domenica 5 ottobre 2014

L'Europa in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

LE PANNOCCHIE
di Siro Angeli (1913-1991)

Andando in compagnia di settembre
nel vento dei sobborghi, ad Atene,
mi sorprese a una svolta, scordato
dagli anni, un odore (non sempre
dispiacciono gli agguati). Rividi
i campi di granoturco con vene
di verde nel verde, e al palato
mi rifluiva il succo lattescente,
mentre il contadino al crocevia
tra Grecia e Carnia gettava gridi
freschi per rivendere alla gente
(«Pannocchie a una dracma») la mia
infanzia dentro quel giallo ambrato.

(Da "Il grillo della Suburra", 1975)





DA DOVER A CALAIS
di Piero Bigongiari (1914-1997)

Circoli, non più che circoli, si allargano all'orizzonte
con una tale perfezione.
Il pianto fisionomico dell'uomo
piange sull'orizzonte, lo sorveglia:
strano sorriso che piange, chi sa perché,
sulla differenza che si colma,
sulla frontiera che non esiste: è un centro
che si allontana concentrico per deconcentrarsi
e sorridere piangendo.
                                Se una riva s'allontana
un'altra riva s'avvicina. Un fiore
cade nel vuoto del vulcano in luogo di Empedocle,
ritrova il rosso scuro della fiamma magmatica anche se cade nella Manica
donato a te piccola Europa del grande cosmo che avviene poroso.

(Da "Moses", 1979)





IN BATTELLO SUI LAGHI DELL'HAVEL
di Paolo Buzzi (1874-1956)

Mappe di verde,
in voi l'anima si tuffa e nuota
come la lingua sitibonda nella coppa di menta,
come la murena ebbra negli acquari della sua felicità.
Grosses Fenster, Frei Bad, cupe di fondiglio smeraldino,
riversatemi una boccia d'assenzio nel cuore!
O Wansee, voglio gustare il tuo filtro,
o Havel, fammi fradicio morto del tuo alcool cilestro!
Si salpa, fra i cigni. Il battello bianchissimo
è, un poco, il più grande fra loro.
Guardo le ombre profonde dei flutti,
l'immane foresta subacquea
che copia l'emerso paese di foglie.
Tutto è brivido liquido che trasporta.
L'anima s'increspa d'onde piccole come una laguna.
Adoro le isole minime a rabeschi verdi
quasi palme su baveri d'accademici di Francia:
e penso ad esilii, a nidi, a talami d'amache in meandri.
Rotano i mulini a vento sul filo dell'aria
orologerie enormi
del tempo e dello spazio che passa.

(Da "Versi liberi", 1913)





TOLEDO
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

La testa piena d'icone e spine
Vado con le spade
Fuori Porta della Visagra.
Vado a Santa Maria la Blanca
Vado sul ponte d'Alcàntara.
Vado al fiume coi cani ciechi
Vado con tutte le pietre
E il Conte muore,
Il conte muore in tutte le ore.

(Da "Canzoniere amoroso", 1958)





LIFFEY RIVER
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

La Birra Guinness ha molte porte scure 
sui docks e qualche lume 
sparso in un lento 
regno di chiatte e di vagoni, 
di ruggine vagante lungo il fiume, 
dove il cigno e il gabbiano sono amici 
col petto bianco puntato contro il fango. 
Più avanti, a lato della foce, 
un prato di trifoglio nella pioggia: 
in mezzo vi s'ammucchiano le nostre 
giacche, le anime e i loro 
segreti scoloriti, le belle 
bottiglie tracannate 
da una gola tenera, feroce. 
E Cristo passa, 
astro avvolto di nebbia o nido 
per le stanche farfalle che partono da noi, 
dolce luce d'olio. 

(Da "Partenza da Greenwich", 1955)





SASTAVCI
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Prendi i miei occhi, prendi i miei occhi, Sastavci!
perché ti occorre un occhio umano
per specchiare le tue tenere nebbie,
gli arcobaleni che si levano in volo
come farfalle sul tuo gran fiore d'acqua
dai petali eternamente riversi.

