È il giovedì santo.
Una giornata torbida. Spio le vicissitudini della luce nello specchio di contro.
Una nuvola passa. Una nuvola si dirada in boccoli come un vello tra le mani di uno scardassatore.
Il sole vien meno, e pare che tutto si freddi. Lo specchio si congela come una pozza quadrangolare.
Sotto le lane la mia pelle rabbrividisce.
Il silenzio ha la qualità del silenzio antelucano.
I campanili non hanno più voce. I bronzi, affaticati dalle vibrazioni, riposano con la bocca in giù piena d'ombra. Le corde penzolano lisciate e unte in due luoghi dalle pugna del campanaio.
Quanta tristezza sparsero su ogni ora dei miei giorni passati!
Tuttavia questo silenzio insolito non mi dà pace. La tristezza non mi viene più per l'aria, non più mi viene dall'alto. Oggi è accosciata ai miei piedi, senz'ali. Dorme, e nel sonno sussulta.
(Da "Notturno" di Gabriele D'Annunzio, Treves, Milano 1921, pp. 448-449)
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