domenica 27 luglio 2025

Riviste: "L' Approdo"

 L'Approdo è il nome di una rivista letteraria nata nel 1952 grazie all'editrice ERI (Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana) di Torino. Il nome deriva da una assai seguita rubrica radiofonica le cui trasmissioni andarono in onda dal 1944 al 1954. Dopo un interruzione di quattro anni, la rivista riprese le pubblicazioni nel 1958, col nome L'Approdo Letterario. Fin dal debutto, le sue pagine videro scritti in prosa e in versi, nonché saggi critici, di autorevoli nomi della letteratura italiana novecentesca, tra i quali Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Mario Luzi e Italo Calvino. Alla direzione si alternarono Giovanni Battista Angioletti e Carlo Betocchi; l'ultimo numero della rivista uscì nel 1977. Ecco, infine, tre testi poetici pubblicati in L'Approdo.


dal sito archive.org




PRIM'ACQUA D'AGOSTO

di Riccardo Bacchelli (1891-1985)


  Con che tenerezza indolita,

Autunno, ti annunci nel sole;

E tu mi ritorni parole

Che non mi ricorderei più:


  Nell'aria alleviata e schiarita

L'odor, che la grande aratura

Espresse, di sole e d'arsura,

E sente di terra oggidì;


  L'estate, l'annata! finita;

Le fresche rugiade dell'alba,

Il ciel che una pioggia già scialba,

E i giorni della gioventù.


(da «L'Approdo», ottobre/dicembre 1952)





LA MORTE NEL DESERTO

di Umberto Bellintani (1914-1999)


Udisti un soldato piangere nel deserto

con il capo affondato nelle dune:


«Era aspro il deserto.

Era dura la vita nel deserto.

Ma il cuore portava il sole;

e la luna nelle notti del deserto

coi ruscelli scintillanti, la memoria

di finestre spalancate sulle viole

di una verde vallata.


Era aspro il deserto.

Era dura la vita nel deserto.

Ma l'occhio portava il verde;

ma l'occhio portava il verde

e le viole fra le dune del deserto

coi mattini scintillanti e sonagliere

di cavalli galoppanti sulle strade

delle verdi pianure».


- O mio cuore,

fa che tu sia lontano dalla morte nel deserto,

dalla morte del soldato nel deserto:


dalla morte che ha divelto dall'occhio il canto allegro

dell'uccello di palma;

dalla morte che ha cacciato dalle mani la memoria

d'una guancia femminile, d'un bambino,

d'una groppa di cavallo, d'un agnello;

dalla morte che ha troncato ai piedi la carezza

del sentiero illuminato: dalla morte

che non vide alta in cielo la polare.  


(da «L'Approdo», luglio/settembre 1953)





RISVEGLIO

di Diego Valeri (1887-1976)


L'odore mattutino

degli alberi, e le strisce

verdi nel cielo bianco cenerino…

I miei sensi si allungan come bisce

a toccare le cose, a discoprire

dietro le cose le antiche memorie,

le incredibili storie

dell'ieri, del domani, del morire.


(da «L'Approdo», ottobre-dicembre 1954)


giovedì 24 luglio 2025

Le illusioni

 Ho ritrovato un buon numero di poesie che trascrissi chissà quanti anni fa, probabilmente da alcune riviste sconosciute o da vecchie antologie. Eccone una, il cui autore (Aloè Berinto) mi è totalmente ignoto; eppure in pochi versi riesce perfettamente a descrivere le illusioni umane, paragonate alle fragili bolle di sapone che nascono a seguito di un soffio leggero, volano per pochi secondi nel vento e quindi si spengono, lasciando - unica ed effimera traccia della loro esistenza - lievissima macchia nel terreno; il poeta vede queste macchie di sapone liquido come lacrime umane: cadute dagli occhi di chi è ormai totalmente disilluso e rimpiange, commovendosi, i suoi meravigliosi sogni irrealizzati.



Come le bolle di sapone

sono irradiate e fragili

le umane illusioni:

giocano col vento,

si spengono

e lacrime diventano.


