domenica 30 settembre 2012

Ottobre nella poesia italiana decadente e simbolista

Ottobre è il primo mese interamente autunnale e, proprio perché rientra totalmente nella stagione delle foglie morte, ha attratto molti poeti decadenti e simbolisti che hanno scritto dei versi in cui il decimo mese dell'anno si poneva quale annuncio di una fine imminente; fine che coincideva col termine dell'anno solare ma che simbolicamente rappresentava quella della fede, degli ideali, della giovinezza, della speranza e della vita in generale. Il mese di ottobre ha spesso caratteristiche che lo rendono meno crudo e freddo rispetto a novembre, il quale si distingue anche perché definito "mese dei morti", in quanto il suo secondo giorno è proprio dedicato alla commemorazione dei defunti. Ecco quindi le poesie in cui ottobre assume il ruolo di protagonista apportando atmosfere molto spesso tristi e malinconiche, altre volte languide e struggenti, altre ancora impressionistiche.
 
 
 
 
POESIE 
 
SERA D'OTTOBRE
di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912)


Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina!...

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1891)

Pubblicata nella prima edizione di "Myricae", questa breve poesia di Pascoli mostra un paesaggio suggestivo e malinconico. Sulla scena vi sono gli elementi contrastanti che denotano da una parte allegria e quiete (le bacche che ridono e le vacche che placidamente ritornano alla stalla), dall'altra tristezza e malnconia (il povero che si trascina sul terreno pieno di foglie morte e il canto della fanciulla). Tutto ciò per mettere in netto contrasto la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, passaggio che avviene nel mese di ottobre.
 



 
MORIENTE OCTOBRE
di Giovanni Tecchio (Bassano 1872 - ?)


Muore l'Ottobre. Tristi, funerali
fra una tetra e monotona giallura
e dando al cuore un senso di paura,
s'ergono ignudi i tigli ne' viali.

Cala il corvo librandosi su l'ali
per le macchie che imprunan la pianura.
Muore l'ottobre e par che la Natura
tristemente il sospiro ultimo esali.

Or non fioriscono più le rose, o Amore.
Funebri su le tombe i crisantemi
han sussarri di morte e di dolore.

Ma il Dolore e la Morte Tu non temi,
poi che T'arride giovinezza in fiore:
di gioia e di salute esulti e fremi!

(Da "Mysterium", Galli & Guindani, Milano 1894)

È la descrizione di una rigida giornata di fine ottobre, fatta d'impressioni che fanno pensare alla morte: la morte dell'anno che, come dice lo stesso poeta, "esala l'ultimo respiro". La presenza dei crisantemi sta ad annunciare l'imminente novembre che, come è ben noto, inizia con la commemorazione dei defunti.
 

 

 
TRAMONTO DI UN GIORNO DI OTTOBRE
di Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937)

Una sera d'ottobre tutta piena
d'incanti. L'acqua gialla come un oro
liquido, il cielo giallo come un oro
trasparente, una lenta cantilena
che scendea nella gran calma serena
del tramonto, sul fiume tutto d'oro
ed un irraggiamento tutto d'oro
intorno a qualche lucida polena.

Io guardai lungamente quella sera
una bianca goletta che partìa
tacita, senza che nessuna voce
le lanciasse il saluto ultimo. Ed era
come un antico sogno che svanìa,
navigante così verso la foce.

(Da "La Città di Vita", Premiata tip. dell'Umbria, Spoleto 1896)

È questa una poesia che in primis mette in risalto i colori e i conseguenti effetti che provocano sul paesaggio dove domina un effetto ipnotico, di profondissima calma. L'immagine della goletta che si allontana lentamente rappresenta la fine di un grande sogno e la conseguente rassegnazione.
 

 
 
 
OTTOBRE
di Giuseppe Deabate (San Germano Vercellese 1857 - Torino 1928)

Ottobre è il mese in cui più tristi e acute
Scendon le amare ricordanze in core,
E il pensier delle dolci ore vissute
Desta i rimpianti d'un perduto amore.

