domenica 29 giugno 2025

La poesia di Guido Gozzano

 Guido Gustavo Gozzano (Torino 1883 - ivi 1916) non era, ai tempi in cui mi accadeva di leggere delle poesie o delle prose sui banchi di scuola, uno dei miei scrittori prediletti; non lo è stato neppure quando, giovane, mi appassionai alla poesia. Eccetto pochi versi, Gozzano non suscitava in me quell'entusiasmo che invece sapevano donarmi le poesie di Sergio Corazzini, Marino Moretti, Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi. Col tempo qualcosa cambiò: leggendo e rileggendo un po' tutta la sua opera in versi, mi accorsi della sua straordinaria grandezza e riconobbi diverse sue qualità: una maestria non rintracciabile in altri poeti venuti prima e dopo di lui; una saggezza ed una intelligenza incontestabili; un'ironia amara, certamente, ma altrettanto certamente fuori del comune; la sorprendente capacità di descrivere psicologicamente, caratterialmente e fisicamente alcuni personaggi femminili da lui stesso frequentati; la consapevolezza di dover morire presto, a causa di una grave malattia, dichiarata senza fare alcun tipo di dramma, con estrema e disarmante naturalezza. Questi ed altri elementi fanno di Gozzano un eccelso poeta. D'altronde non è un caso che anche i critici più autorevoli considerino il poeta torinese come uno dei migliori del XX secolo, in Italia e forse anche fuori. A tal proposito ecco cosa afferma Edoardo Sanguineti, presentandolo in una pagina dell'antologia "Poesia italiana del Novecento", da lui stesso curata:


[...] In effetti, nella coatta riduzione all'indifeso patetismo romantico, ingenuo e provinciale, della «quasi brutta» "Signorina Felicita" (assai sintomaticamente nata come "Signorina Domestica"), quando anche non si scenda al canonico "Elogio degli amori ancillari" (per «fantesche» capaci di offrire un «più sana voluttà» che le padrone), Gozzano scopre una virtù insospettata: l'ideologia prosaica ma innocente, del «borghese onesto», criticamente realistico e affettuosamente ironico nei confronti della società contemporanea, disposto anche a rischiare esiti dimessamente o miseramente parodici, se non proprio «nefandità da melodramma», pur di sfuggire alla evidente inautenticità del «sublime» coltivato dal liberty dannunziano: un «borghese onesto» disposto, in ogni caso, a convertirsi in «Avvocato» (sul pretesto dei non conclusi studi di legge) e in un «buono | sentimentale giovine romantico», mascherandosi per smascherare. Ne risulta, da ultimo, quella nuova coscienza della letteratura e della vita, su cui verranno a convergere spontaneamente - e dunque in maniera tanto più significativa - i più di versi poeti di sensibilità crepuscolare: «Io mi vergogno, | sì, mi vergogno d'essere un poeta!». [...]¹


In quest'altro frammento, di Francesco Muzzioli, si parla di alcune peculiarità della raccolta più significativa di Gozzano: "I colloqui":


[...] Gozzano lo indica a chiare note: anche l'arte-poesia giace ormai inerte rifiuto, in mezzo al "ciarpame" eterogeneo e bizzarro, nel solaio di Villa Amarena consegnato all'obsolescenza; e questa "soffittizzazione" derisoria delle indigenti glorie letterarie è accompagnata da un analogo debordare dei «legumi produttivi» a scapito della vegetazione decorativa del parco, e dalla vanificazione delle coperture mitologiche di tipo ellenico sotto i colpi di impoetiche "ipoteche". Di fronte al prevalere della legge dell'utile, Gozzano si butta davvero in braccio all'altro-da-sé e afferma, in palinodia, la bontà della vita mercantile: è la scelta della vita «piccola e borghese», del "bisogno" sul "sogno", con conseguente "vergogna" della poesia, e ciò sembra garantire, finalmente, l' "oblio" delle ambivalenze semantiche e dei disagi intellettuali, ripristinando una designazione univoca, addirittura monetizzata, delle cose. Certo, la praticità del "mercante" è posta come contraltare dialettico e critico (e fortemente polemico) a petto dell'esteticità astratta, più che come sostanziale soluzione; e infatti l'interrogazione sociale nell'«ambiente sconsolato e brullo» delle «sagge cure e temperate spese» è quanto mai lontana per il poeta "trasognato" e distratto dall'attenzione al particolare infimo. Ma intanto, la considerazione del negativo vale, per Gozzano «borghese onesto», a una più terrestre e meno elevata portata poetica: toltosi il coercitivo «isparato» da cerimonia, egli può ora raffigurarsi in una rude «giubba», e magari «barbuto, incolto», se non proprio «un poco mentecatto», nella ironica autocritica della stessa «Musa maldestra». [...]²


Ecco infine due poesie di Gozzano. Le lessi quando, dopo anni, sfogliai alcuni vecchi libri di scuola; la prima è famosissima, e tra le più belle del poeta piemontese; la seconda è meno conosciuta ma altrettanto bella, e fu pubblicata dopo la morte del poeta.




L'ASSENZA


Un bacio. Ed è lungi. Dispare 

giù in fondo, là dove si perde 

la strada boschiva che pare 

un gran corridoio nel verde. 


