mercoledì 14 marzo 2012

Antologie: "Poeti minori del secondo Ottocento italiano"

"Poeti minori del secondo Ottocento italiano" è il titolo di un'antologia poetica curata da Angelo Romanò e pubblicata nel 1955 dall'editore Guanda in Bologna. Il volume di 420 pagine comprende una selezione dei versi di 55 poeti attivi tra il 1850 e i primissimi anni del XX secolo. Il poeta più anziano, con cui inizia l'antologia, è Niccolò Tommaseo, mentre quello più giovane è Giovanni Bertacchi. L'opera è una delle molte che, tra il 1947 ed il 1968, furono dedicate ai poeti italiani cosiddetti "minori" del secolo XIX. Questa di Romanò restringe l'attenzione sulla seconda metà dell'Ottocento, cercando di essere, come avverte lo stesso curatore nella postilla: «ampia nei limiti del buon gusto e del possibile». In effetti non si può dire che la selezione abbia trascurato dei nomi meritevoli, anzi, compaiono qui dei poeti che potrebbero definirsi, più che minori, "minimi". Semmai si può discutere sullo spazio attribuito a ciascun poeta: qui mi pare che risultino sminuiti o non considerati abbastanza, poeti di un certo spessore come Enrico Panzacchi e Domenico Milelli. C'è poi, come ammette anche Romanò, la scelta discutibile dell'ordine cronologico degli autori selezionati, che pone dei poeti (Domenico Gnoli e Arturo Graf su tutti) i quali ebbero meriti non trascurabili nel rinnovamento della poesia italiana a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, in una posizione sicuramente distante rispetto a quel fin de siècle in cui avrebbero avuto un posto ed un valore più adeguati. A parte questi piccoli difetti, tutto sommato non rilevanti, si può affermare che l'antologia di Romanò sia ben fatta e aiuti a comprendere in modo dettagliato il panorama poetico italiano del secondo Ottocento, così determinante per la nascita della prima fase rinnovativa della poesia novecentesca nazionale, rappresentata, in sostanza, dal crepuscolarismo. Ecco, di seguito, l'elenco degli autori presenti nel volume.
 
Niccolò Tommaseo, Giulio Uberti, Francesco Dall'Ongaro, Aleardo Aleardi, Giulio Carcano, Giovanni Prati, Biagio Miraglia, Paolo Emilio Castagnola, Costantino Nigra, Vincenzo Riccardi di Lantosca, Giambattista Maccari, Enrico Nencioni, Giuseppe Cesare Abba, Tommaso Cannizzaro, Giulio Orsini (Domenico Gnoli), Bernardino Zendrini, Emilio Praga, Giuseppe Maccari, Enrico Panzacchi, Vittorio Betteloni, Luigi Pinelli, Iginio Ugo Tarchetti, Domenico Milelli, Felice Cavallotti, Arrigo Boito, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Aurelio Costanzo, Mario Rapisardi, Luigi Morandi, Giulio Pinchetti, Giovanni Camerana, Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti), Edmondo De Amicis, Giuseppe Giacosa, Arturo Graf, Gaspare Invrea (Remigio Zena), Emilio De Marchi, Corrado Corradino, Giovanni Marradi, Ulisse Tanganelli, Vittoria Aganoor Pompilj, Guido Biagi, Severino Ferrari, Ugo Fleres, Evelina Cattermole Mancini (Contessa Lara), Giuseppe Picciola, Guido Mazzoni, Edoardo Scarfoglio, Giacinto Ricci-Signorini, Giovanni Alfredo Cesareo, Giulio Salvadori, Pompeo Bettini, Giovanni Bertacchi, Mercurino Sappa, Carmelo Errico.

domenica 11 marzo 2012

Da "Il taglio del bosco" di Carlo Cassola

Precipitare nel buio del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni pensiero, e perché un altro giorno era passato. A uno a uno i giorni passavano, e i mesi e gli anni restavano dietro le spalle. Aveva trentott'anni; non era lontano il traguardo dei quaranta, passato il quale sarebbe stato un uomo maturo, quasi una persona anziana.