(da questa pagina web)


domenica 20 luglio 2025

Le rose nella poesia italiana decadente e simbolista

 Le rose sono i fiori più citati e decantati dai poeti simbolisti e decadenti di nazionalità italiana; in particolare i loro versi si concentrano sulle rose dal colore rosso (con diverse sfumature che vanno dal vermiglio allo scarlatto, dal sanguigno al fiammante, dal porporino al granato). Quando le rose si trovano sul corpo femminile o vengono sfogliate da una donna, divengono simbolo d’amore, di passione e d’erotismo, Volendo ora riassumere brevemente i contenuti di alcune tra le liriche presenti nell’elenco seguente questo proemio, possiamo dire che nella poesia di Civinini le rose fungono da crisantemi, trovandosi in gran quantità nel giardino prospiciente l’eremo dove sono sepolte le ospiti che vissero nell’edificio religioso; grazie alle rose le suore possono tornare in vita, perché ognuna di esse è incarnata in un fiore. Anche in Rose di camposanto di Diego Garoglio, i fiori spuntati dal muro del cimitero simboleggiano una sorta di resurrezione. Così, in Il guanciale di rose di Cosimo Giorgieri Contri, i fiori hanno a che fare con la morte, ma della gioventù del poeta; esse, infatti, prendono il posto delle foglie che, in settembre, cominciano a cadere dagli alberi. In un’altra poesia del Giorgieri Contri: I cinquantamila rosai dell'Achilleion, si torna a parlare di conventi e di suore; quest’ultime colgono i fiori, li depongono sull’altare e pregano per  un’imperatrice morta e per il poeta da lei prediletto. In Per un mazzo di rose conventuali di Corrado Govoni, il poeta prova ad immaginare che tipo di suora – giovanissima, matura, anziana – abbia colto i fiori che sta osservando all’interno dell’edificio. Nelle poesie di Arturo Graf, le rose divengono esseri pensanti, simili agli umani, e possono vedersi specchiate o sentirsi morire lentamente. Nel sonetto di Pietro Mastri, la rosa “nera”, pur molto ricercata e adorata dall’umanità, simboleggia l’impurità, il lutto ed il ribrezzo. Nelle due poesie di Angiolo Orvieto, le rose, pur in stagioni opposte (autunno e primavera) trasmettono al poeta, tramite il loro profumo e la loro vista, sentimenti di freschezza e d’amore. Nelle quartine di Ernesto Ragazzoni, il fiato delle “rose sfogliate” giunge al poeta, inducendolo a pensare ad un passato quasi dimenticato. Giuseppe Rino vede le rose ardenti e splendenti nei giardini delle ville, paragonandole alle “fiamme di un bel sogno impuro”. Nel sonetto di Guido Ruberti una donna “in manto celestiale” si punge cogliendo una rosa porporina; il fiore altro non è che la vita del poeta stesso. Agostino J. Sinadinò parla di un mondo fantastico, dove le nostre anime s’immergono e scoprono un’orchestra di rose rosse e rosa, in grado di far percepire una delizia immensa e misteriosa. Nella poesia di Giovanni Tecchio i fiori hanno funzione lenitiva: il poeta le invoca, affinché in gran quantità coprano la bara di una donna; grazie alle rose ella potrà dormire obliando per sempre ogni pena vissuta. Nei versi di Domenico Tumiati, una donna straniera dalle fulve chiome, dove aver composto un mazzo di rose, sale le scale di un tempio, per giungere all’altare e donare quei fiori alla Madonna, pregando per la sorte di un uomo che si chiama come il “triste amico di Gesù”. Le tre rose rosse che adornano la cintura di una donna, hanno evidentemente un valore fortemente simbolico nella poesia di Diego Valeri: mentre il poeta bacia, accarezza ed ama il corpo femminile, sentendosi sempre più sprofondare in un abisso d’ombra “morbida, calda e profumata”, i tre fiori citati all’inizio ed alla fine della lirica, simboleggiano la bellezza, l’amore e la lussuria.

 

 

Poesie sull’argomento

 

Mario Adobati: "Le rose sanguigne" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).

Enrico Cavacchioli: "L'orto delle rose" in "L'Incubo Velato" (1906).

Francesco Cazzamini Mussi: "Le rose" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).

Guelfo Civinini: "Ballata delle rose «in memoriam»" in "L'Urna" (1900).

Girolamo Comi: "Il giorno delle rose" in "Lampadario" (1912).

Girolamo Comi: "rose-granate nel masso" in "Smeraldi" (1925).

Diego Garoglio: "Rose morenti" e "Rose di camposanto" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).

Cosimo Giorgieri Contri: "Il guanciale di rose" in "Il convegno dei cipressi" (1894).