Prendi i miei orecchi, prendi i miei orecchi, Sastavci!
A che pro la tua voce senza ascolto,
tanta invitta ostinazione di musica,
se nessuno conta le tue brezze e i tuoi angeli,
nessuno trema alla tua ira o si esalta
al rintocco delle tue fonde, invisibili campane?

Eppure no, tu non vuoi specchio né conchiglia!
È terribile il vuoto lucente
dal quale non riusciamo a emergere per te.
Ecco, ci allontaniamo, ed è come se mai
occhio né orecchio creato ti fosse passato davanti.

Nulla ha turbato la tua solitudine.
E invece noi ce ne andiamo pensosi,
ravvisando nel nostro stesso cuore
l'abisso e il canto di Sastavci.

(Da "Terra senza orologi", 1973)





LA DOMENICA DI BRUGGIA
di Marino Moretti (1885-1979)

Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la tristezza
del giorno domenicale,

del giorno crepuscolare
nel quale l’anima prova
il bisogno d’una nuova
solitudine, e d’andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia!

Qui nessun ti vuol più bene,
qui nessuno ti vuol più,
e tu, dolce anima, e tu
va pur dove ti conviene:

ti conviene fare un viaggio
per cacciare un poco l’uggia
ed andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio.

          *

Oh dolcezza del mio cuore,
dei miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi,
van sul pio Lago d’Amore;

van gli uccelli frettolosi
frettolosi sui canali,
vanno insieme, uguali uguali,
sotto cieli freddolosi;

nel mattino che par sera,
tra la nebbia fine fine
vanno insieme le beghine
le beghine alla preghiera;

nel mattino che par sera,
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera,

vanno là presso l’altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
un desio folle d’andare...

sì, di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Oh dolcezza del mio cuore!
Tra la nebbia fine fine
vagan meste pellegrine
presso il pio Lago d'Amore,

e guardando il bel paese
che di nebbie ancor s'ammanta
pregano pregano Santa
Elisabetta ungherese!

Lenta lenta lenta va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità,

nell'eterno mezzo lutto,
mentre il giunco tristemente
s'è chinato a bere il flutto
della placida corrente.

Il tintinno d'una folla
di campane fa tremare
lievemente la corolla
d'uno smorto nenufare;

scioglie il salcio la sua chioma
e il suo pianto nel canale
e diffondesi un aroma
pio d'incenso e di messale;

s'alza il tiglio da una corte
a guardar l'acqua che va
nella grigia immensità,
nelle braccia della morte:

laggiù in fondo, nelle amare
solitudini ove anch'io
sarò un dì col mio desio
implacabile di andare...

sì, di andare fino a Bruggia
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

Nel viottolo dai tetti
rossi e azzurri, lustri e bassi
fanno i lor piccoli passi
verso il ponte i zoccoletti;

nella piazza del Trecento
verso il pio Lago d'Amore
i mantelli di due suore
vanno via gonfi di vento;

in stanzette linde e tristi
presso tende di percalle,
sotto mani ossute e gialle
sboccia sboccia il punto mistico,

(i giacinti al balconcino
che s'affaccia sul canale,
i gerani al davanzale,
le candele all'altarino,

e sul tombolo i profili
di Suor Anna e di Suor Rita,
e il passare delle dita
intreccianti ratte i fili);

sotto aguzzi e lustri tetti,
sotto mani ossute e gialle,
sboccian facili i merletti
come i fiori dal percalle,

e han l'odor di sacrestia
della tepida Casina,
sotto un guardo di beghina,
sotto un guardo di Maria.

Ma poiché scende la sera
lascian tacite il lavoro
le beghine, e vanno in coro
vanno in coro alla preghiera;

e poiché scende la sera
vanno unite unite unite
le romite le romite
le romite alla preghiera;

vanno là presso l'altare
del dolcissimo convento
mentre io sento io sento io sento
il desìo d'andare... andare

sì, sì andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia.