Il taglio del bosco è il titolo di un racconto lungo scritto da Carlo Cassola (Roma 1917 – Montecarlo 1987). Uscì per la prima volta sulla rivista Paragone, nel dicembre del 1950. Cassola poi lo inserì, a partire dal 1954, in edizioni che comprendevano anche altri suoi racconti. Il frammento che ho trascritto – per me significativo – l’ho estratto dal libro omonimo (vi si legge tale racconto insieme a Rosa Gagliardi e Le amiche), pubblicato dalla Rizzoli di Milano nel 1980.

Prima di leggere il libro, vidi, in replica su un canale della Rai, un film per la televisione assai bello, ispirato proprio al racconto; la regia è di Vittorio Cottafavi, mentre il protagonista principale: Guglielmo, è interpretato da Gian Maria Volontè.

Ciò che maggiormente mi colpì, sia guardando il film che leggendo il libro, fu il malessere esistenziale di Guglielmo - vedovo da poco tempo e padre di due bambine - che praticamente rinuncia alla vita a causa del forte dolore non mai superato completamente. Guglielmo è un uomo solo e avvilito, che continua a vivere soltanto perché deve farlo, ovvero perché ha il dovere di crescere nel miglior modo possibile le due piccole figlie. Non vuole più ricominciare, né sperare in una nuova vita sentimentale; per questo motivo vorrebbe che il tempo passasse velocemente, e che le figlie fossero già grandi e lui vecchio; in tal modo avrebbe ancora poco tempo da vivere, e la sofferenza, insieme alla sua morte, finalmente svanirebbe.


Da "Il mistico sogno" di Gabriele D'Annunzio

I fiori d'autunno hanno una grazia e una delicatezza singolari, e insieme non so qual fascino malinconico da cui si sentono presi anche li spiriti meno sentimentali. Portano, inoltre, nel loro colore e nella qualità delle loro foglie un'apparenza di vitalità quasi direi umana, ma di vitalità sofferente; e per questo attraggono più che le ricche e voluttuose fioriture d'estate e risvegliano in chi li contempla una specie di pietà e di tenerezza: la misericordia per li esseri fragili, solitarii ed infermi.

sabato 10 marzo 2012

Ohimè che cosa è accaduto

Ohimè che cosa è accaduto?
Il mandorlo è fiorito,
Ed io nulla ho sentito
Nulla ho veduto!

S'è guernito e colorato
D'un diadema di stelle d'argento,
Tutta notte ha lavorato
E su l'alba splendeva contento:

Ed ora le sue stelle le dà al vento:
La ghirlandetta fragile e superba
La sparpaglia su l'erba
Del fresco prato!

Il miracolo è compiuto,
Ma io nulla ho veduto
Nulla ho sentito!
Che cosa è dunque accaduto?

Dov'era questo povero cuore assorto,
Dov'era questo povero cuore muto
Se il mandorlo è fiorito
Ed esso di nulla s'è accorto?
 


"Ohimè che cosa è accaduto" è il titolo di una poesia di Angiolo Silvio Novaro, compresa nella raccolta "Il piccolo Orfeo" (1929). In una notte mite di fine inverno un mandorlo situato nelle vicinanze della casa del poeta, è fiorito. Il poeta si è accorto dell'evento soltanto a giorno fatto e si rammarica di non aver potuto assistere al fatto miracoloso che simboleggia il perpetuo e strabiliante rinascere della forza vitale. È una poesia semplice, che tanti anni or sono veniva spesso inserita in antologie scolastiche; il Novaro in questi versi, come anche in altri della medesima raccolta, mostra la sua affezione per la poetica pascoliana delle "Myricae" e dei "Canti di Castelvecchio".

venerdì 9 marzo 2012

[Marzo lucendo nell'aria]