Cosimo Giorgieri Contri: "I cinquantamila rosai dell'Achilleion" in "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903).

Corrado Govoni: "Rosa mystica" e "Rose profane" in "Le Fiale" (1903).

Corrado Govoni: "Per un mazzo di rose conventuali" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).

Corrado Govoni "Le rose rosse", "Le rose bianche", "Le rose thee", "La rosa doppia" in "Gli aborti" (1907).

Arturo Graf: "Rosa specchiata" in "Morgana" (1901).

Arturo Graf: "La rosa morente" in "Le Danaidi" (1905).

Pietro Mastri: "La rosa nera" in "L'arcobaleno" (1900).

Arturo Onofri: "Rose" in "Poesie edite e inedite (1900-1914)" (1982).

Angiolo Orvieto: "Rosa d'autunno" e "Pur dalle rose" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).

Ernesto Ragazzoni: "Rose sfogliate" in "Poesie" (1927).

Giuseppe Rino: "Le Rose" in "L'Estuario delle Ombre" (1907).

Guido Ruberti: "Il rosaio" in "Le fiaccole" (1905).

Emanuele Sella: "Le rose rosse" in "Liriche alla bellezza bruna" (1934).

Agostino John Sinadinò: "Piccola orchestra" in "Melodie" (1900).

Giovanni Tecchio: "Elegia" in "Canti" (1931).

Domenico Tumiati: "L'offerta delle rose" in "Musica antica per chitarra" (1897).

Diego Valeri: "Rose rosse" in "Le gaie tristezze" (1913).

Alberto Viviani: "Rose d'argento" in "Rose d'argento" (1916).

Remigio Zena: "Le rose" e "Tra le rose" in "Olympia" (1905).



Testi

 

LA ROSA NERA

di Pietro Mastri (Pirro Masetti, 1868-1932)

 

Oh, ch'io non sappia ove il tuo cespo alligna!

Oh, ch'io non veda mai le tue corolle

mostruose, in cui viscida ribolle

certo una qualche essenza atra e maligna!

 

E l'uomo ti cercò, per un'acrigna

sua voluttà? L'uomo così ti volle,

così disnaturata?... Ah, l'uomo è folle,

se alle sue brame ogni suo ben traligna!

 

Fiore, su che posarsi ape non osa,

tu sei la notte, ed eri già l'aurora;

tu sei lutto e ribrezzo, eri sorriso.

 

Tu sei l'impura dal funereo viso,

dall'anima letale, o fosca rosa,

cui l'uomo disperatamente adora.

 

(da "L'arcobaleno", Zanichelli, Bologna 1900)

 

 

 

 

PICCOLA ORCHESTRA

di Agostino John Sinadinò (1876-1956)

 

Sommersi ne l'acqua de l'aria,

limpidamente mareggiano le nostre

      ànime e i sensi vividi per le

viride praterie - vi profondano - ne le chiome

boschive, nel zaffiro aerato

de le dolci montagne violente, a la deriva di rose

      - (ma dove, non viste, in quali orti?),

      oh, tutta un'orchestra di rose:

rosee rose e rosse

rose, di rancie di roride rose...

sì che la delizia s'accresce

ne 'l calice dei cuori floreali,

      ah! che non più, che non più

      nel cristallo, in un anello

di più limpido cristallo, in novi più puri mattini

      s'accrescerà.

 

  Lugano, sabato, VII-VII-MCM.

 

(da "Melodie", Stamperia del Tessin-Touriste, Lugano 1900)



Martin Johnson Heade, "Jacqueminot Roses"
(da questa pagina web)



 

 

 

 

domenica 13 luglio 2025

Antologie: "Almanacco della Voce 1915"

 A sette anni dalla sua nascita, una delle riviste più importanti della letteratura italiana del Novecento, ovvero La Voce, offrì ai suoi lettori e non solo, la possibilità di apprezzare in modo inedito, le qualità letterarie di gran parte degli intellettuali che collaborarono più o meno intensamente alla rivista fiorentina coi loro articoli; da qui nasce l’Almanacco della Voce 1915, pubblicato dalla casa editrice Vallecchi di Firenze. Per meglio spiegare i motivi e gl’intenti di questa opera antologica, riporto per intero l’Avvertimento a firma dei compilatori, che si trova proprio all’inizio del volume (p. 3).