Tutto; il bel verde che languendo muore
E le foglie dagli alberi cadute
Svegliano mille voci di dolore,
Mille pensieri ed estasi perdute....

Così io lo sento nei tramonti d'oro
Di queste meste e placide giornate,
Nell'eco estrema dell'uman lavoro

Che via pei campi dileguando sale....
Sento levarsi dalla morta estate
Il divino d'ottobre inno autunnale.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)

Come spiega bene il poeta il mese di ottobre suscita nell'animo umano una profonda tristezza, ciò si deve al paesaggio che mostra immagini di decadimento e di fine imminente. Eppure anche queste sensazioni posseggono un fascino arcano, che molto si avvicinano a qualcosa di divino. Tutto questo sentire è poi confermato dalla quiete estrema che contraddistingue alcune giornate di ottobre, particolarmente quando lo scenario è quello della campagna, così ricca in tale periodo dell'anno di colori vivi e suggestivi.
 
 
 

 
OTTOBRE
di Enrico Thovez (Torino 1869 - ivi 1925)

Calpesto adagio le foglie stridule al passo: ho rimorso
d'essere solo. Non penso soltanto a me quassù: sento
che un bene inutile palpita per l'aria, e fugge per sempre.
Guardate! È un magico incendio. Il sole basso sul colle
traversa d'un oro languido le masse rosse dei boschi.
Ardono pallidamente ; sembrano struggersi in fiamma
nel cielo cerulo: dicono qualcosa al cuore di tenero,
di grande. È forse il ricordo di un altro giorno d'autunno,
lontano, un altro tramonto languido d'oro, una fiamma,
e in fondo all'anima il lampo d'un indicibile amore.
Io salgo su per la ripida costa boscosa; mi pungo
aprendo a forza i cespugli, affondo in mucchi di foglie,
mi volto ansante a guardare, salgo più alto, più alto...
Al vento freddo le foglie accartocciate sui rami
crocchiano fragili, parlano. E tutt'attorno è un'immensa
caduta rossa di foglie, un rosso turbin di foglie.
Io, solo, ritto sul sommo della collina, protendo
la faccia al vento gelato, saluto il sole spettrale.
Godo del sibilo acuto dei rossi sciami, e mi creo
l'esile donna pensosa della mia mente, l'amante
che mi comprenda in quest'ora, in quest'angoscia, che langua
con me d'inutile amore per questo roseo fulgore
del cielo dietro le siepi, le rame e i tronchi dei boschi:
credo sentire sul viso il gelo della sua guancia...
Rabbrividisco; mi getto pel bosco a corsa, gemendo,
e annego me col mìo spasimo nella pietà di quest'ombra.

(Da "Il poema dell'adolescenza", Streglio, Torino 1901)

A conferma della poesia precedente ecco questa di Thovez, dove il poeta rimane estasiato dal grandissimo fascino del paesaggio ottobrino; è un'estasi che, negli animi più sensibili, sollecita il sogno, la visione. Così Thovez immagina di trovarsi, in quel mondo magnifico, insieme ad un'amante impossibile: la donna ideale, la sola capace di comprendere il difficile e tormentato animo del poeta.
 
 

 
MOMENTO OTTOBRINO
di Giovanni Bertacchi (Chiavenna 1869 - Milano 1942)

Profumi di giovani donne
che recan sul cuor le viole;
fruscii di piedini e di gonne,
sussurri di rotte parole,

io seguo, poeta disperso,
le vostre disperse malie;
stillante di lagrime, il verso
rivola d'amor sulle vie.

Oh, dolce passar delle foglie
cadute sul molle tappeto!
La nebbia d'intorno raccoglie
dei cuori l'errante segreto.

Oh, dolce dell'umide bocche
libar dell'amore i veleni!
Si celan, d'un brivido tocche,
le morte viole ne' seni.