Marzo lucendo nell'aria
Con vena sottile rinnova
L'esangue terra invernale
E come occhio di bimbo
Tutto s'apre a guardare,
E dà i riccioli al vento.
Che val, primavera, con spire
Irrequiete turbare
L'inerte mia spoglia?
Fra quattro mura di libri e d'ombre,
Sopra pagine ingombre,
L'amabil giovinezza
Qui s'infosca e si spezza,
L'amabil giovinezza
Che tranne sé
Non ha chi non conosca;
Che val, primavera, con avida
Gioia invitare il mio senso
All'ebbrezza del sole e del vento?
Dall'incessante via
Una canzone appassionata esulta,
E un rider sento d'uomini e di donne
Che nel lavoro preparan le voglie:
Dalle pagine ingombre, ottenebrato
Il mio volto s'alza a chiedere
La verità della vita
Che l'àttimo contrasta
E il dolor solo accoglie.
Ma il dolore non basta
E l'amore non viene.


 
È la 55° poesia di "Frammenti lirici", raccolta poetica di Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957) pubblicata nel 1913. I versi di questa poesia rappresentano un'eccezione nell'opera citata, che presenta in prevalenza elementi espressionistici ardui, immagini che contrappongono la città e la natura e tendenti alla ricerca di una verità che appare nascosta ai più. Tramite una analisi dell'uomo del suo tempo e delle città in cui quest'uomo vive e crea il suo futuro, Rebora vorrebbe identificare una ragione esistenziale, vorrebbe estrapolare il significato recondito dell'esistenza; ma la sua indagine e le sue deduzioni sono spesso mortificate dall'assenza di ideali che predominava (e predomina ancor più oggi) nella società primonovecentesca, e ciò era più che mai palese in città come Milano, dove stava avvenendo un mutamento drastico delle abitudini e dei comportamenti umani. Tornando però alla poesia di cui sopra, si notano facilmente alcuni tratti leopardiani. È marzo e il poeta si accorge che la terra sta iniziando a cambiare: l'aria diviene più tiepida, il sole scalda di più ed il vento porta nuovi profumi invitanti. La gente è influenzata e incoraggiata all'allegria dalla mutata situazione climatica e così capita più facilmente di sentire qualcuno cantare o ridere, magari mentre sta lavorando e si sente invogliato a fare progetti per il futuro. Questo non vale per il poeta, che si rivolge alla primavera quasi fosse un essere reale, chiedendogli il motivo delle sue "avance" verso chi è estraneo alla insorgente, rinnovatrice vitalità e preferisce rimanere solo e in disparte, trascorrendo così l'intera sua giovinezza.

giovedì 8 marzo 2012

Una poesia per Miss Cavell

Edith Cavell nacque in Inghilterra nel 1865 e già a vent'anni realizzò il sogno della sua vita: diventare infermiera. Ben presto si trasferì a Bruxelles e lì ottenne la direzione di una farmacia del Berkeandel Institute. Col passare degli anni si dimostrò una donna molto professionale, particolarmente religiosa ed eccezionalmente severa con sé stessa e con gli altri. Quando nel 1914 scoppiò la 1° Guerra Mondiale, nel giro di poco tempo il Belgio fu invaso dalle truppe germaniche; Miss Cavell decise allora di entrare nella Croce Rossa internazionale mentre il Berkeandel Institute divenne un vero e proprio ospedale di guerra dove si curavano i feriti di qualsiasi nazionalità. La Cavell fu nominata capo sala dell'ospedale e non esitò quando gli fu chiesto di aiutare alcuni soldati inglesi catturati e stazionanti nell'ospedale a fuggire; così circa 200 soldati, grazie a lei, riuscirono a rifugiarsi in Olanda. Ma i tedeschi ben presto scoprirono il fatto e considerarono Miss Cavell una delle maggiori responsabili della fuga di quei soldati nemici; per questo motivo fu arrestata e subì un lungo periodo di detenzione durante il quale i tedeschi la sottoposero a numerosi e sfiancanti interrogatori, fino al momento in cui dichiararono che la crocerossina aveva confessato la sua colpa, in realtà Miss Cavell aveva soltanto affermato di essersi comportata secondo coscienza. La donna fu condannata a morte dalla Corte marziale e, malgrado i ripetuti sforzi del governo inglese per salvarla, il giorno 12 ottobre del 1915 fu fucilata. L'uccisione di Miss Cavell ebbe un'eco enorme in tutta Europa: articoli di giornali, foto, disegni, cartoline, poesie e libri interi si diffusero a macchia d'olio e la Cavell diventò famosissima soprattutto per l'ingiusta condanna a morte che aveva subito pur avendo svolto il suo lavoro in modo altamente professionale, curando tutti i soldati (amici o nemici) che erano stati ricoverati nel suo ospedale. Inoltre la sua alta statura intellettuale, il suo spirito di sacrificio e il suo estremo eroismo divennero quasi leggendari. Anche in Italia la notizia si sparse e furono molti i giornalisti così come gli intellettuali in genere che si occuparono di Miss Cavell, uno di questi fu il poeta Corrado Govoni che, sulla rivista "La Diana" pubblicò una poesia dedicata alla crocerossina, il cui testo riporto qui sotto.
 