  Questo Almanacco è un po’ diverso da quelli che si pubblicano di solito in Italia. Ha carattere commerciale perché si propone anche di far conoscere – e per conseguenza di far comprare – i libri pubblicati dalla nostra Libreria, ma è riuscito, nello stesso tempo, una specie di rassegna in azione del lavoro compiuto in sette anni dalla Voce e dalla casa editrice formatasi accanto alla rivista e, quel che più conta, una specie di antologia de' più giovani, de’ più vivi, de’ più nuovi tra gli scrittori italiani presenti. Questo Almanacco, ideato dapprima come un semplice catalogo illustrato e illustrativo, s’è ingrandito per la strada ed è diventato, per le molte cose inedite che contiene, un bel numero di una grossa rivista, con qualche decina di illustrazioni, pagine di musica, liriche in versi e in prosa, scritti di storia, di politica e di filosofia, bibliografie e tutto quello che può desiderare un lettore curioso e di buon gusto.

  Abbiamo messo I ritratti di quasi tutti coloro che più lavorano o lavorarono nella Voce o hanno volumi propri fra le nostre edizioni. Potrà sembrare vanità prematura ma i lettori d’oggi ci tengono anche a veder le faccie di chi fa qualcosa, anche dopo, e non è detto che i clichés debbon servire soltanto per quei fortunati che furon guariti dalle Pillole Pink.

  Si spera che quest’Almanacco capitando per forza – tanto è mite il prezzo in confronto alla gran roba nuova che c’è – in mano di molta gente possa invogliare qualcuno a conoscer meglio gli scrittori che abbiamo raggruppati e, in parte, rivelati in questi anni. Esso è, a ogni modo, un sintetico testimonio dello sforzo che rappresenta l’opera nostra per dare all’Italia una rivista libera, una cultura sana e un’arte veramente moderna.


L’antologia comprende i nomi di 29 intellettuali, provenienti, oltre che dall’area letteraria, dal mondo della musica, della politica, e della filosofia. Segue un capitolo intitolato Dalle nostre edizioni, che contiene frammenti di quattro scrittori, tratti da opere pubblicate dalla Libreria della Voce. Alla fine di questo capitolo, c’è anche un indice con tutti i titoli dei volumi pubblicati dall’editore della rivista. Da ricordare infine che nel libro sono presenti diverse illustrazioni di artisti internazionali prestigiosi, tra I quali P. Cézanne, P. Gaugin e P. Picasso.

Chiudo riportando I nomi dei 33 autori inclusi in questa antologia, contrassegnando con un asterisco coloro che figurano con poesie o prose poetiche. 





ALMANACCO DELLA VOCE 1915


Fernando Agnoletti*, Luigi Ambrosini, Giovanni Amendola, Giannotto Bastianelli, Giovanni Boine*, Emilio Cecchi, Benedetto Croce, Giuseppe De Robertis, Giovanni Gentile, Corrado Govoni*, Piero Jahier*, Giuseppe Lombardo-Radice, Nicola Moscardelli*, Romolo Murri, Angelo Cecconi (Th. Neal), Aldo Palazzeschi*, Giovanni Papini*, Ildebrando Pizzetti, Giuseppe Prezzolini*, Clemente Rebora*, Romain Rolland, Medardo Rosso, Enrico Ruta, Umberto Saba*, Gaetano Salvemini, Guido Santini, Camillo Sbarbaro*, Renato Serra, Ardengo Soffici*, A Verdani, Paul Claudel, Alfredo Oriani, Enrico Pea*, Scipio Slataper. 


domenica 6 luglio 2025

Poeti dimenticati: Salvatore Giuliano

 Nacque a Catania nel 1888, ed ivi morì, a soli ventuno anni, nel 1909. Un anno prima della scomparsa fondò e diresse, insieme a Giuseppe Vilaroel, la rivista Matelda, a cui collaborò pubblicandovi saggi critici e diverse poesie. Durante la sua brevissima esistenza fece in tempo a pubblicare poche raccolte di versi, in cui si percepisce la sensazione di una morte imminente; di conseguenza le poesie del Giuliano, così semplici, sincere e pregne di malinconia, ricordano da vicino quelle dei crepuscolari, e in particolare - anche per la medesima sorte che disgraziatamente li unisce - la poesia di Sergio Corazzini.

