mercoledì 6 febbraio 2013

Un ricordo di Sergio Corazzini


Sergio Corazzini è considerato il poeta principe, insieme a Guido Gozzano, della corrente poetica denominata "crepuscolarismo"; La sua figura, unica e imparagonabile, è stata a volte mitizzata per motivi che sono riconducibili alla sua brevissima esistenza (morì a soli ventuno anni di tisi) e al suo immenso talento poetico che gli permise di ottenere risultati straordinari nei pochi anni in cui potè dedicarsi intensamente alla scrittura di versi che lo pongono al vertice di tutta la poesia italiana novecentesca e non solo. Le prime poesie di Corazzini, alcune delle quali in dialetto romano, apparvero su riviste come "Pasquino", "Rugantino", "Marforio" e "Capitan Fracassa". La sua prima raccolta poetica uscì nel 1904 col titolo "Dolcezze", chiaro riferimento ad una sezione delle "Myricae" di Giovanni Pascoli; seguirono "L'amaro calice" (datato 1904 ma pubblicato nel 1905), "Le aureole" (1905), "Piccolo libro inutile" (comprende poesie di Alberto Tarchiani, 1906), "Elegia" (frammento, senza data ma 1906), "Libro per la sera della domenica" (1906). Tutti questi libriccini ebbero come editore la Tipografia cooperativa operaia romana. La malattia che colpì Corazzini già dall'adolescenza peggiorò velocemente e il poeta, prima di morire nel giugno del 1907, fece in tempo a pubblicare qualche altra poesia su rivista. Un primo volume che raccoglie gran parte della sua opera in versi uscì postuma nel 1908 ("Liriche", Ricciardi, Napoli); soltanto nel 1968 venne stampato da Einaudi, in Torino, un libro con le "Poesie edite e inedite".
Per quello che riguarda i poeti che più influenzarono Corazzini, oltre al già citato Giovanni Pascoli si possono aggiungere anche gli italiani Gabriele D'Annunzio (ma solo quello del "Poema paradisiaco"), Domenico Gnoli (alias Giulio Orsini), Cosimo Giorgieri Contri, Corrado Govoni e Tito Marrone. Tra i poeti stranieri molta importanza ricoprirono per lui i tardo simbolisti franco-belgi come Maurice Maeterlinck, Francis Jammes, Jules Lafourge, Georges Rodenbach, Albert Samain, nonchè un poeta fondamentale che fu riferimento per generazioni di poeti: Paul Verlaine.
Corazzini influenzò anche altri poeti romani che ebbe come amici, coi quali organizzò un vero e proprio cenacolo in Roma, dove avvenivano incontri e declamazioni di versi che sono stati ricordati in alcuni saggi dagli stessi protagonisti di questi eventi. Tra i poeti che fecero parte di questo cenacolo, molti dei quali non pubblicarono mai libri di poesie, si possono citare: Alessandro Benedetti, Umberto Bottone, Antonello Caprino, Giuseppe Caruso, Stefano Cesare Chiappa, Giorgio Lais, Remo Mannoni, Guido Milelli, Guido Ruberti, Alberto Tarchiani, Alfredo Tusti, Donatello Zarlatti, Mario Zarlatti. Accanto a questi si ricordano i nomi più importanti di Fausto Maria Martini, Corrado Govoni e Tito Marrone; senza tralasciare il fatto che Corazzini fu amico di poeti che non vivevano a Roma come Aldo Palazzeschi e Marino Moretti, coi quali stabilì dei rapporti epistolari recensendo anche qualche loro opera poetica (mi riferisco a "I cavalli bianchi" di Aldo Palazzeschi). Voglio concludere questo ricordo di Sergio Corazzini trascrivendo la sua poesia più famosa, la sublime "Desolazione del povero poeta sentimentale", capolavoro assoluto che contiene dei versi non paragonabili ad altri per sincerità e bellezza.


Sergio Corazzini (1886-1907)


DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE


I

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?



II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.



III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.


Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.



IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.



V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.



VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.



VII

Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.



VIII

Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.



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