(Da "Liriche umane", Libreria Editrice Nazionale, Milano 1903)

Si nota in questi versi di Bertacchi (poeta in verità quasi totalmente estraneo alla poesia decadente e simbolista) una insolita attenzione all'universo femminile, visto qui in modo originale e misterioso. Le donne affascinanti, coi loro profumi, i fruscii delle loro gonne, i fiori che abbellisicono la loro figura, attraggono il poeta che comunque si rende ben conto che sotto quelle immagini invoglianti si celano insospettabili pericoli.
 



 
IL RE DI THULE
di Cosimo Giorgieri Contri (Lucca 1870 - Viareggio 1943)

Ride nel cielo azzurro il sol delle età morte:
è l'aura delli autunni morti che intorno a me
lambe le gialle cime delle alberelle attorte
e ne sparge le frondi vizze sotto i miei piè.

Ottobre, o dolce mese che sapesti i miei giòchi,
che li amor miei sapesti - tutto e raccolto qua?
ben tu nel cielo azzurro riaccendi i tuoi fòchi,
come sognando un ultimo sogno di voluttà.

Oh! disperatamente soavi i baci estremi:
e tu lo sai: ti appresti, con dolente piacer,
ghirlandate le tempia fredde di grisantemi,
tra l'ultimo sorriso l'ultima coppa a ber.

Bevi, ottobre. Io pur giunto, precocemente, agli anni
freddi, sotto il tuo sole che non sa più scaldar,
io pur levo la coppa, libo a' miei vecchi inganni;
poi, come il re di Thule, gitto la coppa al mar.

(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio", Lattes, Torino 1903)

La poesia del Giorgieri Contri prende spunto da un altro componimento in versi, di Johann Wolfgang von Goethe, intitolato Der König in Thule, dove si parla del leggendario Re di Thule che ebbe in regalo una coppa d'oro dalla sua bella già moribonda. La preziosa coppa divenne l'oggetto più caro al Re, che continuò a bere soltanto da essa, fino alla sua morte, poco prima della quale bevve ancora un ultimo sorso e gettò l'oggetto nel mare.
 
 


 
FILATTERIO
di Corrado Govoni (Tamara 1884 - Roma 1965)

Ottobre. Addio di rondini. L'adagio
de le nebbie su le solitarie
dimore cala. Il debole suffragio
de la luce le tiene stazionarie.

Ma ecco che l'autunnale contagio
si propaga: e le cose più ordinarie
ne le stanze si sentono a disagio
come de le novelle pensionarie.

I monasteri dai muri di cloro
su cui l'inverno allenta le sue chiuse
incominciano tutti ad appassire;

e le sperse campane, da le loro
grige casucce da le porte chiuse,
fanno la propaganda di morire.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)

È la prima poesia della sezione intitolata Rosario di conventi che fa parte della raccolta più crepuscolare e decadente di Corrado Govoni: "Armonia in grigio et in silenzio". Leggendola si ha la netta impressione di trovarsi a Bruges, città belga tanto cara ai poeti crepuscolari e resa celebre dal romanzo di Georges Rodenbach: Bruges la morta. Gli "addii delle rondini", le "nebbie solitarie", le "novelle pensionarie", i "monasteri dai muri di cloro", le "sperse campane" e le "grige casucce" sono immagini simboliche che amplificano un sentimento malinconico tipico dell'autunno e in particolare delle giornate ottobrine.
 
 
 

 
PAESAGGIO D'OTTOBRE
di Federigo Tozzi (Siena 1883 - Roma 1920)

Sorgono i monti turchini, e in cima la neve biancheggia,
come un chiaro di sogno veduto da lontano.

Pallidi i boschi, e rinchiusi tra poggi che scendono a valle,
fremon a' venti freddi, con poche foglie vizze.