 

 

 

Opere poetiche

 

"Musica", Tip. Siciliana, Messina 1904.

"Alloro giovine", F.lli Battiato, Catania 1905.

"Interludium", Tip. Edit. L. S. Lentini, Castelvetrano 1906.

"Le ore mattutine", La Vita Letteraria, Roma 1907.

 

 


 

Testi

 

 

Da "FIORI"

 

I.

Ésile giglio, che, ne’ giorni belli

di porpora e di azzurro insieme ornati,

ogni dolore, ogni amarezza svelli

da 'l core de li umani sfigurati;

 

giglio che vivi solitario, e pelli

somigli alabastrine di adorati

seni e mai cinti preziosi anelli

da 'l magico fulgor come iridati;

 

giglio, di purità simbolo, emblema

d’animo buono e di pietoso core

che calcolo o interesse mai non prema;

 

io t'amo, io t'amo, de lo stesso amore

di Lei, la Suavissima che trema

d’ogni peccato, e n’ ha profondo orrore…

 

(da "Alloro giovine", Battiato, Catania MXMV, p. 55)

 

 

 

 

IL SOGNO DE LA VITA

 

Chi mi disse la parola sublime?

Io l'udii ne la notte

in un sogno tinto di rosa,

da una bocca invisibile.

Oh, come fu dolce al mio core!

Parve il blandulo murmure

di uno sciame di pecchie

intente a suggere il miele

da le corolle odorose.

Parve il bacio che il mare,

fervido amante ceruleo

dà a la rena sitibonda

ne i meriggi d'estate.

E fluttuò ne la mia mente

come ne l'acqua le chiome

de le belle oceanine,

allor che spioventi cadono

sovra gli omeri d'alabastro

e su i carnosi fiori del seno

da un umore vitale inturgiditi.

Beato sorrisi a lo spirito buono

e vissi i primi istanti

de la vita perfetta.

Ma i primi raggi del sole

irruppero ne la mia camera

e mi destarono.

Avevan sembianza di scheletri

lumati da ghigni satanici.

 

(da "Le ore mattutine", La Vita Letteraria, Roma MCMVII, pp. 39-40)

 

 

 

 

RISO DI STELLE

 

Tu pur soave, o ridere di stelle,

in questa notte tremula d’agosto!

Un dì spregiai la vita e fui ribelle;

al sogno or con devota ansia m'accosto.

 

Pace solenne. O firmamento, nelle

tue luci è come un simbolo riposto:

L'anime umane sono tue sorelle,

cui splenda in cielo un luminoso posto...

 

E vanno, senza tregua al lor cammino:

salgono con fallaci ali da terra,

come le mena il torbido destino:

 

A volte, con la vita in aspra guerra,

a volte, liete d'un sogno azzurrino;

fin che la morte al varco non le afferra.

 

  14 agosto 1908

 

(da «Matelda», 1908)

 

domenica 29 giugno 2025

La poesia di Guido Gozzano

 Guido Gustavo Gozzano (Torino 1883 - ivi 1916) non era, ai tempi in cui mi accadeva di leggere delle poesie o delle prose sui banchi di scuola, uno dei miei scrittori prediletti; non lo è stato neppure quando, giovane, mi appassionai alla poesia. Eccetto pochi versi, Gozzano non suscitava in me quell'entusiasmo che invece sapevano donarmi le poesie di Sergio Corazzini, Marino Moretti, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi. Col tempo qualcosa cambiò: leggendo e rileggendo un po' tutta la sua opera in versi, mi accorsi della sua straordinaria grandezza e riconobbi diverse sue qualità: una maestria non rintracciabile in altri poeti venuti prima e dopo di lui; una saggezza ed una intelligenza incontestabili; un'ironia amara, certamente, ma altrettanto certamente fuori del comune; la sorprendente capacità di descrivere psicologicamente, caratterialmente e fisicamente alcuni personaggi femminili da lui stesso frequentati; la consapevolezza di dover morire presto, a causa di una grave malattia, dichiarata senza fare alcun tipo di dramma, con estrema e disarmante naturalezza. Questi ed altri elementi fanno di Gozzano un eccelso poeta. D'altronde non è un caso che anche i critici più autorevoli considerino il poeta torinese come uno dei migliori del XX secolo, in Italia e forse anche fuori. A tal proposito ecco cosa afferma Edoardo Sanguineti, presentandolo in una pagina dell'antologia "Poesia italiana del Novecento", da lui stesso curata:


[...] In effetti, nella coatta riduzione all'indifeso patetismo romantico, ingenuo e provinciale, della «quasi brutta» "Signorina Felicita" (assai sintomaticamente nata come "Signorina Domestica"), quando anche non si scenda al canonico "Elogio degli amori ancillari" (per «fantesche» capaci di offrire un «più sana voluttà» che le padrone), Gozzano scopre una virtù insospettata: l'ideologia prosaica ma innocente, del «borghese onesto», criticamente realistico e affettuosamente ironico nei confronti della società contemporanea, disposto anche a rischiare esiti dimessamente o miseramente parodici, se non proprio «nefandità da melodramma», pur di sfuggire alla evidente inautenticità del «sublime» coltivato dal liberty dannunziano: un «borghese onesto» disposto, in ogni caso, a convertirsi in «Avvocato» (sul pretesto dei non conclusi studi di legge) e in un «buono | sentimentale giovine romantico», mascherandosi per smascherare. Ne risulta, da ultimo, quella nuova coscienza della letteratura e della vita, su cui verranno a convergere spontaneamente - e dunque in maniera tanto più significativa - i più di versi poeti di sensibilità crepuscolare: «Io mi vergogno, | sì, mi vergogno d'essere un poeta!». [...]¹


In quest'altro frammento, di Francesco Muzzioli, si parla di alcune peculiarità della raccolta più significativa di Gozzano: "I colloqui":


[...] Gozzano lo indica a chiare note: anche l'arte-poesia giace ormai inerte rifiuto, in mezzo al "ciarpame" eterogeneo e bizzarro, nel solaio di Villa Amarena consegnato all'obsolescenza; e questa "soffittizzazione" derisoria delle indigenti glorie letterarie è accompagnata da un analogo debordare dei «legumi produttivi» a scapito della vegetazione decorativa del parco, e dalla vanificazione delle coperture mitologiche di tipo ellenico sotto i colpi di impoetiche "ipoteche". Di fronte al prevalere della legge dell'utile, Gozzano si butta davvero in braccio all'altro-da-sé e afferma, in palinodia, la bontà della vita mercantile: è la scelta della vita «piccola e borghese», del "bisogno" sul "sogno", con conseguente "vergogna" della poesia, e ciò sembra garantire, finalmente, l' "oblio" delle ambivalenze semantiche e dei disagi intellettuali, ripristinando una designazione univoca, addirittura monetizzata, delle cose. Certo, la praticità del "mercante" è posta come contraltare dialettico e critico (e fortemente polemico) a petto dell'esteticità astratta, più che come sostanziale soluzione; e infatti l'interrogazione sociale nell'«ambiente sconsolato e brullo» delle «sagge cure e temperate spese» è quanto mai lontana per il poeta "trasognato" e distratto dall'attenzione al particolare infimo. Ma intanto, la considerazione del negativo vale, per Gozzano «borghese onesto», a una più terrestre e meno elevata portata poetica: toltosi il coercitivo «isparato» da cerimonia, egli può ora raffigurarsi in una rude «giubba», e magari «barbuto, incolto», se non proprio «un poco mentecatto», nella ironica autocritica della stessa «Musa maldestra». [...]²


Ecco infine due poesie di Gozzano. Le lessi quando, dopo anni, sfogliai alcuni vecchi libri di scuola; la prima è famosissima, e tra le più belle del poeta piemontese; la seconda è meno conosciuta ma altrettanto bella, e fu pubblicata dopo la morte del poeta.




L'ASSENZA


Un bacio. Ed è lungi. Dispare 

giù in fondo, là dove si perde 

la strada boschiva che pare 

un gran corridoio nel verde. 


Risalgo qui dove dianzi 

vestiva il bell'abito grigio: 

rivedo l'uncino, i romanzi 

ed ogni sottile vestigio... 


Mi piego al balcone. Abbandono 

la gota sopra la ringhiera.    

E non sono triste. Non sono 

più triste. Ritorna stasera. 


E intorno declina l'estate. 

E sopra un geranio vermiglio, 

fremendo le ali caudate 

si libra un enorme Papilio... 


L'azzurro infinito del giorno 

è come una seta ben tesa; 

ma sulla serena distesa 

la luna già pensa al ritorno.    