          *

O dolcezza del mio cuore,
de' miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni, i cigni bianchi
sovra il pio Lago d'Amore;

lenta lenta ancora va
nei canali l'acqua verde
e co' suoi cigni si perde
nella grigia immensità:

e sull'umile città
che dal tempo s'allontana
piange piange la campana
dall'alto del Beffroi;

e nell’aria che s’annera
al cader del vecchio giorno
piangon essi tutt’intorno
i "carillons" della sera...

È in questo crepuscolare
giorno che l’anima prova
il bisogno di una nuova
solitudine, e di andare...

e di andare fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio
per vedere un paesaggio
lagunare che si aduggia,

e di far questo viaggio
per cacciare un poco l’uggia,
fino a Bruggia, fino a Bruggia,
fino al vecchio beghinaggio!

(Da "Poesie 1905-1914", 1919)





TOLLBRIDGE
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

A un sole di salnitro grigio di maestrale
i gabbiani di Tollbridge
urlano sotto l’arco di ferro del Sognefjord
che ripete schemi di fughe
all’aria lanciata sui tralicci
sottili. Il Nord salta sulle isole
di pietra barbara, istiga i suoi mostri
con immagini vere, spreme il succo
dei frutteti di mele nel suo
lungo giorno notturno. Luce
uniforme sui colori delle case di legno
e le siepi di filo a raggi di spine.
Quanto mio futuro posso contare
sullo schermo di sigle
impassibili, di apparenze!
Da questo eterno incontaminato,
in uno spazio di macigni, di alberi
norvegesi, non grido di paura
alla natura che precipita
mentre cerco un tempo senza forma.

(Da "Dare e avere", 1966)





DALL'OLANDA: VOLENDAM
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Qui acqua cent’anni fa
- ripeteva la guida Federico -
oggi polder.
                 Vita
tra polder e diga, qui c’è posto
per la proceazione solamente
e la difesa della morte. Questo
dicono le facce arrossate dal freddo
fuori dalla messa cattolica 
a Volendam, la nenia 
del vento volubile tra i terrapieni.
L’amore è di dopo, è dei figli
ed è più grande. Impara.

(Da "Gli strumenti umani", 1965)





DALLA TORRE EIFFEL
di Sergio Solmi (1899-1981)

Nascevi mentre declinava il secolo,
sorgeva la speranza. Era la dolce
Europa. Sterminate
oscure moltitudini discese
in proscenio, tumultuando urgevano
all’avvenire. Gli ingegneri armati
di folgori violavano
la notte millenaria. Ma nei calmi
viali del Campo di Marte frusciavano
brillanti limosine, in bianco e rosa
passava Odette de Crécy. 
                                     Eri sempre
la dolce Europa, eri la speranza.
Oggi è ancora la città enorme a picco
- neri edifici, rosse insegne -, e il chiaro
anello della Senna. Ma, su questo
vertice estremo
di ninnolo gigante, ci sentiamo
gli sconfitti superstiti
raccolti intorno all’ultima bandiera.
Per te, in un campo e l’altro, combattemmo
e ti perdemmo alla fine. Due volte
in sangue faticoso
si volse la speranza. Oggi si spostano
le mire, il fior di fuoco si dirama,
altre isole l’ambiguo mare svela,
altri nomi s’accendono, altri mondi.
Ma noi siamo feriti, e vecchi, e stanchi.

Ecco, nel cielo occiduo balena
la perenne battaglia inesauribile
si fa e sfa la cangiante
geografia dell nubi. A noi ne giunge
solo un lamento vano... o lo stridio
della gabbia che scende lungo i cavi,
lungo gli aerei dedali d’acciaio
incrociato, lungo la curva zampa
scheletrica d’insetto «liberty».

(Da "Poesie complete", 1974)

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