ecco i titoli dei capitoli in cui è diviso:


I. Nel solco dell'ottocento
II. Affinità e sondaggi
III. Il periodo della dissoluzione
IV. Uso trascendentale della poesia
V. Pudore della poesia
VI. Poesia: troppo o troppo poco
VII. La poesia nuova
Aggiunte
Appendice.


Ogni capitolo comprende una breve presentazione del curatore, sintetiche note bio-bibliografiche dei poeti inclusi con qualche veloce giudizio critico e, per alcuni di essi, un'antologizzazione di testi sia in versi che in prosa. Alla fine dei sette capitoli l'autore ha inserito una sezione intitolata "Aggiunte" in cui vengono recuperati alcuni poeti sfuggiti (parole del Mignosi) che avrebbero dovuto trovar posto nei capitoli principali; per pochi di loro è presente anche una scarna antologizzazione.
Chiude l'opera un'appendice che comprende brevi notizie su altri duecento poeti che Mignosi ammette di conoscere poco o di non conoscere affatto.
Prendendo in considerazione la sola parte antologica del libro, risulta netta la sua parzialità e la sua incompletezza. La parzialità è dimostrata dalla prevalenza assoluta di poeti (o prosatori) siciliani, spesso anche poco significativi, tra i quali c'è anche il curatore. La incompletezza è evidente in quanto vengono praticamente esclusi quasi tutti i nomi più importanti della poesia italiana del primo Novecento.
Ecco infine l'elenco, diviso per capitoli, dei poeti antologizzati in "La poesia italiana di questo secolo".
 
 
NEL SOLCO DELL'OTTOCENTO
Ettore Arculeo, Giovanni Alfredo Cesareo, Cecilia Deni, Antonio Fogazzaro, Cristoforo Ruggieri, Santi Sottile Tomaselli.


AFFINITÀ E SONDAGGI
Francesco Cappiello, Franco Caracci, Silvio Cucinotta, Calogero Di Mino, Nino Fici Li Bassi, Angelina Lanza, Giuseppe Longo, Guglielmo Lo Curzio, Diego Valeri.


IL PERIODO DELLA DISSOLUZIONE
Enrico Cardile, Francesco Di Chiara, Ignazio Dràgo, Lionello Fiumi, Armando Mazza, Giuseppe Rossi Barbera.


USO TRASCENDENTALE DELLA POESIA
Antonino Anile, Corrado Curcio, Federico De Maria, Vincenzo De Simone, Giuseppe Fabris, Luigi Fallacara, Augusto Garsia, Augusto Hermet, Ofelia Mazzoni, Corrado Pavolini, Giuseppe Steiner, Nicola Valenza, Pietro Zanfrognini, Alessandro Zirardini.


PUDORE DELLA POESIA
Andrea Agueci, Garibaldo Alessandrini, Arturo Arioti, Rosolino Davy Gabrielli, Vincenzo Guarnaccia, Giuseppe Maggiore, Guido Manacorda, Giuseppe Angelo Peritore, Mario Puccini, Alfonso Ricolfi, Carmelo Ripellino, Luigi Tonelli.


POESIA: TROPPO E TROPPO POCO
Attilio Della Torre.


LA POESIA NUOVA
Ugo Betti, Giorgio Bonavia, Giuseppe Antonio Borgese, Erminio Cavallero, Pietro Mignosi, Gino Novelli, Renzo Pezzani, Luca Pignato, Giuseppe Sciortino.


AGGIUNTE
Giuseppe Cartella Gelardi, Alessandro Caja, Tommaso Nediani, Fortunato Rizzi.