Lo stagno risplende. Si tace 

la rana. Ma guizza un bagliore 

d'acceso smeraldo, di brace 

azzurra: il martin pescatore... 


E non sono triste. Ma sono 

stupito se guardo il giardino... 

stupito di che? non mi sono 

sentito mai tanto bambino... 


Stupito di che? Delle cose. 

I fiori mi paiono strani:    

ci sono pur sempre le rose, 

ci sono pur sempre i gerani... 


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 150-153)





IL COMMESSO FARMACISTA


Ho per amico un bell'originale 

commesso farmacista. Mi conforta 

col ragionarmi della sposa, morta 

priva di nozze del mio stesso male. 


«Lei guarirà: coi debiti riguardi, 

lei guarirà. Lei può curarsi in ozio; 

ma pensi una modista, in un negozio... 

Tossiva un poco... me lo scrisse tardi. 


Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio. 

Pagai le spese del viaggio. E costa! 

Vede quel muro bianco a mezza costa? 

È il cimitero piccolo e selvaggio. 


Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno. 

La dovevo sposare nell'aprile; 

nell'aprile morì di mal sottile. 

Vede che piango... non me ne vergogno.» 


Piangeva. O morta giovane modista, 

dal cimitero pendulo fra i paschi 

non vedi il pianto sopra i baffi maschi 

del fedele commesso farmacista? 


«Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno 

a sera, di svagarmi; lo potrei... 

Preferisco restarmene con lei 

e faccio versi... non me ne vergogno.» 


Sposa che senza nozze hai già varcato 

la fiumana dell'ultima rinunzia, 

vedi lo sposo che per te rinunzia 

alle dolci serate del curato? 


Vedi che, solo, e affaticati gli occhi 

fra scatole, barattoli, cartine, 

preferisce le tue veglie meschine 

alle gioie del vino e dei tarocchi? 


«Non glie li dico: ché una volta detti 

quei versi perderebbero ogni pregio; 

poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio 

per la morta a cui furono diretti.


Mi pare che soltanto al cimitero, 

protetti dalle risa e dallo scherno 

i versi del mio povero quaderno 

mi parlino di lei, del suo mistero.» 


Imaginate con che rime rozze, 

con che nefandità da melodramma 

il poveretto cingerà di fiamma 

la sposa che morì priva di nozze! 


Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista... 

il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida... 

Ma non si rida, amici, non si rida 

del povero commesso farmacista. 


Non si rida alla pena solitaria 

di quel poeta; non si rida, poi 

ch'egli vale ben più di me, di voi 

corrosi dalla tabe letteraria. 


Egli certo non pensa all'euritmia 

quando si toglie il camice di tela, 

chiude la porta, accende la candela 

e piange con la sua malinconia. 


Egli è poeta più di tutti noi 

che, in attesa del pianto che s'avanza, 

apprestiamo con debita eleganza 

le fialette dei lacrimatoi. 


Vale ben più di noi che, fatti scaltri, 

saputi all'arte come cortigiane, 

in modi vari, con lusinghe piane 

tentiamo il sogno per piacere agli altri. 


Per lui soltanto il verso messaggiero 

va dal finito all'infinito eterno. 

«Vede, se chiudo il povero quaderno 

parlo con lei che dorme in cimitero.» 


A lui soltanto, o gran consolatrice 

poesia, tu consoli i giorni grigi, 

tu che fra tutti i sogni prediligi 

il sogno che si sogna e non si dice.


«Non glie li dico: ché una volta detti 

quei versi perderebbero ogni pregio: 

poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio 

per la morta a cui furono diretti.» 


Saggio, tu pensi che impallidirebbe  

al mondo vano il fiore di parole 

come il cielo notturno che lo crebbe 

impallidisce al sorgere del sole. 


Di me molto più saggio, che licenzio 

i miei sogni, o fratello, tu mantieni 

intatti fra le pillole e i veleni 

i sogni custoditi dal silenzio! 


Buon custode è il silenzio. E le tue grida 

solo la morta giovane modista 

ode: non altri della folla, trista 

per chi fraternamente si confida. 


Non si rida, compagni, non si rida 

del poeta commesso farmacista.


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 366-369)


Guido Gustavo Gozzano



NOTE

1) da "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, volume primo, Einaudi, Torino 1992, p. 428)

2) da "La letteratura italiana del primo Novecento (1900-1915)", La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989, pp. 106-107)