Risalgo qui dove dianzi 

vestiva il bell'abito grigio: 

rivedo l'uncino, i romanzi 

ed ogni sottile vestigio... 


Mi piego al balcone. Abbandono 

la gota sopra la ringhiera.    

E non sono triste. Non sono 

più triste. Ritorna stasera. 


E intorno declina l'estate. 

E sopra un geranio vermiglio, 

fremendo le ali caudate 

si libra un enorme Papilio... 


L'azzurro infinito del giorno 

è come una seta ben tesa; 

ma sulla serena distesa 

la luna già pensa al ritorno.    


Lo stagno risplende. Si tace 

la rana. Ma guizza un bagliore 

d'acceso smeraldo, di brace 

azzurra: il martin pescatore... 


E non sono triste. Ma sono 

stupito se guardo il giardino... 

stupito di che? non mi sono 

sentito mai tanto bambino... 


Stupito di che? Delle cose. 

I fiori mi paiono strani:    

ci sono pur sempre le rose, 

ci sono pur sempre i gerani... 


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 150-153)





IL COMMESSO FARMACISTA


Ho per amico un bell'originale 

commesso farmacista. Mi conforta 

col ragionarmi della sposa, morta 

priva di nozze del mio stesso male. 


«Lei guarirà: coi debiti riguardi, 

lei guarirà. Lei può curarsi in ozio; 

ma pensi una modista, in un negozio... 

Tossiva un poco... me lo scrisse tardi. 


Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio. 

Pagai le spese del viaggio. E costa! 

Vede quel muro bianco a mezza costa? 

È il cimitero piccolo e selvaggio. 


Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno. 

La dovevo sposare nell'aprile; 

nell'aprile morì di mal sottile. 

Vede che piango... non me ne vergogno.» 


Piangeva. O morta giovane modista, 

dal cimitero pendulo fra i paschi 

non vedi il pianto sopra i baffi maschi 

del fedele commesso farmacista? 


«Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno 

a sera, di svagarmi; lo potrei... 

Preferisco restarmene con lei 

e faccio versi... non me ne vergogno.» 


Sposa che senza nozze hai già varcato 

la fiumana dell'ultima rinunzia, 

vedi lo sposo che per te rinunzia 

alle dolci serate del curato? 


Vedi che, solo, e affaticati gli occhi 

fra scatole, barattoli, cartine, 

preferisce le tue veglie meschine 

alle gioie del vino e dei tarocchi? 


«Non glie li dico: ché una volta detti 

quei versi perderebbero ogni pregio; 

poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio 

per la morta a cui furono diretti.


Mi pare che soltanto al cimitero, 

protetti dalle risa e dallo scherno 

i versi del mio povero quaderno 

mi parlino di lei, del suo mistero.» 


Imaginate con che rime rozze, 

con che nefandità da melodramma 

il poveretto cingerà di fiamma 

la sposa che morì priva di nozze! 


Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista... 

il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida... 

Ma non si rida, amici, non si rida 

del povero commesso farmacista. 


Non si rida alla pena solitaria 

di quel poeta; non si rida, poi 

ch'egli vale ben più di me, di voi 

corrosi dalla tabe letteraria. 


Egli certo non pensa all'euritmia 

quando si toglie il camice di tela, 

chiude la porta, accende la candela 

e piange con la sua malinconia. 


Egli è poeta più di tutti noi 

che, in attesa del pianto che s'avanza, 

apprestiamo con debita eleganza 

le fialette dei lacrimatoi. 


Vale ben più di noi che, fatti scaltri, 

saputi all'arte come cortigiane, 

in modi vari, con lusinghe piane 

tentiamo il sogno per piacere agli altri. 


Per lui soltanto il verso messaggiero 

va dal finito all'infinito eterno. 

«Vede, se chiudo il povero quaderno 

parlo con lei che dorme in cimitero.» 


A lui soltanto, o gran consolatrice 

poesia, tu consoli i giorni grigi, 

tu che fra tutti i sogni prediligi 

il sogno che si sogna e non si dice.


«Non glie li dico: ché una volta detti 

quei versi perderebbero ogni pregio: 

poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio 

per la morta a cui furono diretti.» 


Saggio, tu pensi che impallidirebbe  

al mondo vano il fiore di parole 

come il cielo notturno che lo crebbe 

impallidisce al sorgere del sole. 


Di me molto più saggio, che licenzio 

i miei sogni, o fratello, tu mantieni 

intatti fra le pillole e i veleni 

i sogni custoditi dal silenzio! 


Buon custode è il silenzio. E le tue grida 

solo la morta giovane modista 

ode: non altri della folla, trista 

per chi fraternamente si confida. 


Non si rida, compagni, non si rida 

del poeta commesso farmacista.


(da "Poesie", Rizzoli, Milano 1993, pp. 366-369)


Guido Gustavo Gozzano



NOTE

1) da "Poesia italiana del Novecento", a cura di Edoardo Sanguineti, volume primo, Einaudi, Torino 1992, p. 428)

2) da "La letteratura italiana del primo Novecento (1900-1915)", La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989, pp. 106-107) 

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