È questo il mese maligno, che lascia squagliare nel fango
i colori maliardi, pieni di nostri amori.

L'anima ancora si spoglia d'orgogli fioriti in estate:
nuda, ricerca il sole tiepido, e aspetta stanca,

quasi ch'un altro sorriso le giunga, invitandola a amare.
Passano in fretta donne meste, con nere trecce;

vanno lontane a morire in nebbie giallognole e verdi
di visioni oppresse da la mestizia loro:

sembrano foglie travolte dal vento, avviate ad un lago;
e un riso di pezzente s'asconde dietro i tronchi.

(Da "Le Poesie", Vallecchi, Firenze 1981)

Questa poesia del noto romanziere toscano fu pubblicata postuma nel volume Novale (Mondadori, 1925) e proviene da una copia manoscritta di Emma Palagi (moglie dell'autore) che a sua volta l'aveva recuperata da un taccuino di Tozzi; in quest'ultimo è presente la data di composizione: «19 ottobre 1903». Anche qui, come in molti altri versi, si nota una descrizione paesaggistica dalle tinte fortemente malinconiche.
 



 
COROT
di Giovanni Camerana (Casale Monferrato 1845 - Torino 1905)

È Autunno. Il parco tanto verde un dì
splendido tanto,
intirizzisce nella nebbia. il canto
cessò nei rami; ogni allegria finì.

È il triste Ottobre. I fracidi sentier
son seminati
di foglie gialle e piene d'acqua; i prati
fumano, come un immenso incensier.

Sullo stagno, che attonito squallor
che strana calma!
Forse lenta nel fondo erra la salma
di qualche ondina dai capelli d'or.

Le bacian l'alghe flessuose il piè
fatto di neve;
non è una morta, è un'ombra bianca e lieve
una ideale trasparenza ell'è.

Nel buio specchio rigato qua e là
di un tenue filo
bianco, immerge la selva il suo profilo
la selva sacra per antica età.

È Autunno, è il pianto funebre, il respir
dell'agonia;
gravi echi d'arpa e strofe d'elegia
paion dal lago e dalla selva uscir....

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)

Il componimento fa parte di un manoscritto del poeta piemontese che comprende 51 poesie scritte tra il 1870 ed il 1904; Corot porta la nota: «Ricopiato | addì 14 agosto 1904». Il titolo non è altro che il cognome del grande pittore francese Jean-Baptiste-Camille Corot (1796-1875), autore di molti paesaggi cupi e suggestivi. Per quanto riguarda il tema della poesia appare evidente il clima di totale tristezza e squallore che incombe in molti versi del Camerana, che vede nell'ottobre e nell'autunno la fine della vita.
 
 
 

 
OTTOBRATA IN MALINCONIA DI SBAGLIATO DESTINO
di Annunzio Cervi (Sassari 1892 - Monte Grappa 1918)

giornerello di ottobre mediocre di sole
un giornerello sciatto sciatto con uno sfinito solicino
da dolciastro ricordo di bambino
per sembrare marzolino non gli mancano che le viole

sole come una vecchia borchia d'ottone
cencini di nuvole a fregarlo
a lucidarlo
con lentissima attenzione precauzione

pozzette a terra di nottambula pioggerella
foglie cadute e foglie non cadute
vi galleggiano immerse o riflettute
qualche primo passero rapido scende a bere si dimentica saltella

cittadina goffagine dell'albero piazzaiolo
nella sua rivestitura di protezione
in cui sembra un monelluccio insaccato in un giacchettone
passato di padre in magrolino figliolo

nei giornerelli come questi piace
in una cabina di tram chiuso
- col suo vellutello granato consumato dall'uso -
lasciarsi scorrere verso un sobborgo in zitta pace

nel tram siete quasi soletto
appena una signora - vecchina -
- certamente nonnina -
il suo soldino lo trae da un nodello del fazzoletto