LA FUCILAZIONE DI MISS CAVELL

Lo scrocco secco dei fucili
suonò di contro al muro unto di sole
seguito dalla scarica vadente.
S'allontanarono battendo i piedi.
Più non c'era sull'erba così verde
che un mucchietto di cenci
spruzzolato di sangue.
Ma più buona e più pura, oh quanto!
eri tu, o terra, con intorno
come un odore nuovo di viole;
ma nell'infame giorno
più bello e santo
tu eri, o sole.

(Da "La Diana", novembre/dicembre 1916)

mercoledì 7 marzo 2012

[Sole di primavera, io non sapevo]


Sole di primavera, io non sapevo
che sì bello tu fossi e grande e nuovo,
né tal dolcezza se le mani muovo
nel tuo lume dorato e di te bevo.

Veder cose, udir voci è tal sollievo
che di chiudere ancor gli occhi mi provo
per il piacer di riaprirli; e trovo
la perduta mia voce e un grido levo.

E anche gli alberi, i monti, l'erbe... Un volto
di meraviglia oggi la terra, fisso
nella celeste fiamma onde si pasce.

E anch'io... Guardo il sol giovane che nasce;
guardo fin alla cecità l'abisso
donde egli sorge, il rombo d'oro ascolto.
 

Questo sonetto è del poeta ticinese Francesco Chiesa (1871-1973), oggi ormai dimenticato, ma che fu invece molto apprezzato agli inizi del Novecento, così come altri poeti etichettati poi come tradizionalisti o (ancor peggio) passatisti: Giovanni Bertacchi, Giovanni Cena, Francesco Gaeta, Ada Negri Francesco Pastonchi ecc.
Appartiene alla raccolta "L'artefice malcontento" (1950), una sorta di antologia curata dallo Chiesa e che ripercorre gran parte del percorso poetico del poeta svizzero: da "I viali d'oro" del 1911, fino ai "Versi inediti" mai pubblicati in precedenza. "Sole di primavera, io non sapevo" fu pubblicato per la prima volta nel volume "La stellata sera" (1933) e possiede tutte le peculiarità della poesia di Francesco Chiesa, spessissimo attratto dai paesaggi naturali e dalle emozioni che nascono dalla visione di questi. Qui c'è la descrizione di una meraviglia inaspettata, provata dal poeta nell'osservare il sole primaverile e l'effetto dei suoi raggi sul paesaggio che lo circonda: emerge uno stupore nuovo, come se chi osservi lo spettacolo naturale rappresentato dal ritorno della primavera e di conseguenza la rinascita della vita dopo il gelo invernale (il cui artefice principale è proprio il sole) lo faccia con gli occhi di un bambino, rimanendo sorpreso e spiazzato da tale meravigliosa visione. È una poesia che racconta sentimenti semplici ed ha una struttura tradizionale: quella del classico sonetto; il tutto avveniva in anni in cui la poesia italiana stava vivendo un periodo di profondo rinnovamento, iniziato già da qualche decennio col futurismo e proseguito con l'ermetismo: proprio quest'ultimo movimento dettava legge nel 1933, l'anno in cui uscì la raccolta citata di Francesco Chiesa, assai distante dalla poetica di Quasimodo e di Montale.