il tram in fuga per vie deserte
per infangate piazzole
in cui una fontanina nella dolcezza del sole
a lasciarsi colare in tanta limpidità si diverte

a qualche fermata di coincidenza
monotonamente lunga
attraverso i vetri chiusi può darsi che vi giunga
un po' di musica strimpellata in una scordata cadenza

non vi voltate neppure a guardare
dev'essere il solito storpiato
ma suona l'Addio del passato
e la vostra malinconia da quel ritmo baggiano ve la lasciate ninnare

ad una ripresa della melopea il tram stintinnando
birichinamente pianta in asso la vecchia musica e la fuga riprende
qualche monello al vagone si appende
tra staffone e terra il suo piedino titubando

e subito il desiderio di vederlo felice quel monellino
chiamandolo sopra e pagandogli un biglietto
anzi per fare al tranviere - che corre a scacciarlo - un dispetto
magari metterselo vicino

ma vi sentite tanto beato assonnato
nella dolcezza del melenso solicello
che non vi muovereste neppure se quel monello
nella corsa fosse sbalzato e sfracellato

oltre il caseggiato tra due muri umidicci
adesso il tram a tutta corsa si affretta
in un'ombra freddina quasi violetta
come un bucato d'assassino si stendono i tralci rossicci

ad una sosta di muraglione
il sole come un pazzo controllore
eccovelo sulla piattaforma anteriore
entra dentro con dorata precipitazione

spicca un salto dalla piattaforma di dietro
sparisce senza avere esaminato
se ognuno il suo biglietto di gioia l'abbia acquistato
siamo di nuovo nell'ombra del muro tetro

infine l'arrivo al borgo inatteso
intormentiti vi alzate senza ricordare
che cosa vi siete venuti a fare
non ve ne ricordate neppure quando siete sceso

accanto al capolinea
in un fornello di ferro - sforacchiato come un ordegno dell'inferno -
una donnina cuoce le prime castagne dell'inverno
quelle già cotte in un cantuccio le allinea

ai primi passi un bimbetto seduto sul marciapiede
a sfornare uno sbadiglio dalla bocca
salta su m'offre un soldo di spilli mi prega mi tocca
ma quasi convinto di darmi più di quello che chiede

pigro dilungo i miei passi pensandomi nel gorgo
forse d'uno sbagliato destino
nato per essere come quel bambino
per vendere un soldo di spilli in un sobborgo

nato per essere il bambino che quando se ne muore
la gente dice: - Ha cessato d'essere infelice -
e lui che dalla vita si allontana col segreto d'esser stato felice
e d'avere qualche cosa - quel segreto - da portarsi nel cuore.

(Da «La Diana», maggio 1916)

Una poesia che mostra chiari elementi di sperimentalismo, come era d'uopo nel periodo in cui fu pubblicata: vi sono tracce di futurismo, espressionismo e crepuscolarismo.
 


 
 
OTTOBRE
di Mario Adobati (Bergamo 1889 - 1919)

Anima cara che sorridi appena
di quale mai dolcezza sei custode!
Anima cara, è forse cantilena
d'una canzone che ora più non s'ode?

Anima cara, svolgesi la vena
di un fonte dolce entro di te: è un'ode
che pienamente nel fluire fa piena
una coppa con ritmo di melode.

Anima, custodisci la bellezza,
o tu del cuore piccola sorella,
questa bellezza che non mai si vide.

Anima cara colma di dolcezza,
anima mia, canora come quella
di un fanciullo innocente che sorride!

(Da "I cipressi e le sorgenti", Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)
 
È la decima poesia della sezione I mesi dell'anima che fa parte del volume "I cipressi e le sorgenti". La figura di Mario Adobati molto somiglia a quella di Sergio Corazzini, sia per la prematura morte, sia per i toni decisamente malinconici che manifestano i suoi versi. Anche i riferimenti frequenti all'anima accomunano i due poeti, come si può notare in questa poesia.

Nessun commento:

Posta un commento